Libreria delle donne di Milano

liberazione - 3 maggio 2008

Judith Butler: Per fare movimento mettiamo a frutto quello che ci divide

Anna Simone

L'arrivo di Judith Butler e di Wendy Brown in Italia - invitate il 27 marzo a tenere due conferenze su "Sovranità, confini, vulnerabilità" da Giacomo Marramao e da Ida Dominijanni presso l'Università di Roma Tre - ha consentito alla gran parte del movimento femminista italiano, nelle sue molteplici anime, di discutere, a volte anche animatamente, di gender, sex, orientamento sessuale. Noi le abbiamo dedicato un Queer ("Butler oltre Butler", 23 marzo) prevalentemente orientato nel comprendere i punti di novità e di rottura del suo pensiero e su come avrebbe potuto farsi "pratica" in Italia. Tuttavia, quando si scrive "su" un'autrice o "su" un autore, si corre sempre il rischio di forzare parti del loro pensiero per orientarli nella direzione di chi cerca di tradurlo ed interpretarlo. Quest'intervista a Judith Butler vuole essere, quindi, una sorta di completamento di quel numero di Queer , ma anche un'opportunità in più per comprendere meglio punti di unione e frizione del femminismo contemporaneo. Un modo per sciogliere nodi e per riattivare, all'interno del femminismo, un lavoro di comunanza, di relazione, laddove per relazione si intenda anche una forma possibile del conflitto tra generi, tra culture e all'interno dello stesso genere.

Dopo l'uscita di "Gender Trouble" nel '90 negli Stati Uniti ("Scambi di genere", Sansoni) hai cercato di rivedere le tue tesi sul "queer" in "Bodies that matter" ("Corpi che contano", Feltrinelli) apparso nel '93 sempre negli Stati Uniti. In Italia è uscito prima "Corpi che contano" e poi "Scambi di genere". Perché secondo te è meglio lavorare sul "criticamente queer" piuttosto che sul "queer", così come paventi in "Corpi che contano"? Hai temuto che il queer - codificatosi nel frattempo all'interno delle discipline accademiche - dopo "Scambi di genere" divenisse a sua volta una costruzione identitaria?
All'epoca la mia sensazione era che il queer potesse diventare un concetto identitario. Solo con ironia, penso, si può dire: "Sono queer". E comunque io preferisco intendere "queer" come verbo, una certa pratica di pensiero critico su come il genere e la sessualità siano in relazione. Inoltre "queer" indica anche una certa apertura alla possibilità che il genere e la sessualità siano accostati in modi non completamente prevedibili e per i quali non abbiamo un linguaggio, né una pratica pronta. Pensare o agire criticamente coincide con il non dare per scontati certi tipi di distinzione (che includerebbero la distinzione tra femminista e queer, per esempio). Significa anche considerare che non c'è niente a proposito della designazione queer che ne impedisca un uso politico a noi sgradito. Il termine "criticamente queer", quindi, voleva suggerire un certo modo di fare attenzione a come funzionano i significanti politici e a non dimenticare gli obiettivi politici generali che vogliamo che quei termini sostengano e realizzino.

In "Undoing gender" ("La disfatta del genere", Meltemi) la critica al dispositivo della norma eterosessuale, inteso come principio fondativo di qualsiasi codificazione sociale, giuridica, culturale e politica è diventata anche una critica più chiara e diretta al pensiero della differenza sessuale europeo (citi Braidotti, in particolare). O meglio, mi è sembrato che sollevassi delle perplessità. Ma come fare per praticare una politica dell'"agency", di un'azione che è al contempo soggettivazione, senza avere più riferimenti di sex e gender? Se proclamiamo la "disfatta" del genere a partire da cosa poi dovremmo posizionarci?
Devo procedere con cautela nel rispondere alla tua domanda. Non penso ci sia una "tradizione della differenza sessuale europea". Esistono diversi approcci alla questione della differenza sessuale e in Undoing Gender chiarisco che la mia posizione è un po' quella di assumerne alcuni in modo critico e quindi produttivo. Non penso che una pratica del queer "non abbia piu" riferimenti legati alla sessualità e al genere. Dobbiamo avere questi riferimenti, ma la differenza politica del nostro agire deve consentirci di attivare delle abilità per trovare modalità più aperte e produttive per risignificare questi stessi riferimenti. Non sono per l'abolizione del genere - temo che il titolo italiano del mio libro ( La disfatta del genere ) non descriva accuratamente il significato di "undoing" gender. Quello che sostengo è che le norme che costruiscono il genere sono anche quelle che causano un certo nostro "disfarci" ("undo") di esse. Ci separano in maschile e femminile in quanto esseri umani. Ma in inglese "essere disfatto" ("to be undone") indica anche una condizione del desiderio e, in questo senso, l'atto di disfare norme restrittive di genere può essere l'occasione per una nuova vitalità del desiderio. Penso che dobbiamo cambiare e innovare i nostri riferimenti alla sessualità e al genere per ripensarli da capo, ma non penso che si debbano abolire le categorie di sesso e genere.

