27 Febbraio 2010

Essere maschi, tra potere e libertà

Secondo Stefano Ciccone, il protagonismo femminile che segna questa epoca può essere vissuto come un’occasione di libertà maschile dagli stereotipi che costringono e imprigionano la vita degli uomini, la loro sessualità e la loro esperienza di paternità.
Ne hanno discusso con lui, partendo dal suo libro Essere maschi, tra potere e libertà (Rosenber&Sellier, 2009), Laura Colombo e Sara Gandini.

Trascrizione a cura di Serena Fuart

Sara Gandini: “Nel capitolo sulla violenza maschile racconti di un incontro promosso dall’associazione identità e differenza. In quell’incontro Luisa Muraro diceva che non vuoi assumerti il fatto storico delle forme della sessualità maschile (sono le sue parole), e per lei questo è un inciampo.
Da parte tua, sempre in quell’incontro, spiegavi che il vostro percorso è un altro, parte dalla trasformazione della sessualità maschile. In te prevale il desiderio di destrutturare forme e saperi dell’identità maschile egemone.
Qui in effetti si arriva ad un punto interessante, su cui si era soffermata anche Elisabetta Marano nell’incontro in libreria proposito del Posto del padre, e di cui tu parli nel libro. Il dubbio che emergeva – che ritengo valido anche oggi – è che la decostruzione continua, la necessità continua di ribadire di essere altrove, non porti a fare delle scelte, a individuare un taglio significativo. Mi chiedo se la destrutturazione continua possa dare vita a un nuovo modo di fare politica da parte degli uomini oggi, se possa dare un nuovo senso all’agire politico, a costruire simbolico. Insomma, la destrutturazione continua può portare ad individuare uno spazio per una relazione in cui mettere in gioco la propria verità, e quindi il conflitto?

-In diversi punti affermi che la pratica di trasformazione maschile apre impensati spazi di libertà maschile, nuove opportunità di vita per gli uomini. Di che opportunità si tratta? A quali spazi di libertà pensi?

-Nel capitolo critica alla politica dici di essere interessato alle sovrapposizioni tra le politiche dei partiti, dei movimenti delle organizzazioni sindacali e la politica delle relazioni. Sostieni di voler tenere aperta la domanda su una diversa qualità possibile della politica e continuare ad agire un conflitto contro la sua riduzione a gestione del potere o ad amministrazione dell’antagonismo e retorica della trasformazione.
So che hai accettato la candidatura con sinistra e libertà. A quali esperienze, pratiche faresti riferimento per non cadere nelle trappole della politica tradizionale? A quali strategie e invenzioni pensi?

