Libreria delle donne di Milano

il Manifesto - 7 marzo 2009

Non di sola accademia
"Gender studies" e laboratori della cultura femminista sul confine fra
università e pratica politica.

La lingua non mente e la traduzione neppure, anche quando tradisce più
che tradurre. Fra l'inglese "Gendering the Academy" e l'italiano "Un
altro genere di università", titolo bilingue di un incontro europeo
sull'esperienza italiana dei gender studies svoltosi all'università
Roma Tre, c'è uno slittamento - voluto, in questo caso - non solo
semantico ma anche politico. Lo slittamento restituisce un'antica
differenza strategica che ha tenuto gran parte della cultura femminista
italiana a distanza critica dalla strada dell'accademizzazione
imboccata più decisamente, fin dagli anni Ottanta, in altri paesi
europei e negli Stati uniti: per dirla in breve, un conto è ricavare
una corsia preferenziale per i gender studies all'interno
dell'accademia ("gendering the academy"), un altro conto è modificare
l'accademia a partire dai laboratori femministi cresciuti dentro e
fuori di essa, puntando a costruire "un altro genere di università".
La differenza è antica, e attraversa dall'interno lo stesso femminismo
italiano: risale sempre agli anni Ottanta - lo ricorda Paola Bono
aprendo il convegno - il dibattito sull'opportunità di
istituzionalizzare o no, fino a che punto e con quali modalità, il
sapere critico radicato nel femminismo. Tornare ad affrontare oggi
questa materia significa però solo in parte ripercorrere gli stessi
conflitti e le stesse linee di demarcazione, fra le italiane e fra le
italiane e "le altre": in quasi trent'anni, molti ingredienti sono
cambiati, facendo giustizia sia delle posizioni più acriticamente filo-
istituzionali sia di quelle più ingenuamente anti-istituzionali. Pur
nella distinzione delle pratiche, sono comuni a molti dei laboratori
italiani una posizione "di frontiera", come la definisce Francesca
Brezzi, dentro-fuori l'accademia; la salvaguardia della radice politica
dell'elaborazione culturale femminista; il rapporto accorto, geloso
dell'indipendenza ma aperto alla collaborazione, con la governance
universitaria e con quella delle istituzioni territoriali, statali e
europee; e non ultimo, l'agio e la legittimazione guadagnati anche
dentro l'accademia grazie a pratiche inventate fuori (Serena Sapegno).
Restano tuttavia alcune differenze di prospettiva. C'è chi tutt'ora
vede in una più marcata istituzionalizzazione dei gender studies una
garanzia contro la discriminazione delle carriere femminili e per la
facilitazione dell'accesso alla ricerca delle giovani laureate (Ginevra
Conti Odorisio). E c'è di converso chi l'unica garanzia la vede in un
rilancio continuo del desiderio femminile di sapere e di politica, in
quella passione che produce "il miracolo di un evento discontinuo" che
da decenni non cessa di prodursi (Chiara Zamboni). C'è chi la cultura
femminista la vorrebbe più organica allo spettro disciplinare dei
saperi costituiti, e chi rivendica che si tratta di un sapere critico
per sua natura non solo interdisciplinare ma "indisciplinato", che tale
è bene che resti (ancora Francesca Brezzi). C'è chi pensa al rapporto
con le giovani generazioni nei termini più tradizionali di una
trasmissione dall'alto al basso, e chi lo concepisce nei termini più
rischiosi di una genealogia che si costruisce dal basso, secondo i
desideri emergenti e non secondo le tradizioni solidificate, neanche
quelle femministe.
Senonché entrambe queste prospettive si trovano di fronte ai
cambiamenti di contesto e di pratica intervenuti nel corso di un
trentennio, in Italia e altrove. Il confronto internazionale, a questo
proposito, si rivela come al solito assai istruttivo. La prospettiva
dell'istituzionalizzazione, ad esempio, presenta il conto dei suoi
limiti proprio nei paesi che l'hanno maggiormente sperimentata. Barbara
Einhorn, dell'università del Sussex, accenna ad esempio alla deriva di
spoliticizzazione che sottosta agli slittamenti progressivi dai women
studies ai gender studies, più sgraditi perché troppo marcati
dall'origine femminista i primi, più tollerati perché più sganciabili
da quell'origine i secondi. E Kathy Davis, dell'università di Utrecht,
denuncia come l'istituzionalizzazione dei gender studies comporti alla
lunga una costrizione del sapere femminile negli steccati disciplinari,
e un'accettazione dei criteri di efficienza, produttività e
managerialità che negli ultimi decenni hanno colonizzato tutte le
università occidentali quanto e più di quella italiana. Proprio dai
percorsi più istituzionalizzati viene dunque una domanda di
ripoliticizzazione del discorso "culturale" femminista. E curiosamente
ma non troppo, la stessa domanda viene proprio da molte di quelle
giovani che al femminismo si sono accostate, anche in Italia,
attraverso i gender studies o i corsi tenuti da docenti femministe
nelle università. Se è forte infatti fra alcune giovani la richiesta di
politiche per l'accesso alla ricerca, per l'allargamento dei ruoli di
ricerca e di insegnamento, è altrettanto forte in altre l'esigenza di
riscoprire la matrice politica del femminismo delle origini, in una
fase storica che domanda una nuova aggregazione su nuovi bisogni
politici.
Il dibattito sullo stato degli studi delle donne non può prescindere
infatti, come sempre, dal confronto sullo stato della parola
"femminismo" nel discorso pubblico, nei diversi contesti nazionali. Né
dall'analisi dello stato del mercato del lavoro, e delle nuove linee
per un verso di protagonismo, per l'altro di discriminazione che
attraversano il mondo femminile secondo modalità diverse da una
generazione all'altra. Né, infine, può prescindere dai problemi
relativi allo scambio fra fra donne (e uomini) di provenienza etnica e
culturale diversa, problemi che pervadono oggi il vecchio continente e
lo lacerano più di quanto non sia già avvenuto nei decenni passati nel
nuovo. Se il problema resta per tutte, per dirlo con Fabrizia Giuliani,
quello di godere del "grande capitale simbolico costituito dalla
produzione femminista internazionale senza essere condannate
all'irrilevanza" o a una posizione di eterne "late comers", si tratta
in primo luogo di acquisire fino in fondo la consapevolezza che quel
capitale è davvero grande, e non è minacciato ai pur ritornanti
tentativi di ridurlo all'irrilevanza. E viceversa, di non pretendere,
per tutelarlo e conservarlo, di metterlo al riparo dai conflitti
sociali, politici, culturali che inevitabilmente e fortunatamente lo
attraversano, lo sfidano, lo mettono alla prova.