23 Aprile 2012
Viviscuola

Donne e uomini nell’insegnamento

 

Nella puntata di vivalascuola dedicata all’8 marzo abbiamo parlato della femminilizzazione della scuola. Abbiamo visto che le insegnanti sono circa il 100% nella scuola dell’infanzia, il 95,6% nella scuola primaria, il 76.5% nella media, il 60.3% nella superiore. Questa realtà fa nascere molte domande. Come maestre e maestri vivono nel loro lavoro quotidiano la femminilizzazione della scuola? L’assenza di uno dei due generi in ambito educativo può nuocere ai bambini? Nascono difficoltà quando nel lavoro e nella relazione educativa si trovano a collaborare insegnante uomo e insegnante donna? Abbiamo rivolto queste domande a Donata Glori e Sebastiano Aglieco, di cui qui presentiamo le risposte. Quella che segue è la losro esperienza, ognuno dei lettori può aggiungere la sua.

 

Interrogare l’esperienza delle maestre può essere la strada
di Donata Glori

Una rivoluzione incruenta ha attraversato il ‘900

Il mondo è cambiato, nel nostro Occidente ma non solo, una rivoluzione incruenta ha attraversato tutto il ‘900 modificando la vita dalle fondamenta. Molte le donne uscite dal solo privato per inserirsi in tanti aspetti della vita pubblica, adattandosi spesso, conquistando grandi spazi a volte; più recentemente le donne hanno cominciato ad interrogarsi sui propri bisogni e desideri più profondi, sulla propria visione della politica e del mondo. Si sono trovate, a volte vittime altre protagoniste, dentro un patriarcato morente perché non più corrispondente all’emergere della libertà femminile e non più corrispondente alle trasformazioni e nuovi bisogni degli uomini, vedi le primavere arabe.

 

Vengo dalla politica delle donne, quella che non ama le quote, nemmeno quelle rosa, che si ispira alla differenza sessuale, come teorizzata e pratica dalla filosofa Luisa Muraro, dalla comunità filosofica Diotima e da tanti gruppi di uomini e donne che si tengono in relazione pur sparsi per l’Italia come le Città Vicine. La differenza sessuale intesa non nel senso di un insieme di caratteristiche che le donne avrebbero contrapposte ad un insieme di caratteristiche degli uomini, ma piuttosto quella che agisce come un’impronta non ignorata che ci fa mettere in gioco nei contesti e agire in modo anche imprevedibile, in relazione con i luoghi, il tempo e tutto il vivente. Differenza che non essendo codificata e mummificata non sappiamo da prima in cosa consista: è tutta da interrogare, quella maschile e quella femminile.

 

Ne ho ricavato un’abitudine a confrontarmi con le differenze e le teorie nel loro essere incarnate e collocate nel tempo e nei contesti. Stare con le donne mi è servito per trovare il mio sentire più profondo, sono abituata a confrontarmi anche in modo molto severo, ho avuto figure di riferimento forti, uomini e, soprattutto, donne, con cui ho imparato lo scambio profondo. Si impara ad essere genuinamente se stessi, essere se stessi è un apprendistato diceva la filosofa Simone Weil.

 

Come in cucina le brave cuoche
Da molto giovane ho considerato l’insegnamento un mestiere da poco che mai avrei scelto, non mi interessava, ad un certo mi ci sono trovata immersa per vicissitudini personali e, mettendomi in relazione con bambini e bambine e con la possibilità di luogo pubblico che la scuola mi offriva, mi sono fatta attraversare e poi ho cominciato ad amarlo e a sceglierlo questo lavoro anche quando avrei potuto cambiarlo.

 

Per venire ad alcune delle grandi modificazioni del ‘900, le donne sono state protagoniste insieme agli uomini dell’alfabetizzazione di massa che ha modificato l’Italia., ma poi, man mano, gli uomini hanno abbandonato la scuola soprattutto ai livelli degli ordini “più bassi” ma fondamentali, quelli più vicini alle creature piccole, e, ai giorni nostri, la responsabilità e il vivo della formazione è affidata quasi completamente alle donne, mentre agli uomini è toccata la parte teorica, la formulazione di riforme; questa separazione ha prodotto guasti che sono sotto gli occhi di tutti.

 

Come già ho detto in un precedente appunto pubblicato su Vivalascuola, fatte le dovute eccezioni, le donne sono riuscite a tenere alto il senso del proprio lavoro senza perdersi troppo nelle lagnanze di tutto ciò che manca, si sono anche arrangiate a fare ciò che si può con ciò che si ha, come in cucina le brave cuoche. Le donne hanno spesso gestito la scuola come una casa, le creature piccole se ne infischiano di ciò che manca, crescono in un qui e ora e non possono che assorbire e prendere tutto ciò che c’è intorno: il loro tempo è questo, non il futuro. Ma qui si apre un’altra questione importante: perché a fronte della capacità di rispondere alla realtà che preme, è poco percepibile tra le insegnanti il riconoscimento di questo sapere che conferirebbe loro autorità agli occhi di tutti?

 

Perché l’insegnamento è così poco appetibile?
La scuola è cambiata, non c’è dubbio, ma cosa non cambia? Si è già molto disquisito sulla questione, sui meriti e gli svantaggi di una scuola quasi tutta al femminile, inchieste ce ne sono a bizzeffe, inutile qui riportarle, una domanda può essere interessante fare agli uomini più che alle donne: perché l’insegnamento è stato ed è un lavoro considerato così poco appetibile? Vi si può leggere la traccia di una cultura maschile che si attarda in una vecchia concezione del sapere e dello status sociale di ordine gerarchico che pone al gradino più alto la teoria e all’ultimo la cura dell’esistente, della vita?

 

Provo ad entrare nel merito della scuola dove opero da 13 anni: quando ci sono arrivata c’era qualche maestro, le bidelle erano tutte femmine, ora sono femmine la dirigente, la segretaria amministrativa e le insegnanti, di maestri ce n’è uno solo, poi ci sono due assistenti amministrativi, i bidelli quasi tutti maschi, maschi due dipendenti saltuari del comune, i cosiddetti socialmente utili.