Stefano Ciccone: “La scrittura di questo libro è stata faticosissima per me ed era finalizzata a trovarci qui a parlarne. E’ importante essere qui a poterne discutere tra donne e uomini andando oltre la soglia di quel generico riconoscimento che poi abbiamo vissuto molte volte quando abbiamo sostenuto l’impegno di analizzare la violenza maschile contro le donne e il tema della procreazione. Le ragioni profonde, il desiderio, che ci portavano a costruire questo percorso rimanevano sempre al di là. Costruivamo più sull’oggetto, sulla questione, mentre io sentivo il desiderio di costruire occasioni di confronto in cui la domanda di senso, di verità potessero diventare occasione di dialogo. Cercare di costruire spazi politici di donne e uomini che non fossero di generica alleanza ma producessero interrogazione di senso. Il libro è un tentativo di fare e questo: andare oltre una soglia, tra l’altro, una soglia di qualità del rapporto politico tra donne e uomini che vorrei porre come questione. In questi 20 anni di lavoro (abbiamo 20 anni di storia) abbiamo vissuto una difficoltà ad andare oltre questa soglia e abbiamo misurato varie collocazioni di dialogo con noi e con le donne. Queste posizioni erano come un’altalena tra il rischio di un’accoglienza quasi maternale di dire “ci sono finalmente degli uomini che stanno sul terreno”, il genuino piacere di incontrare questo percorso che però cadeva in una posizione che non costruiva una posizione profonda con la quale confrontarsi ma era quasi di accoglienza rispetto un solco che ha come controaltare una posizione di diffidenza: “sì siete bravi ma dov’è la fregatura? Dov’è l’elemento di autenticità, la furbizia l’opportunismo?” Perché spesso c’è una inautenticità, un omaggio maschile all’intelligenza delle donne alla ricchezza, omaggio di maniera opportunistico che nasconde strategie difensive. Vogliamo andare oltre questo.
Vorrei affrontare tre nodi. Noi partiamo da una grande difficoltà, da un’empasse che è quella di costruire conflitto come uomini in cui il conflitto è qualcosa che tu agisci rispetto a un ordine, un modello, un sistema di relazione rispetto al quale tu non ti puoi mai tirare fuori, se è un ordine simbolico che struttura la vita di tutti noi nessuno può tirarsi fuori né donne nè uomini. Però nel libro cito Adriana Cavarero che scrive “Le donne in qualche modo dimenticano troppo spesso la fortuna, la risorsa che hanno nell’essere altro nell’alterità, nell’essersi conservate altro da questo sistema. Per cui l’esclusione, la negazione della soggettività femminile, ha preservato l’esperienza femminile come esperienza altra e dà alle donne la spazio per agire un conflitto a partire da un’alterità”. Io questo spazio non ce l’ho. Anche nelle mie pratiche concrete se volete pensate a quante esperienze di donne ci sono nella ricostruzione della storia delle donne in un paese, in un quartiere e quanto io non posso fare la stessa cosa, ricostruire la storia degli uomini. Ci sono relazioni tra donne, io penso a un consultorio autogestito e lì c’era una relazione tra due donne culturalmente diversissime storicamente socialmente che però a partire da una comune esperienza potevano costruire una relazione. Io penso come avrei potuto costruire una relazione con il padre calabrese di quella ragazza che magari la picchiava a casa e doveva rivolgersi al consultorio. Cioè è difficile per me costruire percorso a partire da questo anche quando si parla di autocoscienza maschile io ho sempre una grande titubanza a usare questo termine. Io ho letto l’esperienza dell’autocoscienza delle donne che era un’esperienza chiara: non solo la condivisione nell’intimità di un percorso vissuto ma la costruzione di un gesto che rompeva rispetto un mondo che ti nega, rompere rispetto alla necessità di uno sguardo maschile come riconoscimento di senso, rompere la mediazione maschile tra donne e costruire una relazione di senso tra donne e costruire degli spazi fare una rottura. Io non è questo che posso fare perché i luoghi che frequento sono già luoghi di uomini tra uomini, l’autorità pubblica viene sempre attribuita a un uomo, l’operazione che posso fare è un’operazione di decostruzione dall’interno. Come dice Laura questo per me è un elemento non banale ma di ricchezza….
L’altro giorno a Roma c’era una presentazione di Luce Irigaray in cui si diceva: ‘l’autoaffermazione, darsi valore da sé, è una risorsa per la politica delle donne”. Questa cosa non riesco a farla nello stesso modo tra uomini. Nel libro cito varie autrici: Maria Luisa Boccia ed altre che mettono sull’avviso rispetto a un rischio. Il rischio di fare un’inversione simbolica di prendere quelle attribuzioni stereotipate del femminile: l’attitudine alla cura, all’accoglienza alla relazionalità, per rivoltarle facendo un elemento di valore. Pensate appunto all’etica della cura, a quanto nel nostro paese le donne dl Pc hanno fatto le battaglie contro la guerra sostenendo che la donna dà la vita è quindi è contro la guerra che genera morte quindi in qualche modo fondando a partire da un elemento stereotipato. Ovviamente io questa cosa non posso farlo perché non ho la risposta dell’alterità rispetto a un diverso. Questo mi mette in una grave difficoltà perché non mi permette di mettere in modo lineare il riferimento al desiderio come