Negli ultimi tuoi testi, "Precarious Life" ("Vite precarie", Meltemi), "Critica della violenza etica" (Feltrinelli) sino a "Chi canta lo Stato-Nazione" con Gayatri Spivak (appena edito in italia da Filema) ti interroghi su Hannah Arendt, sul totalitarismo e sul tema del "diritto ad avere diritti", pensando anche alle migrazioni e al popolo palestinese. Secondo te è più importante, da parte dei movimenti femministi contemporanei, pensare ad una rifondazione del concetto stesso di politica o sarebbe più utile proseguire nell'insegnamento foucaultiano? Capire, cioè, come continuare a praticare la resistenza nei confronti dei saperi-poteri del presente? Dobbiamo interrogarci sulla crisi della politica o dobbiamo continuare a chiederci chi e come può prendere la parola per decostruire questa stessa idea della politica?
Non sono sicura della contrapposizione che mi stai proponendo. Mi sembra che dobbiamo essere in grado di pensare alle condizioni nelle quali i diritti si possono esercitare, specialmente quando questi diritti non sono ancora codificati da qualche legge in vigore. L'intero movimento anti-apartheid, per esempio, ha dovuto ricorrere a diritti che erano già in vigore in altri sistemi giuridici ma non in quello del Sudafrica. Alcuni pensano alla condizione in cui i diritti si esercitano facendo ricorso alla tradizione della legge naturale, altri suggeriscono che dobbiamo prendere a prestito diritti da altri sistemi giuridici, da altre convenzioni che sanciscono principi di uguaglianza, per metterli in relazione con contesti politici dove non è ancora riconosciuto quel diritto specifico che ci interessa. Secondo me non si "fondano" nuovi ordini politici ex nihilo , ma sempre attraverso una negazione di un ordine esistente e attraverso l'amalgama, l'assimilazione di altre convenzioni che sono a disposizione trasferendole da un contesto all'altro. Non saprei dire se questa posizione sia foucaultiana o arendtiana. Sicuramente però Foucault deriva parti della sua teoria della agency dalla convergenza dei campi discorsivi (concordo su questo), mentre Arendt propone un modo per pensare all'esercizio dei diritti come esercizio performativo (e concordo anche su questo).

Negli ultimi mesi il movimento femminista italiano è rinato attraverso una grande manifestazione di piazza che si è tenuta il 24 novembre scorso contro la violenza maschile sulle donne. Per la prima volta dopo molti anni il femminismo italiano "etero", se vogliamo usare queste categorie un po' fuori dal tempo, ha sfilato con il "lesbo-femminismo". Un successo che tende a spostare il femminismo contemporaneo più sull'asse della lotta alle forme di discriminazione nei confronti dei migranti, dei gay, delle lesbiche eccetera, dell'anti-razzismo piuttosto che riconsolidare la categoria della "donna" in quanto tale. Questo spostamento, tuttavia, non è affatto scevro da problemi e da ritorsioni identitarie. Anche qui come possiamo, secondo te, provare a soggettivarci, a praticare il tuo pensiero, senza cadere nella trappola delle identità, delle codificazioni dei movimenti cosiddetti di "minoranza"?
Penso che la cosa più importante sia ricordare a cosa ci stiamo contrapponendo. Adesso che Berlusconi è tornato al potere in Italia sarà importante per il movimento femminista tenere a mente precisamente i temi centrali: contestare la violenza sulle donne, assicurare salari paritari, garantire liberta' riproduttiva, tanto per citarne alcuni. La politica di coalizione, di concerto, non richiede che tutti i partecipanti condividano la stessa sessualità o, di fatto, lo stesso discorso sulla sessualità. E non ci si deve fare da "specchio" per poter lavorare insieme. Forse possiamo restare aperte anche all'idea che ci possano essere antagonismi all'interno della politica femminista e progressista che si esprime sulla sessualità. Lavorare insieme non significa che quegli antagonismi debbano essere risolti. Devono solo trovare un modo di coesistere produttivamente. In altre parole, un movimento politico, per restare forte, deve trovare modi di dare rifugio e forma ai propri antagonismi interni e di distinguerli dai veri pericoli - diseguaglianze, ingiustizie - che il movimento si propone di combattere. Il mio istinto mi dice che non dobbiamo "essere le stesse, tutte eguali" sulle questioni che concernono il desiderio o addirittura il credo di ognuna di noi. Bisogna lavorare insieme al fine di mantenere i diritti fondamentali e alcune politiche in grado di consentire alle persone di tutti i generi di sopravvivere e prosperare. Dobbiamo lavorare affinché vi sia questa base comune.

Vorrei chiederti ancora molte cose ma non è possibile. Solo un'ultima curiosità: Hegel, Foucault, Althusser, Arendt, sicuramente non Lacan. Quale tra questi autori ti ha influenzata di più?
Resto probabilmente un'hegeliana. Hegel ha mostrato come de facto siamo tutti "in pericolo", tutti esposti, gli uni rispetto agli altri, ci ha mostrato che siamo tutti "precari", in relazione gli uni con gli altri. Inoltre ci ha anche mostrato come la lotta per il riconoscimento possa fornire un'alternativa al conflitto violento. Foucault mi ha insegnato che il riconoscimento può avvenire solo attraverso norme stabilite e che talvolta la nostra sopravvivenza dipende dal trovare il limite e l'oltrepassamento di queste stesse norme. Simone de Beauvoir, invece, a partire dalla sua articolazione del "donne si diventa", mi ha indubbiamente permesso di vedere il dinamismo e l'apertura del genere. Io sono tutte queste cose.

Traduzione di Glenda Garelli