 

Le cose non funzionano benissimo e i bidelli li coinvolgiamo il meno possibile, un po’ ci si vergogna di chiedere a uomini incombenze della cura e forse loro stessi si sentono sminuiti nel sostenerle. La cura dei corpi e degli spazi ha un valore basso nella graduatoria del lavoro.

 

In linea di massima nella realtà foggiana, e non solo, aumentano sempre più le dirigenti e le insegnanti, mentre aumenta il personale maschile ai livelli più “bassi” e, questo, è un dato abbastanza nuovo, certo una delle ragioni può essere che in tempi magri di lavoro anche fare il collaboratore è fonte di reddito.

 

Ma può essere interessante stare a interrogare quest’ultima novità, magari gli uomini possono scoprire che è un valore la cura dei corpi, dei piccoli e degli spazi; nella mia esperienza la maggior parte degli uomini chiamati a incombenze di cura oppone quasi sempre la risposta che per contratto non gli tocca. È loro diritto rifiutare. Sui diritti le cose “spicciole” della vita non vanno avanti, perché le variabili sono infinite e occorre il famigerato buonsenso per capire che se un bambino vomita in classe, nel corridoio o per le scale, non si può andar a verificare su quale spazio tocchi pulire a chi.

 

La responsabilità di questa situazione è anche di un lavoro parcellizzato e dato in appalto a esterni con cui è difficile entrare in contatto e soprattutto stabilirne le responsabilità, e così non si va avanti e ogni tanto cadiamo nella nostalgia di quando le bidelle si occupavano di tutto e pensavano alla scuola come ad un luogo che gli apparteneva e lo curavano proprio come una casa, si facevano coinvolgere e dicevano la propria anche nel lavoro in classe, avevano rapporto con gli alunni e non poche volte si occupavano di consolare e rimediare a severità eccessive. Non sono nostalgica del passato, credo che si continui a cambiare tutti i giorni e tutto vada rigiocato e mediato e ho anche incontrato bidelli straordinari, soprattutto giovani, pronti a collaborare a dare consigli, a sostenere noi insegnanti e i bambini, ad amare la scuola, sentita come comunità educativa.

 

Molti uomini sono cambiati non poco
Molti uomini sono cambiati non poco, nel lavoro mi confronto spesso con padri consapevoli della cura che occorre nella formazione e nell’avventura che è per i piccoli farsi un’idea del mondo. Mi pare che un esempio possa essere quello che, nelle separazioni di coppie con figli, sempre più padri chiedano l’affido dei figli, anche quello condiviso su cui ho grandissime perplessità. Credo che indichi un nuovo desiderio di occuparsi delle creature piccole in tutti i passaggi della loro crescita. Sempre di più sono i padri che si fanno coinvolgere nelle attività didattiche e di sostegno alla scuola.

 

Certo ora la scuola pubblica non se la passa troppo bene, ma credo sia inutile attribuirne la responsabilità alla strabordante presenza femminile, la scuola è lasciata un po’ a se stessa perché la politica va in senso merceologico, quantitativo, tecnico ed economicista e i soggetti diventano sostituibili l’uno all’altro: il corpo, le emozioni, le differenze sono residui non contemplati e mi paiono essere elementi che le donne tengano abbastanza presenti, ma ancora troppo timidamente, ancora succubi di pretese oggettività in cui si casca quanto più si è disorientati.

 

Difficile dire se gli alunni e le alunne perdono qualcosa con insegnanti tutte donne, indubbiamente hanno bisogno di una pluralità di figure, di umanità differente perché rinforzino in maggiore apertura le possibilità della propria individualità. Sono assolutamente convinta che sarebbe molto meglio una presenza maschile più massiccia, educare è educarsi, è continuare a ri-tessere lo stare al mondo, a spingere per il cambiamento in un senso più pienamente umano, e l’umano è maschio e femmina.

 

Come già ho detto in precedenza quando i miei figli hanno frequentato la scuola elementare e c’erano i moduli (tre insegnanti che operavano su due classi) ho sempre cercato quelli in cui c’erano anche le poche figure maschili, così come ho scelto apertamente, ogni volta che ho potuto, di lavorare con maestri oltre che con maestre. Non mi sono pentita né nel primo né nel secondo caso, anzi i moduli in cui era presente la differenza sono stati per me vivaci, ricchi di possibilità per docenti e alunni e alunne, è dipeso da chi ho incontrato, dal desiderio di stare nel contingente senza smettere di guardare oltre, ad un’idea di mondo.

 

Detto questo, occorrono insegnanti che sappiano mettersi in relazione e confrontarsi, mettere in gioco aperture, saperi pieni di possibilità di fare esperienza, pieni di domande ma anche di alcune certezze, quelle sui beni comuni e inalienabili quali il valore di ognuno e ognuna, delle differenze, il rispetto per la terra.

 

Il sapere relazionale ha bisogno di circolare
Gli uomini possono pensare di aver perso forza ma forse occorre cominciare a pensare se è proprio quella forza che loro hanno perso ciò che serve per modificare l’esistente in senso più umano. E non invece rivolgere lo sguardo alla nascita e alla cura come dicono le teologhe Ina Praetorius e Antonietta Potente. Allora interrogare su questo l’esperienza femminile, come leva, come sapienza per tutti e tutte, può essere una strada.

 

Non è pensabile un mondo senza confronto, ma nemmeno si può pensare ad una parità salomonica, per esempio la soluzione egualitaria in tempo di crisi potrebbe essere, e prima o poi qualcuno lo proporrà, se non è già stato fatto, 50 e 50 tra gli insegnanti. A me pare un orrore! Ciò che vedo impoverito e ad alto rischio è proprio la differenza e le differenze. C’è una tendenza a incasellare, a semplificare in maniera quantitativa l’apprendimento e l’insegnamento (vedi prove Invalsi ma anche verifiche continue e burocratizzazione che non lasciano più spazio al dialogo, alla messa in gioco dei saperi).

