Libreria delle donne di Milano

Da "Via Dogana" n. 91, dicembre 2009

Ipazia di Alessandria.
Agorà, un film di Alejandro Amenábar
di Elisa Varela Rodríguez

Ágora (in italiano Agorà, 2009) è il titolo del film del regista Alejandro Amenábar uscito nella prima settimana di ottobre nei cinema spagnoli. Il film è una megaproduzione (Usa e Spagna) di 126 minuti, distribuita dalla 20th Century Fox, e prodotta tra gli altri da Telecinco, Mod Producciones e Himenóptero. La pellicola - come si suppone in una produzione con queste caratteristiche - è curata per l'aspetto visivo: le inquadrature, i costumi, l'ambientazione, le scene di folla, gli interni (anche se a volte l'illuminazione delle scene di interni è un po' esagerata). È un film correttamente diretto e correttamente interpretato, ma che manca della forza che avevano alcune delle precedenti pellicole di questo giovane regista.
Di cosa tratta Agorà, che cosa ci vuole raccontare Amenábar?
Nonostante la pubblicità, il centro del film non è la filosofa Ipazia d'Alessandria, anche se ci mostra avvenimenti e situazioni della vita di questa grande astronoma e pensatrice. Il film è una mescolanza di generi, vuol essere allo stesso tempo un dramma, una storia romantica, un film d'avventura o d'azione, un affresco storico - a imitazione delle grandi epopee cinematografiche come I dieci comandamenti, Ben Hur, Cleopatra...
Agorà ha anche un marcato carattere didattico: mostrare gli effetti dell'intolleranza, in particolare dell'intolleranza delle due grandi religioni, l'ebraica e la cristiana, specialmente di quest'ultima, che con una lettura molto di oggi e forse mirata può facilmente essere identificata con la visione e l'atteggiamento - salvando tutte le distanze - dei "talebani", degli integralisti mussulmani, perché come loro i cristiani del film esibiscono tuniche nere, volti barbuti, fede cieca in Dio padre e nei suoi ministri, senza lasciare nessuno spazio alla riflessione personale. Ma se il film è una perorazione contro l'intolleranza, non vi ho colto una perorazione altrettanto forte contro ciò che è alla radice dell'intolleranza, della violenza, della contrapposizione e della guerra. Le scene violente il regista le ricrea direi quasi vezzeggiandole. In questo film la guerra affascina, come sembra affascinare una parte della storiografia maschile attuale, che non fa vedere come la guerra sia il fallimento della mediazione, della parola, della politica come arte del possibile.
Inoltre, nell'intento di biasimare qualunque tipo di fondamentalismo religioso, il film risulta, se mi si permette, un po' manicheo, in quanto rivendica la ragione - ma quale ragione? non c'è una ragione unica - in contrapposizione al credo e al vissuto religioso, dimenticando che molte creature umane hanno bisogno del sacro, della divinità, dell'esperienza religiosa per essere nel mondo.
Tra le distruzioni e devastazioni ricreate in Agorà, ce n'è una, per me particolarmente drammatica, che ha avuto una grande ripercussione per tutta l'umanità: la distruzione della Biblioteca di Alessandria. Anche qui si può fare un parallelismo con le distruzioni delle ultime guerre, nella ex Iugoslavia e soprattutto in Iraq - dove pare siano state distrutte opere che ci permettevano di conoscere le prime espressioni della scrittura, una manifestazione intellettuale fondamentale delle creature umane.
E di Ipazia, cosa ci racconta il film?
Ci mostra la maestra attorniata dai suoi discepoli, mentre insegna astronomia, filosofia, e politica, l'arte della relazione attraverso la parola. Ci mostra l'affetto e l'attaccamento della maestra per i suoi discepoli e di loro per lei e tra di loro. Si considerano un gruppo, un gruppo privilegiato, e di questo dà conto il film. Dato che il centro non è Ipazia, il regista non mette a sufficienza in rilievo l'agire politico di questa filosofa neoplatonica, la sua capacità di mediare tra il potere imperiale, i sacerdoti del panteon classico, i monaci e il clero cristiano, e gli ebrei. Ipazia non ha potere ma gode di grande autorità presso tutti loro e presso la popolazione di Alessandria, un'autorità che riuscirà a essere scalzata solo con l'accusa di magia nera, di stregoneria, una delle pratiche più temute dal popolo di questa città orientale.
