7 Ottobre 2006

E nonstante tiutto…l’amore per la scuola

Adele Longo

“La gioia è un bisogno essenziale dell’anima. La mancanza di gioia ,che si tratti di sventura o semplicemente di noia, è uno stato di malattia nel quale l’intelligenza, il coraggio e la generosità si spengono, è un’asfissia. Il pensiero umano si nutre di gioia.”
S.Weil

“Non creare è morire e, prima irirrimediabilmente invecchiare”
Anna Maria Ortese

In nessun luogo come nella scuola c’è una discrepanza tra parole e fatti. Se da una parte i vari governi e ministri della Pubblica Istruzione degli ultimi 10 anni hanno affermato l’importanza della scuola pubblica nel processo di crescita personale e di creazione di civiltà ben poco è stato fatto per dare sostanza a queste affermazioni che sono spesso rimaste vuote dichiarazioni di principio, completamente disattese. Basti pensare al taglio sugli investimenti sia sui docenti sia sulle strutture (pensiamo alla fatiscenza di tanti edifici scolastici, la carenza di attrezzature) e al processo di privatizzazione favorito dai finanziamenti alla scuola privata. Nella scuola l’insoddisfazione e il malessere da parte degli insegnanti (e non solo) nascono dal fatto che proprio i soggetti che quotidianamente vivono e lavorano nella scuola non vengono ascoltati, quello che c’è non viene visto, si parla solo delle mancanze, di quello che la scuola dovrebbe fare. Docenti che negli anni hanno con passione e impegno reinventato il loro modo di insegnare operando importanti trasformazioni, restano “invisibili” allo sguardo di un riformismo neutro, basato su una logica di mercato, utilitarista, economico-aziendale, su un sapere standardizzato, fatto di contenuti facilmente misurabili in modo oggettivo. Noi docenti in questo modo ci vediamo privati di un senso, di una dimensione pubblica e quindi politica delle tante positive esperienze di lavoro. La fiducia nei rapporti è stata sostituita da un eccesso di burocrazia, una forma di controllo che mortifica entusiasmo e creatività.
In questi anni il movimento di autoriforma ha permesso attraverso lo scambio, il racconto, l’elaborazione di tante esperienze diverse, la restituzione politica del valore delle pratiche scolastiche fatte di attenzione alle persone, di creazioni di relazioni. Sono stati anni non solo di resistenza alla scuola delle griglie, del preconfezionato, della “norma” ma i nostri incontri ci hanno permesso di dare esistenza simbolica al bisogno di creatività e condivisione che il nostro lavoro richiede, per arrivare al cuore dei ragazzi, per portarli a desiderare di imparare, per comunicare l’interesse per lo studio in quanto scoperta di sé e creazione di mondo.
Va affrontata anche la questione del denaro, infatti neanche dal punto di vista salariale la valorizzazione del lavoro dell’insegnante sta andando nella giusta direzione. C’è stata e c’è una politica della scuola che, invece di esigere uno stipendio adeguato per tutti, ha voluto introdurre incentivi economici per figure di sistema per es. le funzioni strumentali, creando inutili e pericolose gerarchie, o per progetti extracurricolari pagati come ore eccedenti. Oltre a mettere in luce il disvalore di fondo legato al pregiudizio che gli insegnanti lavorano poco, questa politica di aumenti salariali legata alla quantità, alla frammentazione del lavoro, ha spostato l’attenzione da quella che è la progettualità complessiva della scuola che non è e non può essere quantificabile in termine di ore. Una progettualità determinata dall’incontro di più soggetti che si trovano ad affrontare tutta la complessità che una relazione comporta, la cura, l’ascolto, gli imprevisti, le difficoltà, le pause, necessita di una flessibilità che nasce da bisogni reali di persone reali, di occasioni di riflessione colte al volo, man mano che esse si presentano, non può certo basarsi su progetti e progettini stabiliti all’inizio dell’anno scolastico. Legare il denaro alla quantità ha ingenerato confusione anche rispetto al senso più profondo e autentico del nostro lavoro. Capita che il valore di un insegnante venga valutato in base a quanti progetti fa, il che ha generato una sorta di corsa la progetto, la cosiddetta “progettite” .Nel migliore dei casi i progetti sono preparati dagli insegnanti all’inizio dell’anno ma nel peggiore dei casi arrivano preconfezionati dal ministero o altri gruppi esterni alla scuola, contenitori da riempire e dispensatori di crediti formativi per gli studenti. Oggi ciò che spinge a fare un progetto è più il guadagno materiale che non quello simbolico di una progettualità a più ampio respiro, in alcuni casi si arriva persino a contendersi i ragazzi che spesso partecipano per ottenere il punto di credito, per compiacere un insegnante e non per un loro desiderio o curiosità.