motore. Laura faceva questo riferimento all’analisi del desiderio. Io so che, per esempio, mentre socialmente il desiderio femminile è rimosso, il desiderio maschile è un obbligo. E’ un terreno connotato, colonizzato a cui io mi devo adeguare in mood mimetico devo se non desidero non sono un uomo e il desiderio è qualcosa che io so non essere un luogo di libertà. Non è un luogo originario dove io trovo la mia libertà. Io lo guardo sempre con sospetto che devo osservare. Questo però mi permette anche di pensare una politica che agisca un conflitto con un’attenzione, una qualità che secondo me è interessante. È possibile costruire una politica che non si basi sulla risorsa dell’alterità. Il potere è quello e io me ne tiro fuori. La strettoia dentro cui dobbiamo passare come maschi è un elemento di impasse ma anche una grande risorsa che ci costringe un’invenzione, ci costringe a non fare ricorso a quella scorciatoia che è quella dell’alterità. E quindi ci permette di evitare quei meccanismi di identificazione, costruzione identitaria. Sicuramente sono convinto che l’esperienza di uomini di Maschile Plurale rischi l’empasse, rischi l’impantanamento. Il problema che la risorsa è quella che io chiamo la passione di essere nel mondo. Quello che io vivo non è la dimensione di depressione, il problema è il contrario: non costruire un percorso depressivo maschile che guarda la miseria delle relazione della sessualità degli uomini, che guarda le colpe maschili e che fa l’operazione di assunzione di colpa, di responsabilità, di dovere. Io dico che quel mondo lì a me non mi semplifica più. Quando Laura diceva rispetto al rapporto con gli altri uomini, il padre ecc. Il problema è che alcune figure maschili non sono per me oggetto di critica razionale, sono cose che sento suonano false, so che quell’operazione lì non funzione più. Il percorso che faccio è dare voce a un desiderio di cambiamento e libertà maschile.
Tra potere e libertà. Nel mio libro parlo del cambiamento nelle relazioni tra donne e uomini. Non è un cambiamento che osservo come una minaccia che mi toglie potere, mi toglie spazi di desiderio, ma mi apre spazi di libertà. Io ho pagato questo potere con spazi di libertà, il libro racconta una posizione che non sia di semplice riconoscimento tra uomini ma invece di apertura a un desiderio di libertà. Io concludo il libro facendo riferimento alla sfida del ridicolo. Per esempio questo primo spazio di libertà che ci siamo presi: un uomo che parla tra donne, che sceglie di fare incontri tra uomini facendo giochi, ballando il tango, tenendosi per mano. Questo ridicolo per me è già uno spazio, sfidi il ridicolo ma ti apri uno spazio di libertà per agire un comportamento e stare nel mondo che è in contraddizione rispetto a quello che è il tuo agio. Per me attraversare questo disagio mi dà uno spazio di libertà.
A proposito di libertà, il tema della politica. Quello a cui tengo è che rimanga aperta una domanda di qualità della politica, di relazione negli spazi politici che frequentiamo. Cioè non mi voglio rassegnare all’idea che esistano pratiche e spazi in cui il mio desiderio, la mia domanda di libertà, di qualità di relazione non possa trovare spazio. Nel libro racconto come quei luoghi tradizionali della politica che ho frequentato, come il Pc, sia qualcosa di più ricco della caricatura che facciamo del partito dell’istituzione ecc. Erano comunità in senso positivo e negativo attraversati da conflitti. I primi che ci invitarono a parlare furono le sezioni del Pc. E la sezione era un luogo in cui la gente andava e trovava uno spazio per parlare di sé. Io penso che questo sia un merito su cui dobbiamo scavare. Ho visto anche un altro fatto: cioè quanto la politica sia spesso attraversata da una forza di seduzione verso forme gerarchiche, forme di appartenenza, anche in quei movimenti che si dicono alternativi. Per me è una grande risorsa essere stato nel Movimento dei Movimenti e a Genova e dentro quei movimenti aver portato un conflitto, aver portato un’altra pratica che era una pratica non che rinunciava al conflitto. Al contrario dire la mia idea del conflitto: non è che c’è una cittadella assediata dove c’è il potere in cui io devo penetrare dentro e trovare nel conflitto, con la polizia, la mia identificazione. Penso che il conflitto attraversa anche le nostre relazioni, io sono attraversato dal conflitto e quindi da questo punto di vista. Non voglio perdermi l’attualità della politica che sia fino in fondo capace di rispondere a questa domanda. Nel libro a proposito di Genova cito Luisa Muraro la quale sostiene che abbiamo fatto questa riflessione ma avremmo dovuto starci di più in quella situazione confusa, nebulosa, di quei movimenti, leggendone le contraddizioni. Io penso che anche tutte le esperienze più ricche, intelligenti di questo Paese quando si separano, non si interrogano reciprocamente, non scelgono di mettersi in discussione, perdono la capacità di incidere, rischiano di impoverirsi. Frequento il mondo politico dove ci sono persone molto intelligenti che si lamentano della miseria della politica istituzionale, del sindacato ma che in questa separatezza, solitudine, si impoveriscono. Ho scelto di candidarmi nelle elezioni regionali perché rimettersi in gioco in quella cosa può tenere viva la contraddizione.

