Libreria delle donne di Milano

il Manifesto - 4 agosto 2012

Ottantadue secondi di libertà
la saudita Wojdan sul tatami
Matteo Patrono

È durata poco più di un minuto la prima volta di una donna saudita ai giochi ma ne è valsa la pena. Eccome. Ottandadue secondi per essere rovesciata sul tatami da un'avversaria molto più forte di lei, rialzarsi e confessare felice. «Ce l'ho fatta, che bello essere alle Olimpiadi». La partecipazione della judoka Wojdan Ali Seraj Abdulrahim Shahrkhani passerà alla storia come un momento altamente simbolico, non solo perché nel regno del Golfo le donne non possono lavorare, viaggiare, guidare, nemmeno andare all'ospedale senza il consenso di un parente maschile, figurarsi fare sport. Ma perché anche tutta la diatriba col Cio sullo hijab che la ragazza avrebbe dovuto indossare per volere del padre (pena il ritiro dai giochi), si è risolta alla fine con l'utilizzo di un copricapo elastico nero in tutto simile alle cuffie delle nuotatrici. Nessun velo insomma, quasi a rendere palese, volontariamente o meno, l'uguaglianza di tutte le donne dentro il recinto dei cinque cerchi. Fuori dal quale, la vita di Wojdan continuerà a essere piuttosto complicata, forse anche di più considerando il fastidio con cui gli oltranzisti religiosi del suo paese hanno accolto questa sfida. Ma il messaggio è passato e altre atlete saudite dopo di lei verranno, anzi sono già qui visto che assieme a Shahrkhani c'è anche Sarah Attar, una ottocentista che vive e si allena in America. E per la prima volta nella storia dei giochi, ogni nazione ha almeno una rappresentante femminile in squadra.
Oltreché simbolica, la partecipazione di Shahrkhani è stata anche totalmente platonica. Nel senso che per quanto robusta e ben piazzata, la judoka saudita è una cintura blu alla sua prima gara internazionale e di fronte aveva invece una portoricana piuttosto esperta, Melissa Mojica, 28 anni, cintura nera, numero 24 del mondo nella categoria 78 kg. Sull'età di Wojdan non v'è certezza: ufficialmente, per il Cio, ha 16 anni; il padre ha detto tra 17 e 18, per il sito della federazione saudita 19. A guardarla nel suo judogi di almeno un paio di misure più grande di lei, volto paffuto, sguardo spaesato, sembrava una ragazzina.
Quando ieri mattina si è affacciata all'uscita del tunnel che immette nell'arena del judo all'ExCel Center, aveva alle spalle il fratello, un armadio compatto, che era lì per rassicurare la sorella, visibilmente emozionata. Un'aggiustata al copricapo, uno scambio di battute con la signorina del Cio e via verso il tatami, accolta dal saluto caloroso del pubblico che sapeva che quello non era un incontro qualunque. Poi, giusto il tempo di sfiorare l'avversaria, rifilarle un calcetto, abbozzare invano una presa. Appena quella l'ha acchiappata per il collo, Shahrkhani è stata messa ko dal più facile degli ippon. Il cronometro segnava 3.38 sui 5 minuti da combattere, lei si è alzata, ha rimesso in ordine l'hijab, ha salutato giudice, avversaria, pubblico ed è uscita di scena, presa per mano dall'addetta del Cio e per il braccio dal fratello.
Ovvio che ci fosse la ressa tra i media per tentare di avvicinarla prima del ritorno negli spogliatoi. All'inizio ha sussurrato qualche parola attraverso un dirigente della federazione saudita. «Sono orgogliosa di essere qui alle Olimpiadi a rappresentare il mio paese, grazie a tutti quelli che mi hanno sostenuta». Poi appena è arrivato il padre, si è sciolta un po' di più. «Avevo molta paura, il pubblico per fortuna mi ha aiutato a superarla. Queste sono occasioni che capitano una volta nella vita ed è un peccato non aver vinto la medaglia ma prima o poi ci riuscirò».
Il padre Ali, un giudice di judo, era commosso. «Lo ammetto, ho pianto come un bambino. Non l'ho mai vista così sorridente, alla fine del match è venuta da me e mi ha detto: papà ce l'ho fatta». La ragazza allora ha mollato i freni. «Spero che questo possa essere l'inizio di una nuova era, mi piacerebbe diventare un punto di riferimento per le donne che vogliono fare sport». A quel punto il padre se l'è portata via, per evitare guai con Re Abdullah e non dover rispondere a domande sul velo della Discordia. «Lo hijab? Nessun problema», ha invece commentato l'avversaria portoricana. «Era importante che la ragazza potesse gareggiare, indipendentemente dalla sua religione. Questo è il judo».
Se le parole felici di Shahrkhani avranno mandato su tutte le furie chi a Riyad pensa sia un disonore per una donna combattere davanti a un pubblico maschile, quelle della velocista afghana Tahmina Kohistani devono aver fatto tremare i palazzi di Kabul e spiegano bene quanto sia ancora lunga la strada affinché l'Islam radicale accetti anche solo l'idea di sport femminile. Kohistani, 23 anni, è l'unica atleta afghana presente a Londra e ieri, giorno d'esordio delle gare di atletica, è stata la più lenta nelle batterie dei 100. Eppure il suo tempo di 14.42 pare un trionfo se paragonato agli ostacoli che ha dovuto superare per venire ai giochi. «A casa mia c'è gente che fa di tutto per impedirmi di allenarmi. I tassisti si rifiutano di portarmi allo stadio, gli oltranzisti mi molestano mentre corro. Ma io sono qui e anche se so che non avrei mai potuto competere per una medaglia, è come se avessi vinto l'oro. Mi ero quasi dimenticata quanto sia bello correre davanti a tanta gente chef a il tifo per te». Pure lei ha corso con uno hijab sportivo, quasi un cappuccio che spuntava da sotto la maglia. «Mi spiace che il mio popolo non apprezzi quello che faccio, lottare contro i pregiudizi è il modo migliore di rappresentare l'Afghanistan. Le donne afghane che oggi non possono uscire di casa, un giorno saranno fiere di me e di avercela fatta anche loro. Io sto provando ad aprire la strada». Corri Tahmina, corri.