Se ripenso agli anni 90, ad un punto di svolta nella mia carriera di insegnante, mi domando che cosa spingeva noi colleghe del corso D a incontrarci il pomeriggio a scuola e anche a casa. Sentivamo la necessità di vederci con calma e, sorseggiando una tazza di tè, mettevamo in gioco il nostro desiderio di creare contesti di fiducia e di creatività, spazi vitali in cui stare con libertà e gioia e godere della relazione di scambio tra di noi. Avevamo un’idea molto ampia della scuola, una progettualità che riguardava il senso globale del nostro lavoro più che delle singole discipline, discutevamo di come incoraggiare i ragazzi a pensare a partire da sé e soprattutto a far circolare il loro pensiero, volevamo stimolarli, partendo da noi, ad essere autentici, a non parlare per compiacerci ma ad usare la lingua per esprimere parole di verità aderenti all’esperienza. In questo modo a scuola creavamo un mondo, la scuola era il mondo, lì dove si viveva, nella contingenza del momento. Queste esperienze per me sono state fondamentali, hanno cambiato radicalmente il mio modo di fare scuola, portare me stessa, le mie esperienze politiche e non solo le mie competenze disciplinari e didattiche, mi fa ancora oggi credere nelle grandi potenzialità che la scuola ha e mi spinge a stare qui oggi a discuterne con voi.
Oggi c’è la necessità di creare ponti tra il dentro e fuori la scuola. Il circolo “La Merlettaia” di Foggia di cui faccio parte è un luogo di mediazione con il fuori, esso è uno dei luoghi pubblici dove ancora si parla di scuola. Il circolo è luogo di riferimento per insegnanti ed anche per studenti e studentesse che abbiamo coinvolto in varie iniziative per es. “Pace in corso”, contro la guerra in Iraq, e ultimamente “Foggia scuola creativa”, una giornata di mobilitazione contro la riforma Moratti. Con questa giornata volevamo portare in piazza, rendere pubblico il dissenso, il disagio, e il senso angusto, quasi claustrofobico della riforma così come emergeva nelle discussione tra noi del Circolo ed alcuni insegnanti dell’università di Foggia, nonché alunni e genitori. Siamo riusciti a coinvolgere anche il comune che ci ha permesso di utilizzare un’area della città dove per tutto il giorno si sono tenuti spettacoli, concerti, sono stati appesi striscioni che avevamo preparato con gli studenti, era un modo di riprenderci la parola e dimostrare quanto ancora la scuola può essere creativa, vitale e pubblica.
E ancora un lavoro sulla memoria cittadina per ricostruire figure di libertà come Liliana Rossi , Luigi Pinto.
La scuola sta diventando sempre più chiusa, più arida, soffocata da regole, produttività e burocrazia.
Nella mia scuola il bisogno di ordine e di controllo fa sì che tutto ciò che è pubblico si chiuda: i cancelli vengono chiusi alle 8.30, la scuola apre solo due volte il pomeriggio cosicché un’iniziativa interessante come il coro della scuola dopo poche lezioni non si fa più, il maestro proprio non può in quei due giorni, la biblioteca è sempre chiusa perché la bibliotecaria è assente da almeno due anni per gravi motivi di salute e per timore di furti tutti i libri sono stati messi sotto chiave in armadi con griglie e lucchetti, la palestra chiude perché gli alunni corrono e si fanno male, anche i bagni si aprono ad orari precisi e bisogna esplicitare l’urgenza per farli aprire, le visite guidate, i viaggi d’istruzione sono quasi sparite per paura di tutte le responsabilità di cui il preside ci fa prendere visione e ci mette in guardia.
Ricreare l’identità della scuola come luogo di incontro di diversità, di apertura a ciò che si gioca nel mondo, nella città e che trovi corrispondenza dentro i giovani vuol dire ripensare lo spazio pubblico, risvegliare la passione politica, ribadire la funzione formativa che la scuola sta perdendo sempre di più da quando si è fatto dell’utile, delle cose che servono il parametro con cui dare senso al proprio studio, al proprio lavoro. Se l’utile potesse essere veramente motivante all’apprendimento io che insegno inglese, dovrei avere tutti alunni motivati e attenti perché l’idea comune circolante è che l’inglese sia l’unica materia veramente “utile” che si studia a scuola. Questa è la prima risposta che gli studenti danno quando chiedo loro perché studiano l’inglese, che cosa gli piace dell’inglese, e lo dicono soprattutto i genitori mortificati quando i figli non hanno grandi risultati “Prof.ssa io glielo dico sempre di studiare l’inglese, se no come faranno domani?”. Non funziona quando l’utile non risponde ad una necessità interiore, rimanda ad un’idea di futuro lontano e che spesso fa paura perché oggi è più che mai vago e incerto. Miguel Benasayag e Gerard Schmidt due psichiatri che operano nell’ambito dell’infanzia e dell’adolescenza nel libro “L’epoca delle passioni tristi” spiegano l’assoluta necessità di uscire fuori dalla logica utilitaristica e del perché occorre riscoprire la gioia del fare disinteressato:
“L’utilità dell’inutile è l’utilità della vita, della creazione, dell’amore, del desiderio…L’inutile produce ciò che ci è più utile, che si crea senza scorciatoie, senza guadagnare tempo, al di là del miraggio creato dalla società” (Feltrinelli p.64)