Vita Cosentino: “Ho due domande. Ho letto il libro e effettivamente come hai detto, facendo il punto sulle questioni, è più facile interloquire e mi sembra importante. Io parlo in base alla mia esperienza delle relazioni di differenza, quella con Alessio Miceli e Guido Armellini. Dal mio punto di vista mi ha sorpreso on trovare nel libro un elemento che nella mia esperienza è stata molto importante: una pratica di relazione duale uomo – donna nello spazio pubblico che io trovo molto dirompente, che va oltre a schieramenti e posizioni perché si è lì anche come un uomo e una donna. Recentemente abbiamo cercato di scrivere su Via Dogana con Alessio Miceli. Si tratta di una pratica esplicita e politica che va oltre alla critica. Non c’è nel libro l’idea di questa come un elemento effettivamente che fa superare quello che tu analizzi molto bene nel paragrafo ‘L’impossibilità di uno sguardo innocente sul mondo’ cioè il vedere che tutte le forme della politica sono improntate alla presa della cittadella ecc. Invece mi pare che ci si muova molto con associazioni, creando conflitti, ma non in questa forma così, che poi è anche molto dinamica. E questo penso che sia un problema per voi giovani: sono tanti i testi con cui mettersi in relazioni ma sono testi piuttosto che invenzioni pratiche espedite al momento. L’altro punto. Ritorno sulla questione dell’eccesso dell’importanza della decostruzione e della critica del modello maschile patriarcale. Mi è tornato in mente Guido Armellini che, pensando alle domande esplicite che gli facevano i suoi figli, sentiva l’esigenza anche di poter dire ai suoi figli un’idea positiva del maschile. Adesso tu hai detto noi non lo possiamo fare. Qui c’è una forte debolezza per lo meno della lingua. Per la prima volta ho letto nel tuo libro di maschi selvaggi che ho trovato orripilanti però anche con una forza espressiva che certamente fa qualcosa. Qui non si dice di declinare una serie di elementi positivi del maschile come qualità, come non ci sono qualità femminili ma almeno sul piano del linguaggio pensare a produrre qualcosa che parli di immaginazione,cambiare a quel livello lì”.

