BASTA
CON L'EQUIPARAZIONE DELLE DONNE AGLI UOMINI
di Clara Jourdan
Il
13 novembre 2008 la Corte di Giustizia delle Comunità europee (Quarta Sezione),
in seguito a un ricorso per inadempimento promosso dalla Commissione delle Comunità
europee contro l'Italia, ha pronunciato una sentenza in cui dichiara: "Mantenendo
in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto
a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano
uomini o donne, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi di cui
all'art. 141 CE". (Come sappiamo, le età diverse sono 65 anni per
gli uomini e 60 per le donne, le quali però possono optare per continuare
a lavorare fino a 65.) L'art. 141 del trattato istitutivo della Comunità
europea riguarda il "principio della parità di retribuzione tra lavoratori
di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro
di pari valore". Principio sacrosanto, che in Italia, pur essendo già
presente nella Costituzione (art. 37), aveva trovato attuazione normativa con
la legge di parità del 1977 anche grazie alle raccomandazioni della Comunità.
La Comunità, infatti, all'origine voleva modernizzare la civiltà
europea e questo comportava aiutare le donne a superare lo svantaggio storico;
adesso però sembra che le voglia tenere a bada: non sia mai che possiamo
trarre guadagno dall'essere donna! Ma cosa c'entra l'età pensionabile
con la parità di retribuzione? Il collegamento è questo: in Italia
il regime pensionistico dei dipendenti pubblici è gestito non dall'Inps
come per le categorie generali di lavoratori bensì dall'Inpdap, cioè
dallo Stato stesso; secondo la Corte, si può configurare come un regime
professionale considerando l'insieme dei dipendenti pubblici come una categoria
particolare; in base a sentenze precedenti, una pensione corrisposta da un datore
di lavoro a un ex dipendente per il rapporto di lavoro tra loro intercorso costituisce
una retribuzione ai sensi dell'art. 141 CE, e l'età pensionabile fa parte
del trattamento. Come si vede, un'argomentazione a dir poco cavillosa, che fa
del principio di parità un assoluto fine a se stesso. Tuttavia ci sono
dei punti in cui sembra emergere una ragione umana non solo giuridica, forse l'invidia
del fratello per la sorella, quando per esempio la Corte dice che la legge italiana
dispone che le dipendenti pubbliche "possono percepire la pensione di vecchiaia
a 60 anni, senza tuttavia prevedere una facoltà analoga per i dipendenti
pubblici di sesso maschile" (punto 6). E più avanti (punto 43), di
fronte all'obiezione che anche altre categorie godono dello stesso regime pensionistico,
questo fatto "non può privare i dipendenti pubblici della tutela conferita
dall'art. 141 CE"! Sì, la parola è proprio "tutela".
Sembra una presa in giro, a meno che il senso della sentenza non sia proprio che
anche gli uomini debbano poter andare in pensione a 60 anni come le donne. Ma
non è così che è stata interpretata. L'interpretazione
unanime è che questa sentenza impone di aumentare l'età pensionabile
delle donne. Per la gioia di Confindustria: "Meno male che c'è l'Europa",
commenta "Il Sole 24 ore" del 16/12/2008, che auspica che l'Italia faccia
tesoro della sentenza come primo passo per cambiare tutto il sistema pensionistico.
E con l'accettazione di tutte le forze politiche e sindacali (a eccezione della
Cgil), che però chiedono "qualcosa in cambio" (asili nido, per
permettere a nonne e bisnonne di lavorare fuori casa). Questi i fatti. Non
spendo parole su Confindustria: è talmente evidente il suo interesse a
sfruttare di più le donne e in generale chi lavora, che si commenta da
sé. Ma forse potrebbe avere un po' di pudore a mostrare tutto quell'entusiasmo...
Non mi rivolgo nemmeno alle forze politiche di opposizione, la considero gente
perduta, che si è ridotta a correre dietro alla maggioranza per rosicchiare
qualcosa. Invece intendo aprire una polemica con la Comunità europea.
Il suo egualitarismo, che si rivela essere sempre più strumentale all'adesione
incondizionata ai principi dell'economia capitalistica di mercato che da sempre
l'hanno caratterizzata, è ormai diventato un fondamentalismo. È
ora di metterlo in discussione. Il femminismo italiano è sempre stato
critico verso l'impostazione del femminismo istituzionale della Comunità
europea, proprio perché l'idea di correggere le ingiustizie verso le donne
parificandole agli uomini si ritorce contro le donne stesse, innanzitutto cancellando
la differenza femminile e alla lunga anche togliendoci i pochi vantaggi materiali
che abbiamo, quando li abbiamo. Era già successo con il divieto di adibire
le donne al lavoro notturno (previsto dall'art. 5 della legge di parità):
nel 1992 una sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee in
nome dell'uguaglianza imponeva all'Italia e ad altri paesi di denunciare la convenzione
dell'Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) che vietava il lavoro notturno
industriale femminile (vedi "La differenza maschile", in Via Dogana
n. 5, giugno 1992); anche quella sentenza non aveva effetto diretto e immediato
sul lavoro notturno, che comunque era già spesso consentito dagli accordi
sindacali (il divieto era derogabile), ma portò a una modifica della nostra
legge in senso peggiorativo per le donne, lasciando il divieto solo per le madri
con figli piccoli. Allora è il momento di dire basta all'equiparazione
delle donne agli uomini. È una pena e una penalizzazione sempre più
evidente, e sempre più pesante da portare. I miglioramenti nel lavoro e
dappertutto li vogliamo perché siamo donne, non c'è da giustificarli
con la discriminazione. E i principi del diritto non vengono da dio, vengono dagli
uomini, non prendiamoli come sacri, si possono anche cambiare. |