 

E allora che faccio? mi industrio per fare sentire loro il desiderio di avventurarsi in una lingua straniera, non tanto per un domani, ma per la passione di oggi, per es. per capire i testi delle loro canzoni preferite, per fare amicizia con la ragazzina o il ragazzino che non sa parlare l’italiano, per far scoprire il piacere, il gusto di un testo in lingua originale. Così facendo mi sembra di dare senso alle loro passioni facendogliele agire e magari capita che si sentano più motivati anche allo studio sistematico e rigoroso. Mi dispiace sentire quei colleghi, che poi spesso sono anche genitori, quando affermano con scetticismo e rassegnazione che questa generazione non ha bisogno di noi, sanno tutto, sono autonomi, sembra che i giovani vivano in un’altra impenetrabile galassia fatta di Internet e televisione. Mi chiedo come è possibile affidare a Internet , ai blog o alla televisione la possibilità di orientare le loro scelte? E inoltre non lo dicevano anche i nostri insegnanti tanti anni fa di noi? Eppure l’esperienza e la letteratura ci insegnano che non sono tanto le materie ad essere ricordate ma chi le insegna, quante volte è capitato che un ex studente ci fermasse, ci venisse a trovare per esprimerci riconoscenza, per ringraziarci proprio di quella passione per la scuola che in qualche modo li ha toccati.
Quest’anno ho pensato alla riapertura della scuola sia con l’emozione che provo ogni anno di fronte all’inizio di una nuova avventura e allo stesso tempo con apprensione, colleghe preziose con cui ho lavorato per anni sono andate in pensione, mi sento un po’ orfana, un po’ spaesata ma non depressa o demotivata, mi guardo intorno e cerco nuove situazioni, colleghe nuove con cui poter avviare uno scambio, parlarsi giorno dopo giorno, mi piacerebbe ritrovare un tempo disteso per ascoltare e capire (a me sembra che non ascolto mai abbastanza), poter condividere non tanto le valutazioni e i programmi ma piuttosto le esperienze, i dubbi e le incertezze, e, nonostante tutto quella scintilla d’amore che dà la forza per continuare a cercare ancora altre strade, altre vie.

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