Loretta: “Mi sono laureata in medicina e me l’hanno concesso perché sono molto intelligente. Difendo il diritto delle donne di essere intelligenti e non viste solo dal punto di vista sessuale.”

Intervento maschile: “Un bilancio di Stefano. Ringrazio la forza di aver avuto la forza di scrivere le sue idee. Non è facile ed è anche faticoso parlare. Colgo l’occasione per dire della politica che stiamo imparando a fare in questi anni a partire da quel che citava Stefano sui nostri incontri protetti. Ci vedevamo ad Agape per anni dove facevamo conoscenza con uomini che non sapevamo neanche chi fossero. Per accogliere questa differenza con una fiducia totale, per poter fare questa pratica abbiamo fatto laboratori sul corpo. Tenersi per mano, interrogarci più profondamente. Questo per dire che la pratica dell’autocoscienza ha significato per me fare un certo percorso di scuola insieme ad altri uomini di diverse generazioni, apprendere il valore l’importanza di questa cosa in quel luogo protetto perché mi rendevo conto che, all’inizio, ero in difficoltà perché non conoscevo certi uomini ma dopo aver fatto i primi scambi mi trovavo in un’intimità tale che mi spiaceva lasciarli. Anche questo era un passaggio che non eravamo riusciti a vedere prima nella pratica politica di partito, io parlo per me, dove questa intimità era troppo distante e non riuscivamo a percepirla. Apprezzandola in questi piccoli esperimenti, oggi cerchiamo di sperimentarla in quella rete di uomini. Ci stiamo muovendo nel mondo, in Italia. Siamo stati a Bari un paio di mesi fa e abbiamo fatto l’esperienza di andare in un’altra città, essere accolti in un gruppo. Noi eravamo in relazione con una persona di Bari che ci ha fatto conoscere il resto del gruppo. Siamo stati ospitati da una rete di amici, amiche e abbiamo sperimentato la dimensione dell’accoglienza, l’abbiamo toccata per mano proprio perché, però sottolineo c’era bisogno di fare un’esperienza prima in un luogo protetto. E’ chiaro che anche adesso quando andiamo a Bari non è facile fare quei laboratori fatti in passato che ci hanno aiutato a vedere la ricchezza di certe cose. Come per noi l’accoglienza è una pratica politica straordinaria che stimo, praticando e cercando di capire sempre di più. Questo è distante dalle istituzioni e dai meccanismi ma devo dire che per me è un elemento di enorme felicità.”

Stefano Ciccone: “sul tema della pratica della relazione duale con una donna. Il libro non ha ringraziamenti, citazioni, mentre però nelle note cito l’esperienza con Laura, Sara, Chiara e con le donne con cui ho costruito un dialogo. Lo faccio per un motivo: quello di evitare la facilità di una posizione maschile di omaggio o di ricorso a un rapporto con una politica delle donne su cui appoggiarmi. Faccio uno sforzo sbilanciato su questo. Cerco di stare in uno spazio che prevede il riconoscimento di un debito politico e sociale rispetto alla politica delle donne, il riconoscimento di relazioni significative ma nello stesso tempo la necessità di autonomia del nostro percorso che non è indipendenza ma è responsabilità di una parola maschile che dica la mia verità. Quello che cerco di fare è di mettere in gioco la mia verità, la mia differenza. Anche dentro il gruppo Maschile Plurale ci sono tanti atteggiamenti diversi: spesso c’è un’enfatizzazione della spinta più etica più volontaristica, un in altri c’è un atteggiamento di omaggio verso il femminismo e di paura di fare un passo come uomini che hanno una parola in sé. C’è spesso un atteggiamento di buonismo. Ma io su questo se volete faccio un’operazione ruvida: quella di un gesto di autonomia di dialogo ma anche apertura di possibili terreni di conflitto tra donne e uomini. Un gesto di amore non di tensione, di ricerca di narrazione profondamente significativa”.

Laura Colombo: “Mi suona molto curioso che tu interpreti la pratica di relazione duale come un omaggio. Vita Cosentino citava la relazione con Guido Armellini. Quella relazione ha fatto succedere l’auto riforma della scuola. E’ la relazione duale e l’esposizione pubblica tra loro che ha fatto capitare delle cose grosse e mi sembrava curioso che tu interpretassi questa cosa che è una pratica in quel modo. La pratica è come qualcosa che coglie le occasioni che ci sono e le fa essere. La tua interpretazione era invece di un omaggio dell’uomo verso la donna”.