 

Nel giro di 3 anni, a quasi parità di alunni, insegnanti e personale della scuola sono diminuiti del 30 per cento, mentre è aumentato il numero degli alunni per classe, tutto questo significa meno possibilità di sperimentare, di seguire i passaggi di ogni creatura. Il confronto sta diventando sempre più un’illusione perché si è responsabili della classe quasi da sole o da soli.

 

Poi ci sono le maestre e i maestri che non si arrendono, che entrano in dialogo con i genitori, la città e le istituzioni, che aprono le porte dell’aula, cercano di seguire le singolarità per farle crescere nella possibilità del confronto nella piccola polis che è la classe, che gioca al suo interno emozioni, saperi con sempre una fessura aperta sul mondo: il sapere relazionale ha bisogno di circolare.

 

Le piccole mani sporche di terra sono bellissime
Due giorni fa con l’ultimo maestro rimasto nel nostro circolo, lui ha una seconda, io una terza, abbiamo ripreso a spietrare con bambini e bambine un pezzo del terreno del giardino della scuola dove ogni anno seminiamo, innaffiamo, vediamo crescere la vita per poi ritrovarlo a settembre immancabile secco. Con lui non ci sono molte parole e teorizzazioni e nemmeno progetti, ci guardiamo dalla finestra che dà sul giardino comune e ci diciamo cosa fare su quel piccolo pezzo di mondo, raccogliamo i bambini e le bambine e scendiamo a lavorare insieme. A volte arriva qualche altra classe per curiosità o per piantare qualcosa.

 

Con la teologa domenicana Antonietta Potente ho imparato a guardare ciò che mi circonda e che accade chiedendomi ogni volta: dov’è la vita? E coltivarla, preservarla, curarla.

La lingua appoggiata sulla terra
come la suola delle scarpe.
appoggiare la lingua
le mani
costruire con gli occhi
col sorriso
riempire il mondo di fiato
e di calore
non di cemento e di strade,
mettere fuorilegge le betoniere
bandire il calcestruzzo
armare solo la pazienza
la dolcezza
amare il vuoto
svoltare con violenza
verso la povertà
svoltare assieme
tornare non al mondo contadino
ma a ciò che c’era prima
che nascesse il mondo
cancellare dentro la testa
i deliri degli ultimi millenni
e stare qui a lodare
quello che non c’è
quello che non abbiamo.

(Franco Arminio da “doppiozero”)

 

Potremmo anche imparare a stare qui a lodare ciò che c’è, ciò che già abbiamo e che dobbiamo aver cura di conservare: le piccole mani sporche di terra sono bellissime.

 

* * *

Il maestro, specie in via d’estinzione
di Sebastiano Aglieco

 

A scuola come un pesce fuor d’acqua
Ho incominciato a insegnare a 25 anni. Concorso pubblico vinto – spesso si dice per caso o per fortuna e un po’ è vero. Dopo molti anni però, ripensando alla prova orale, mi sono convinto che il fatto di essere stato, in quell’occasione, uno dei pochissimi insegnanti maschi ad aver superato la prova scritta, questa condizione… naturale, è probabile che mi abbia messo a disposizione qualche chance in più.

 

A scuola, si sa, i maestri sono pesci fuor d’acqua, rarità in estinzione. L’Istituto Magistrale, ai tempi, era scuola di ripiegamento per chi non avesse le carte in regola per frequentare i Licei. Le discipline erano semplificate, a detta della mia professoressa di Filosofia che insegnava anche al Liceo Scientifico e che faceva le dovute differenze. Era come se, per una impostazione al femminile dell’insegnamento, ci si potesse accontentare di poche cose, lo stretto necessario per impartire qualche nozione con un minimo di armatura culturale.

 

Al Magistero la questione non cambiava: pochissime opportunità ai tempi: 4 facoltà, di cui una la laurea breve di idoneità al concorso per Direttore Didattico. Anche in questo caso: una platea di studentesse. Nondimeno, devo alla mia professoressa di Pedagogia gli stimoli necessari per intraprendere questo difficile mestiere.

 

Questa introduzione per dire che l’insegnare maschio/insegnare femmina è stato fondato su una scelta culturale dello Stato di profilo appena sufficiente, tanto insegnare nella scuola elementare era mestiere da donne/mamme, che gli uomini non volevano e non vogliono fare, per cui a una maestra si poteva chiedere meno.

 

Cambia la famiglia, non cambia la scuola
Sta di fatto che nella scuola primaria la quasi totalità del corpo docente è costituita da donne, situazione che, in termini di accostamenti culturali, si potrebbe tradurre in trionfo di una forma moderna di matriarcato, con tutte le implicazioni psicologiche nelle relazioni che questo stato dei fatti comporta. Del resto da anni si parla, e a buon ragione, di crisi del ruolo educativo maschile, di una minor presenza dei padri, quantomeno in termini di autorevolezza formativa e di riferimento psicologico. La donna, lasciata più sola nel carico di doversi addossare la responsabilità di un surplus di educazione, ha finito per issare le tende anche in un territorio che culturalmente non le competeva.

 

Dico culturalmente, chiarendo che lo squilibrio dei ruoli educativi tra maschio e femmina è da spiegarsi nei termini di modificazione, a mio avviso positiva, dei ruoli, verso una maggiore corresponsabilità, rinunciando al modello tradizionale di famiglia – modello non biologicamente autenticato! – e constatando, più realisticamente, che siamo in presenza di idee di famiglie con stili e opportunità da testare in una situazione sociale ancora di trasformazione.

 

Se oggi, in sensibile osservazione dei mutamenti sociali, si dovrebbe parlare più realisticamente di modelli famigliari, non concorrenziali ma eventualmente alternativi al modello tradizionale di famiglia, nella scuola primaria, allo stato dei fatti, l’insegnamento rimane un fatto delegato alla donna.