Ci sono due scene in cui lo sguardo del regista mi piace. La prima è quando mette in bocca a Ipazia questa frase: "Tu puoi permetterti di non dubitare delle cose, io no", in un dialogo dell'astronoma con uno dei suoi ex discepoli che ora è vescovo di Cirene. L'altra mostra il suo bisogno di pensare, mettere in discussione il sapere dato per andare avanti nella conoscenza, e mostra anche come la felicità e libertà di una donna di scienza si radichino nel conoscere il mondo e i suoi/ le sue simili.
Nel film di Amenábar, a parte Ipazia e le prefiche che appaiono in qualche funerale, rare sono le donne; se ne vedono alcune tra la folla e nei tumulti di strada, ma poche. Certo, il film è un'epopea dell'Egitto sotto la dominazione romana e ai tempi della prima espansione del cristianesimo, e le donne partecipano poco alle epopee, noi partecipiamo alla vita. Inoltre il regista cade nella vecchia trappola di contrapporre donna libera / madre. Forse per questo non fa nessun riferimento alla madre della pensatrice. Compare invece il padre di Ipazia - per il suo ruolo di organizzatore della scuola e nella comunità dei saggi di Alessandria - così come i padri di altri. È come se Ipazia non fosse nata da donna, non avesse madre, né l'avesse il resto dei protagonisti e figuranti del film. Sicuramente le spettatrici e gli spettatori non possono vedere in questo film che cosa facevano, come vivevano - al di là delle possibilità e proibizioni cristiane, giudaiche e della cultura classica - le donne che abitavano ad Alessandria d'Egitto.
Possiamo recuperare la madre soltanto attraverso il rapporto di apprendistato - evocazione della relazione primaria della madre con la creatura - e l'autorità che i discepoli di Ipazia le riconoscono non solo come maestra filosofa e astronoma, ma anche - e questo sì si intuisce nel film - come consigliera e guida. Nel film s'intuisce anche che altri pensatori e autori ebrei, cristiani e classici riconoscono l'autorità di Ipazia, e persino alcune autorità religiose e civili. Tra queste ultime, ce ne sono alcune che la temono, la temono come filosofa e come politica per la sua chiarezza e non soggezione alle convenzioni e alle convenienze del momento.
Amenábar sembra avere la chiara volontà di sottolineare il modo di insegnare di Ipazia. La mostra in diverse scene a lezione con i suoi discepoli - un piccolo gruppo di veri discepoli, non seguaci, se ci atteniamo alla considerazione che applicava a sé Maria Zambrano ("sono discepola, non seguace, che è il contrario che essere discepolo") - per mostrare un sistema di insegnamento e di apprendimento diverso e distante dall'università di ieri e di oggi, dall'università che il regista ha abbandonato poco dopo esservi entrato. Un modo di insegnare in cui si valorizza lo sforzo del discepolo, il bisogno di sperimentare, e un modo di imparare in cui viene riconosciuta una grande autorità alla maestra, e in cui risalta il suo legame con i discepoli, e il loro con lei e tra di loro.
Tuttavia a Amenábar non interessa esplorare o lasciare aperta la possibilità che tra i modi di pensare che raccoglie (forme del pensiero antico, ebraico, cristiano) ci fosse il considerare Ipazia, come donna, e le altre donne, in maniere differenti. Gli interessa piuttosto insistere sui testi che preconizzano la segregazione e il confinamento delle donne nell'ambito domestico. Il film sottolinea i frammenti delle Scritture e di san Paolo in cui si ordina alle donne di velarsi, vestire discretamente, non abbellirsi e soprattutto pregare e tacere. In questo modo sembra che il regista voglia ingraziarsi a buon mercato quella metà dell'umanità che siamo le donne, recependo ciò che oggi la società ammette e riconosce per lo più, cioè che "la storia ha discriminato le donne", ma non intenda evocare - come potrebbe, dato che ha scelto una donna che cercava e valorizzava la sua libertà - il fatto che durante la storia abbiamo schivato con maggiore o minore successo la discriminazione, cercando il nostro modo di essere donne.
(Traduzione dallo spagnolo di Clara Jourdan.)