Stefano Ciccone: “Al contrario proprio perché la considero una pratica, la riporto in quanto pratica non come cornice iniziale a sé. Ma dico su questo terreno, ad esempio sul terreno maternità -paternità, quello che dico lo dico sulla scorta di relazione e di confronto con Caterina. In un altro capitolo racconto di questa riflessione, è sul tema del confronto tra due libertà, la riporto come parte di una relazione che ho costruito con Chiara o Katia. Nel libro lo racconto non come precondizione che offro a chi legge il libro ma di far emergere dal corpo a corpo che uno ha costruito con delle domande, far emergere una pratica e un percorso dove questa pratica ha generato qualcosa che poi racconto. Sul tema della decostruzione. In realtà primo il mio lavoro di decostruzione si applica su due terreni che sono il tema sessualità e quello della paternità. Non mi fermo a dire come decostruire la paternità tradizionale o le forme di sessualità maschile, dico che mi interessa scoprire una potenzialità diversa della mia sessualità o nella forma della paternità. In realtà cerco di fare esperimenti di scavo, di cosa significa re-inventare una paternità che non sia mimetica o sia inseguire il materno ma invece si costruisca su di sé, non inseguendo modello istituzionale del padre terzo come necessario o padre istituzione- norma come nella psicoanalisi. Mi interessa esplorare sperimentare le potenzialità del corpo maschile negate dalle forme sessualità-paternità che mi sono state raccontate. E’un percorso di re-invenzione del corpo maschile. Io dentro Maschile Plurale sono quello che più di tutti viene contestato perché voglio costruire manifestazioni nazionali, pratiche pubbliche politiche all’esterno. Gli altri dicono a me interessa il dialogo tra noi, piccolo gruppo, perché siamo maturi se usciamo e rischiamo di riprodurre modelli tradizionali maschili. Da questo punto di vista non mi sento dentro questa rappresentazione però direi solo una cosa citando provocatoriamente Carla Lonzi. Quando voi dite: c’è il rischio di non aver una parola espressiva efficace all’esterno, io dico a me non interessa fare proselitismo a me interessa raccontare la verità del mio percorso e poi questa cosa produrrà politica vita mondo fuori di noi e me. ..

Sara Gandini: “Sono d’accordo con quello che dice Vita Cosentino: mettere le relazioni al centro non come nota, o un riferimento a pié pagina, ma al centro del discorso. Secondo me nelle pratiche questa centralità esiste. Abbiamo costruito un gruppo, intercity-intersex, proprio con l’idea di rappresentare e raccontare pubblicamente il piacere di pensare assieme in presenza, fra uomini e donne, e di farne politica. Quindi questa questa pratica c’è, e il nostro è solo un esempio. Bisogna cominciare a raccontarla”.