 

Del resto, senza voler entrare in polemica, quando si tratta di affidare un bambino in una situazione di separazione, mi sembra che ancora oggi il giudice preferisca dare la preferenza alle mamme. La scuola, che è agenzia educativa al pari della famiglia e a volte addirittura più influente laddove la famiglia rinunci al suo ruolo, non fa altro che rispecchiare i cambiamenti sociali che si riflettono nel diverso peso, non qualitativo ma di stile, che i cosiddetti attori dell’educazione sono disposti a mettere in campo.

 

Ruoli cambiati strumenti spuntati
Bisogna chiedersi, insomma, quanto certe intuizioni di una psicologia sensibile ai costrutti antropologici, e penso a Jung, a Hillmann… possano aiutare oggi, più di ieri, a comprendere che le diversità di un approccio al maschile o al femminile nell’educazione dipendono non esclusivamente dalla condizione biologica di maschio/femmina ma dall’archetipo del maschile e del femminile che si incarna nelle figure educative e di quanto prevalga l’uno o l’ altro.

 

Così la divisione dei compiti, rigidamente intesa all’interno della tradizione patriarcale, è oggi assai labile, con conseguente travasamento di competenze e stili: possiamo facilmente imbatterci in un padre affettivo, con un livello di richieste normative assai abbassato, e in una madre emotivamente stressata con un livello di richieste normative, una volta quasi di esclusiva competenza del padre, spesso alto.

 

Mi capita spesso, in sede di colloqui individuali con i genitori, soprattutto verso la quarta primaria, quando i bambini presentano comportamenti inquadrabili nel contesto generale della prebubertà e il ruolo delle figure, materna e paterna, è da riconsiderare nel quadro più generale delle mutazioni antropologiche di questi tempi, mi capita di fare ancora riferimento alla tradizione educativa e psicologica e di ritrovarmi invece a constatare l’esistenza di un quadro mutato, dai toni molto più sfumati di una volta in cui invece la delimitazione dei ruoli era assai chiara; con strumenti spuntati, quindi, inadatti a cogliere le diversità del contesto.

 

Questo discorso sui ruoli mi risulta necessario dal momento che – e lungi da me l’abbracciare la scuola della cosiddetta deontologia del distacco per cui l’insegnante sarebbe una specie di medico che usa il bisturi dell’insegnamento indossando guanti asettici e ben robusti per non ferirsi – dal momento che, dicevo, l’insegnamento è una terra di confine innegabilmente attraversata da fenomeni naturali di identificazione – alunno/insegnante -, di investimento emotivo da decidere come spendere; di strategie inquadrabili nel contesto del travaso valoriale e generazionale.

 

L’insegnamento, al di là dell’aspetto strumentale del fare, della téchne insomma, dell’acquisizione dei cosiddetti strumenti cognitivi – unico obiettivo che alla società interessi controllare e monitorare – proprio per la naturale vocazione della scuola a essere agenzia educativa che addestra alla libertà attraverso l’esercizio della trasgressione e il superamento dei limiti, non può che confrontarsi col cambiamento dei tempi da una parte e coi modelli tradizionali di educazione e di famiglia dall’altra.

 

Oggi sono arrabbiato, ora ve lo dico
Quali fenomeni legati alle reazioni emotive, ai riferimenti antropologici e biologici “accadono” dunque, all’insegnante maschio e all’insegnante femmina? Non so se ci siano studi sul tema, quindi posso far riferimento solo all’esperienza concreta, fatta di sensazioni e di considerazioni sul momento, a volte superficiali e umorali, altre volte basate su un minimo di acquisizione, nel tempo, di osservazioni sui contesti educativi e sulle situazioni.

 

In genere l’esperienza più ricorrente che mi è capitata, è stata quella di aver avuto in affido un bambino senza figure educative di riferimento solide – il padre generalmente. Si riconosce quindi, nella richiesta di cura, implicita o esplicita, da rivolgere a una certa categoria di alunni, il ruolo normativo della figura maschile, che sarebbe contrapposto, diciamo, al ruolo materno, protettivo della maestra – cosa che non sempre corrisponde a verità per i motivi detti prima.

 

E’ assai comune l’espressione: alza la voce che sei un uomo e ti ascoltano di più. Oppure: hanno bisogno di un insegnante maschio; espressioni legate in genere alla richiesta di una maggiore disciplina, imposta con l’autorità più che mediata dalla ragione del cuore e dalla relazione: stile di approccio che sarebbe tipico dell’uomo.

 

E’ vero che i bambini, più che le bambine, chiedono all’insegnante dello stesso sesso un tipo di relazione basata sul contatto fisico, quasi animalesco, in cui tutti i canali del linguaggio non verbale vengono attivati in maniera esponenziale. La maestra in genere riesce a mantenere un distacco professionale molto alto, stile che, nei casi in cui invece il bambino con disturbi nella relazione chieda implicitamente di essere emotivamente accolto, non sempre ha i suoi frutti.

 

Io penso che molte maestre tendano ad attuare una forte censura emotiva su se stesse che poi trasmettono ai bambini. Il maestro, in genere, tende invece ad esplicitare platealmente l’aspetto emotivo del conflitto – e qui mi preme sottolineare che, quando parlo di maestro, faccio riferimento alla mia personale esperienza e non a quella di altri: e quando parlo di maestra, faccio riferimento alla summa delle maestre incontrate in 25 anni di insegnamento.

 

Ecco un tipico dialogo tra me e gli alunni:
Oggi sono arrabbiato. Guardate a come vi comportate.
Ce l’hai con noi?
No.
Ma cosa ti e’ successo?
Ora ve lo dico…

 

Tipico della maestra, tipico del maestro
La maestra si nasconde dietro un sottile nervosismo, dietro il mal di testa o dietro la maschera sociale, probabilmente storicamente ereditata per necessità di mantenimento di un ruolo significativo nell’area del privato.

 

Le bambine chiedono di essere accolte nel grembo del femmineo, mentre al maestro, a differenza dei maschi, chiedono più una relazione basata sulla mediazione verbale. Questo è tipicamente femminile: e cioè la tendenza a risolvere i conflitti sempre e comunque attraverso le armi della mediazione, piuttosto che con lo scontro diretto, sempre e comunque, anche laddove certi groppi andrebbero risolti con una partecipazione emotiva non censurata.

 

Tipico della maestra è abbassare la voce, col rischio di tenere attiva la contraddizione, risolvendola con la mediazione della norma piuttosto che con un investimento di natura emotiva dichiarato, messaggio che i bambini, più vicini alla scorza delle origini, dimostrerebbero di comprendere più facilmente.

 

Tipico del maestro è affrontare le questioni platealmente, di sputtanarsi in pubblico, a costo di apparire scorretto.
Tipico della maestra è chiudere la porta – perché i bambini non devono sentire – atteggiamento che corrisponde in pieno alla censura, per necessità di coordinazione e altro, che i Dirigenti impongono alla loro professione.
Tipico del maestro è drammatizzare, nel senso di rendere teatrale una situazione difficile. E di conseguenza, quando occorra, usare le armi della catarsi.
Tipico della maestra è usare le armi della sofistica che, come si sa, distruggono il teatro.
Contraddittoriamente, poi: se in classe c’è un uomo e bisogna attaccare un chiodo, spetta a lui. Se bisogna decidere come appendere un manifesto, però, tocca alla maestra.
Tipico del maestro è abbozzare il profilo valutativo di fine quadrimestre.
Tipico della maestra è affinarlo.
Tipico della maestra è parlare usando il sottotesto.
Tipico del maestro è non riuscire a cogliere il sottotesto e stupirsi, dopo, che ce ne fosse uno.
Tipico del maestro è abbozzare, “fare il fuco“, decidere di non decidere nelle situazioni difficili; per sopravvivenza. Rinunciare a dire quando il dispendio emotivo è troppo elevato. O, piuttosto, agire d’istinto e usare le armi della lotta romana, salvo poi trovarsi pancia a terra per una sottile mossa di karatè somministrata al femminile.
Tipico della maestra è accogliere nel caldo grembo, per poi presentare il conto.
Tipico del maestro è ostentare, esporre un’idea di libertà e ritrovarsi in un mondo di libertà solo suo.
Tipico della maestra è mascherare un’atavica insicurezza dietro al rigore e alla precisione maniacale.
Tipico della maestra è decidere come confezionare un confettino dopo laboriose argomentazioni sul caso.
Tipico del maestro, per istinto di sopravvivenza, è l’ espressione: ditemi che avete deciso di fare e vi do una mano.
Tipico del maestro è uno sguardo a volo di uccello sulle cose, che nel peggiore dei casi può diventare superficialità, nel migliore dei casi capacità di saper cogliere in un unico sguardo la rilevanza universale dei problemi.
Tipico della maestra è cavillare, soffermarsi sul particolare che, nel migliore dei casi vuol dire saper cogliere le specificità, nel peggiore, rimanere invischiati nella piccola pozzanghera.

 

La differenza si basa sul come si è e non sul come si appare
Questo “dittico stilistico“, per usare un’espressione colorita, potrebbe proseguire ancora a lungo, come lungamente, ripeto, potrebbe essere obiettato. Rimane la questione più delicata: che cosa colgono i bambini, di queste differenze? I bambini certamente non usano parole per definire questi comportamenti. Essi, piuttosto, captano col linguaggio dei cuccioli. “Sentono“, non verbalmente, ciò che sono più interessati a capire. “Ragionano” per sottrazione dei bisogni superflui, facendo pervenire richieste in base ai bisogni di crescita primari.

 

Una cosa chiaramente la sanno dire, o cercano di fartela capire: e cioè che la differenza del fare educazione si basa sul come si è non sul come si appare, e questa è una risposta che un gruppo di maschietti di una classe quarta presa quest’anno ha formulato a una mia precisa richiesta. Sembra che il maestro, ma scrivo il sembra a caratteri cubitali, comunichi, non verbalmente, una condizione di elasticità dentro la quale è possibile giocarsi l’esercizio della propria condizione di libertà; che vuol dire sperimentazione sulla propria pelle della possibilità dell’errore come occasione di tradimento della norma, della Legge.

 

Il che, se fosse vero, ribalterebbe il concetto di attribuzione al maschio della funzione della norma e ci direbbe assai chiaramente che i tempi sono mutati. La differenza indicata dai bambini si basa, dunque, sulla rilevazione del come si è piuttosto che del cosa si fa, ed è una indicazione preziosa della reale diversità dell’approccio educativo al maschile o al femminile ma che io voglio intendere, e ribadisco, come declinazione dell’archetipo del maschile e del femminile, e di come un intervento corretto in ambito educativo risulti dall’armonizzazione di questi due aspetti.

 

Al di là delle coloriture che mi sono permesso in alcuni passaggi di questo testo, sono molte le domande da farsi:
La prima di cui sento l’urgenza è perché gli uomini da anni abbiano rinunciato alla funzione educativa, segnalata statisticamente dalla loro assenza nella scuola primaria, ma soprattutto dalla palese teatralizzazione – in senso funereo, di mancanza – che i bambini mettono in atto a scuola in alcuni momenti della giornata: ti porto la borsa, mi dai una tua caramella… ti accompagno alla porta…. perché te ne vai, chi viene adesso…

 

Questa lingua non verbale comunica una discordanza tra richiesta e offerta formativa; perché sono soprattutto i rituali di angoscia legati all’abbandono che segnano il climax educativo – si ricorderà quel bellissimo passaggio del Piccolo principe in cui la volpe, dopo essere stata addomesticata, chiede al piccolo principe di non andarsene.

 

Per concludere, almeno provvisoriamente: è chiaro che un processo educativo non è la risultante di una formula più o meno pedissequamente o coscientemente applicata ma di un equilibrio e di un investimento assai complessi: ma anche tensione tra natura e società, educazione e istinto. Alla persona educata non interessano le connotazioni di uno status fisiologico; la persona in educazione, piuttosto, attinge laddove sente il bisogno di colmare. Attinge in nome di ciò che le manca. Di ciò di cui ha bisogno. Il nostro compito è quello di individuare e di dare risposte a questi vuoti.

 

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Segnalazione
La scuola: sostantivo femminile, corso di aggiornamento regionale, Padova, venerdì 27 aprile dalle ore 9.00 alle ore 13.00, Anfiteatro I.T. “L. Einaudi”, Via delle Palme, 1.

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Materiali

 

Onore ai maestri: c’è grande bisogno di loro
di Alessandro Davenia

 

Freud ha chiarito una volta per tutte che il padre è colui che pone il limite, mentre la madre eliminerebbe ogni ostacolo sul cammino del figlio. Il padre insegna che la vita va resa sacra (sacrificata) per qualcosa o qualcuno, mentre per la madre è la vita stessa del figlio ad essere sacra. La madre dà la vita, il padre invece ricorda che c’è la morte: quindi la vita va spesa per qualcosa. Sono necessari entrambi per l’equilibrio della donna e dell’uomo in formazione.

 

Gli insegnanti sono chiamati ad una sintesi dei due ruoli genitoriali, paterno e materno. Proteggere e sfidare, contenere e lanciare, con sapiente gradualità e studente per studente. Non tutti i docenti riescono in questo difficile compito, continuamente da riaffermare; può allora supplire l’equilibrio tra il numero di figure maschili e quello di figure femminili presenti in un consiglio di classe. Ma questo nella scuola italiana di oggi è quasi impossibile. La prevalenza di figure femminili è un dato di fatto…

 

L’assenza o marginalità dello stile maschile nell’educazione familiare e scolare non è privo di conseguenze. Le scorgo nei miei studenti: insicuri e fragili, perché a volte privi o privati della autostima che un adolescente interiorizza grazie soprattutto alla figura paterna. (continua qui)

 

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“Salvate gli ultimi prof maschi”

 

Nella primaria, infatti, l’estinzione del maestro maschio è quasi completa (per non parlare della materna), mentre nelle medie e in alcune materie al liceo sta avanzando inesorabilmente. Con quali conseguenze, si è iniziato ora a discuterne. «Si manifesterà nella difficoltà a costruire modelli di genere soprattutto per i piccoli maschi e i giovani maschi, e in seguito nelle relazioni fra i due generi» sostiene Barbara Mapelli, docente di Pedagogia delle Differenze di genere.

 

Al contrario, «la presenza di figure educative di entrambi i generi in tutti i livelli di educazione scolastica e prescolastica offrirebbe a bambini e bambine la possibilità di acquisire una maggiore complessità di visione del mondo, per stili di vita, emotività, fisicità, comunicazione»: questa l’analisi di Stefania Ulivieri Stiozzi, docente di Teorie e modelli della consulenza pedagogica e organizzatrice del seminario alla Bicocca.

 

Per il professor Demetrio non si può far finta che non ci sia «il problema del denaro, del successo, della carriera». E conclude: «Educare, ex-ducere, vuol dire anche portare altrove, farti vedere lontano. Scontiamo una società in cui c’è una crisi del maschile intrinseca, perché gli uomini non riescono a dare mete in cui investire. Per fortuna i giovani le cercano, al di là dei padri». (continua qui)

 

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Alcune riflessioni sulla femminilizzazione del corpo docente

di Graziella Priulla

 

La presenza di figure educative di entrambi i generi e dei due codici in tutti i livelli di educazione scolastica e prescolastica offrirebbe a bambini e bambine la possibilità di acquisire una maggiore complessità di visione del mondo, per stili di vita, emotività, fisicità, comunicazione. La dualità dell’esperienza umana è un dato ineludibile con cui misurarsi: componenti biologiche, componenti sociali, educative e culturali e componenti soggettive (anche inconsce) vi si intrecciano. La perdurante assenza o marginalità del maschile nell’educazione familiare e scolare non è privo di conseguenze. (continua qui)

 

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La settimana scolastica

 

Il Ministro Profumo ha formulato ai primi di aprile un “Atto di indirizzo concernente le priorità politiche del MIUR per l’anno 2012”. Im esso il Ministro concilia l’ovvio rispetto delle scelte compiute dal precedente governo in materia di “riforma” (tragico ridimensionamento) del primo e del secondo ciclo di istruzione con la formulazione di alcune linee di intervento di fatto pressoché ignorate nella predente gestione.

 

Tali sono quelle riguardanti l’impegno di perseguire, nell’ambito di un percorso condiviso con le Regioni, l’attuazione, in materia di istruzione, del Titolo V della Costituzione; la realizzazione di un potenziamento dell’Autonomia scolastica; la sottolineatura di un nuovo approccio, anche sotto il profilo del risparmio energetico, all’Edilizia scolastica; l’insistenza sul tema del nuovo reclutamento dei docenti. Ne fa una analisi Osvaldo Roman, di cui riportiamo un brano poiché permette una sintesi dello stato delle cose nella scuola:

 

In realtà su tutte queste materie, enunciate come finalità, fino ad oggi o sono mancate le scelte operative o si sono già verificati concreti fallimenti come è il caso dei risultati concernenti l’autonomia e l’edilizia scolastica nell’ambito del decreto sulle semplificazioni.

Per quanto riguarda il Titolo V° il Ministro non deve andare ad omaggiare Formigoni proprio nel momento che questo personaggio e la sua compromessa compagine di governo si assumono, in materia di reclutamento, la responsabilità di gravi violazioni del tessuto costituzionale che regola il nostro ordinamento.

Non hanno invece trovato alcun posto nell’Atto di indirizzo tutta un’altra serie di scelte.

Nessuno oggi può responsabilmente chiedergli un’inversione di marcia nella politica dei tagli ma si può giustamente esigere che quei tagli, come si è cominciato a fare con il decreto per gli organici 2012-13, non vadano oltre le previsioni stabilite dalla legge e che soprattutto se ne documentino gli effetti sul concreto funzionamento delle scuole anche in termini di diminuzione dell’offerta formativa.

Problemi di analoga natura si pongono per altri importanti questioni che derivano dalle scelte compiute dal precedente governo. Tali sono le questioni riguardanti: la rapina degli “scatti nella carriera economica”, l’attuazione del Piano per il precariato; la definizione delle Indicazioni nazionali riguardanti la scuola dell’infanzia e del primo ciclo; il ripristino dei fondi per diritto allo studio; la realizzazione del Sistema nazionale di valutazione; la ridefinizione degli strumenti e delle sedi per la tutela della libertà d’insegnamento, e l’individuazione dei criteri per la definizione dei nuovi organici.

 

Infatti la scuola si trova ancora a far fronte alle conseguenze del ministero Gelmini.

 

Una è il problema degli esuberi. Con i tagli del precedente governo sono 10.706 i docenti rimasti senza cattedra. La legge di stabilità approvata prima delle dimissioni del governo Berlusconi conteneva una norma che per i docenti in esubero prevede la mobilità “forzosa” presso altre amministrazioni pubbliche. “E se ciò non sarà possibile – spiega il presidente dell’Anief, Marcello Pacifico – si procederà alla cassa integrazione per due anni seguita dal licenziamento, nel caso in cui tale personale non possa essere ricollocato“.

 

Il sottosegretario all’Istruzione Marco Rossi Doria rassicura: “L’esubero viene determinato e conteggiato in organico di diritto, e viene poi riassorbito quasi completamente in organico di fatto“. Però viene smentito (“Si ha l’impressione che il Ministero dell’Istruzione sia una macchina così complessa che a volte la mano destra non sappia cosa stia facendo la sinistra“) e subentra un nuovo elemento di preoccupazione, con un decreto del 16 aprile che istituisce “Corsi di formazione per il conseguimento della specializzazione per le attività di sostegno destinati al personale docente in esubero – Anno scolastico 2012/2013”. Il sostegno è morto” protestano i docenti di sostegno.

 

A rendere più drammatico il problema degli esuberi arriva la dichiarazione del ministro Patroni Griffi in una intervista del 19 aprile: gli statali in esubero presto saranno licenziabili. L’equiparazione dei dipendenti pubblici ai privati arriverà in estate con la riforma del lavoro: la mobilità obbligatoria per due anni già esiste, ma d’ora in poi per chi non sarà ricollocato scatterà il licenziamento. Il no dei sindacati è unanime: Cgil e Uil sono pronti allo sciopero. Per la Cisl serve un confronto. L’Anief invita il ministro a rilanciare i servizi. Per l’Ugl sono altri i veri sprechi.

 

Un’altra conseguenza della gestione Gelmini sono le “classi pollaio, a proposito delle quali arriva un’altra condanna per le disposizioni dell’ex ministro. Il Tar del Molise boccia le “classi pollaio: si è pronunciato – con le sentenze n. 144/2012 e n. 145/2012 – sulla questione relativa all’accorpamento di classi disposto in violazione di parametri normativi in materia di sicurezza e salute negli ambienti scolastici, sancendo la prevalenza del rispetto degli stessi parametri, come del resto già preannunciato in sede cautelare.

 

Altra conseguenza ancora il ridimensinamento della rete scolastica, che comporterà la cancellazione di 1300 scuole. La Flc Cgil chiede di rivedere il piano di ridimensinamento, con un documento in cui si trovano Dieci provvedimenti salvascuola.

 

Ai vecchi problemi si aggiungono quelli creati dal nuovo governo: ad esempio la tassazione delle borse di studio degli specializzandi inserita nel Decreto sulle semplificazione fiscale. La misura era stata introdotta in Senato e prevedeva un prelievo del 20% sulle borse di studio per le somme eccedenti gli 11.500 euro, poiché la norma contenuta nel Dl approvato il 2 marzo equiparava i redditi da borsa di studio a quelli da lavoro dipendente. Il 16 aprile proteste e manifestazioni in tutta Italia, mentre la Camera approva un emendamento che cancella la tassazione.

 

E tra i nuovi temi di discussione c’è il PdL Aprea, su cui segnaliamo questa settimana gli interventi dell’Unione degli Studenti, di Lucio Ficara, di Pierluigi Alessandrini. Antonio Di Pietro ha chiesto che la legge Aprea sulla governance delle scuole, che si sta discutendo in Commissione Cultura, diventi argomento di dibattito in aula. Contro il PdL Aprea e contro la chiamata diretta, recentemente approvata in regione Lombardia dalla giunta Formigoni, si è svolta a Milano il 21 aprile una manifestazione di lavoratori della scuola e studenti, promossa dai coordinamenti di precari di tutta Italia.

 

Si infittisce il dibattito sulle prove Invalsi. Paolo Fasce ribatte alle critiche alle prove qui, qui, qui. Marco Barone esprime la sua critica alle prove con una storia che racconta quello che potrebbe succedere durante una “normale somministrazione“. L’Unione degli Studenti annuncia per il 16 maggio, data di somministrazione delle prove alle scuole superiori, “scioperi bianchi, blocchi delle lezioni, flash mob e assemblee fuori e dentro le scuole“.

 

Segnaliamo in particolare quanto chiede la Flc-Cgil in una lettera inviata dal suo segretario, Mimmo Pantaleo, al ministro dell’Istruzione Francesco Profumo: togliere la prova nazionale Invalsi dall’esame conclusivo del primo ciclo. Secondo il sindacalista gli esiti dei test “non possono sostituire la valutazione formativa cui ogni alunno ha diritto e che, doverosamente e opportunamente, è in capo ai docenti“.

 

Un’altra questione aperta è l’intenzione del ministro Profumo di abolire il valore legale del titolo di studio. Da alcune settimane il sito del Miur ospita un questionario sul tema, organizzato in modo tale che appare realizzato pregiudizialmente al fine di ottenere un risultato scontato: “Sì all’abolizione del valore legale del titolo di studio“. L’Assemblea nazionale per un’Università-bene-comune e la Convenzione nazionale della Scuola-bene-comune hanno pertanto deciso di proporre un loro contro-questionario che risulti trasparente e senza secondi fini, esponendo esplicitamente gli argomenti sia di chi è favore sia di chi è contrario all’abolizione.

 

La mossa del MIUR viene accusata di rientrare nei piani del processo di privatizzazione dell’istruzione pubblica già in atto:

 

Il risultato della cancellazione del valore legale del titolo di studio, in un paese come l’Italia, porterebbe inoltre in pochi anni a classificare i diplomati e i laureati solo in base alla scuola o all’ateneo di provenienza, e non alle reali qualità individuali. Verrebbe a realizzarsi così una divisione fra chi potrà permettersi scuole e università di serie A e chi non potrà per ragioni economiche, un ritorno a un passato che pensavamo ormai superato, quando i figli dei dottori facevano i dottori e i figli degli operai gli operai. (vedi qui)

 

Nonostante il sondaggio promosso dal Miur sembri “pilotato“, la consultazione, che è cominciata giovedì 22 marzo e si concluderà martedì 24 aprile, dà già dei dati significativi: in base alle 20.089 risposte complete inoltrate (su 31.282 registrazioni iniziali), più di 15.000 partecipanti alla consultazione, il 75%, si sono espressi a favore del riconoscimento del valore legale della laurea, e più di 11.000 pensano che sia giusto dover avere il «pezzo di carta» per accedere al pubblico impiego.

 

Si discute anche sul tema delle bocciature e della funzione educativa dei brutti voti. «I brutti voti mortificano e non aiutano a crescere» sostiene Francesco Dell’Oro, di cui è appena arrivato nelle librerie Cercasi scuola disperatamente. Orientamento scolastico e dintorni.

 

Sul tema delle bocciature interviene chiedendone l’abolizione Francesca Puglisi, responsabile scuola del PD.

 

Bocciare non serve a migliorare: sappiamo che solo il 2 o 3 per cento degli studenti avrà un beneficio reale dalla ripetizione di un anno scolastico, ma la maggior parte di essi finirà in quel 21 per cento di drop-out che penalizza l’Italia… La scuola “selettiva” non fa altro che perpetuare all’infinito l’immobilità sociale di cui è affetto il nostro Paese.

 

Mila Spicola invece riflette sulle cause dell’insuccesso scolastico e ne individua la causa nelle condizioni degli ambienti di apprendimento della scuola italiana:

 

Malmesse, degradate, e negli anni sempre più sovraffollate, le aule scolastiche sono da bocciare senza appello. Ai dati allarmanti si aggiunge l’aumento del numero di studenti per aula che non fa che aggravare la situazione. Dal Rapporto emerge che le classi con più di 30 alunni sono 21 su un totale di 1234, ossia l’1,7%.

 

Francesca Puglisi lancia anche l’idea di abolire l’esame di terza media.

 

Con l’esame di terza media non si concludono gli studi perché i nostri alunni sono tenuti a proseguirli per l’assolvimento dell’obbligo per altri due anni. Quell’esame di terza media, che non conclude nulla da quando abbiamo innalzato a 16 anni l’obbligo scolastico, può essere eliminato. A che serve una licenza media oggi, quando il minimo che si richiede a un cittadino è la certificazione di un obbligo decennale?

 

 

Intanto si confermano brutti tempi per la scuola pubblica. A Brescia l’Istituto Comprensivo Sud 1 dichiara bancarotta. La decisione è stata presa per le voci del bilancio del prossimo anno, che prevedono spese per 27.700 euro ed entrate di solo 6.000.

 

A Milano la scuola media del Parco Trotter rischia la chiusura. L’allarme è lanciato dagli Amici del Trotter, associazione che gestisce attività sociali e culturali nello storico parco scolastico. Lo scorso 12 aprile, al tavolo istituzionale sulla riqualificazione del Parco Scolastico, il Comune ha prospettato una cosa gravissima: la chiusura della scuola media del Trotter e un utilizzo del Convitto per non meglio definiti “usi sociali“.

 

A Vimercate l’Amministrazione Comunale vuole esternalizzare l’Asilo Nido Comunale “Girotondo, dando in gestione il servizio ad un soggetto privato. Per il Comitato chiedoasilo questo “significa consegnare il servizio pubblico dei nidi di Vimercate ad una esclusiva logica di mercato ponendo le condizioni per la progressiva riduzione dell’impegno sociale del Comune stesso“.

 

Al contempo la scuola privata cresce e continua a chiedere soldi, nonostante, oltre all’Ocse, una indagine voluta dall’ex ministro Gelmini confermi la loro qualità scadente.

 

A dimostrazione della sintonia tra governanti e governati, partecipando a un convegno sulla scuola della Conferenza episcopale piemontese il ministro del Lavoro Elsa Fornero riparla e rioffende:

 

Oggi nelle famiglie il desiderio di farsi la casa sopravanza quello di investire sui figli come capitale umano. Il fatto di farsi il mutuo spinge le famiglie a mandare i figli anche a lavorare. Bisogna invece invertire questa tendenza.

 

Antonio Di Pietro le risponde:

 

Da Fornero parole arroganti. Le parole della Fornero sono arroganti e offensive. Quando il ministro afferma che “bisogna lavorare insieme anziché protestare e lamentarsi“, dimostra di essere lontana anni luce dal Paese reale. Legga i dati sulla Cig diffusi oggi dalla Cgil, faccia un giro per le fabbriche che chiudono e tra i lavoratori che perdono il posto e forse capirà perché bisogna protestare e lamentarsi.

 

 

(Vivalascuola è curata da Nives Camisa, Giorgio Morale, Roberto Plevano)

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