Marina Terragni: “Qualche anno fa io ho visto un film che per me stato utile per capire gli uomni ‘American Beauty. Il movimento del protagonista era questo: prima depressivo, “non ci sto più dentro queste figure, non riesco a fare il padre, marito, manager”. Il secondo movimento era di irresponsabilità: lui si cavava da questa depressione dicendo voglio un lavoro con minore responsabilità possibile, infatti coceva gli hamburger. Io seguo con rispetto quello che state facendo ma qualcosa non mi torna. Noi nelle relazioni private che noi abbiamo con gli uomini sperimentiamo queste due cose: depressione e irresponsabilità. E questo ci pesa molto perché stare vicino a un irresponsabile e depresso è pesante. Io ho cercato, per quello che posso, di mettermi nei panni degli uomini: non sarei felice perché perdere potere non è un condizione. Cioè la mia domanda è: voi cosa ci guadagnate? Perché state davvero perdendo, dov’è il guadagno? Non ho letto il libro tu darai un’abbondanza di risposte. Se uno non guadagna non è credibile. Un guadagno di una sessualità diffusa non penetrativa…bah, io non ci credo, so che gli uomini vogliono sempre andare a goal, prima o poi arrivano al goal. Questo guadagno che voi fate, perché ci sarò sicuro è un guadagno, non necessariamente è amico delle donne, forse è un guadagno di nuovo nemico delle donne che magari non è più nella forma del dominio, però non è necessariamente un guadagno amico delle donne. Vorrei sapere come si è trasformata la vostra inimicizia, dove si è spostato il conflitto. Non mi interessa più il dominio, però mi interessa avere da te queste cose che tu non mi dài. L’ultima cosa: ho fatto un servizio sulle manager. Lo dicono autorevoli pareri che dove ci sono donne nei board ci sono più profitti, le società vanno meglio in borsa, nessun dubbio su questo. Peccato che negli Usa le donne nei board non entrano. C’è una fortissima resistenza maschile che deve riconoscere l’oggettività dei numeri ma non le vuole perché rompono delle logiche, perché non vogliono stare lì fino alle sette di sera. Insomma agli uomini rompiamo le palle e viceversa. Tu vedi una resistenza perché perdono: perdono posti, dove guadagnano questi qui? Una grande manager mi introduceva il tema della relazione e duale: diceva c’è la legge delle quote e va bene, questa può essere conflittuale, ma sta di fatto che i risultati più grandi si ottengno avendo una relazione con quegli uomini che non dicono si è giusto che ci siate ma che dicono vi vogliamo. Lì ci sono passaggi evolutivi. La fine del film: lui tradisce l’omosessualità e viene ammazzato c’è un conflitto tra uomini su questo”.

Marisa: “Questo intervento di Marina mi fa dire con più facilità che gli uomini positivi sono irritanti. C’è una sorta di irritazione profonda. Per me noi della ‘Casa delle Donne Maltrattate’ è stata una necessità. Noi del gruppo stiamo lavorando. E’ un gruppo all’interno della nostra esperienza anche con altri uomini, è una necessità. Siccome il contenuto del nostro impegno è la violenza contro le donne, senza un’apertura di analisi, di discussione, con gli uomini che quanto meno si dichiarano contro la violenza le donne, è una necessità. Da questa necessità è nata un’esperienza e proprio per merito di Vita che mi ha fatto arrivare una richiesta di dibattito da parte di Alessio. E da lì sono nati interventi, richieste di presenza e questo gruppo che noi chiamiamo un tavolo vero di uomini e donne in fase iniziale. Si parla a partire da sé, da propri obiettivi, Quello che voglio dire: tutto quello che tu dici è molto interessante ma voglio capire come possono la questione cosa del riconoscimento mi dà la sensazione che lì c’è un punto dia attenzione. E’ molto difficile tra donne riconosce l’autorità dell’altra, è ancora più difficile riconoscere l’autoritò di una donna da parte di un uomo. E lo si fa o in maniera strumentale nel senso che serve all’azienda o un guadagno ci deve essere. In quello che sto vedendo mi sembra davvero che reciprocamente ci possa essere una sorta di filtro diverso dell’esperienza. In questa esperienza con uomini o con uomini a cui sono legata affettivamente o che scelgono questo gruppo come momento di politica mi sta dando questo: il fatto di potere rileggere l’esperienza con un altro punto di vista. Mi ricordo all’inizio abbiamo cercato di dare strumenti alle donne per rileggere la loro esperienza di maltrattamento alla luce di un altro modo di vedere le cose, quindi delle proprie risorse e capacità. In questa fase non sono più nella dimensione ‘ci vuole, non ci vuole, quanti uomini si stanno interessando quanti no’ ma come posso cambiare ed essere espresse apertamente e politicamente le forme del conflitto perché dove non sono espresse producono guai”.

Intervento maschile: “Non mi piace intervenire subito dopo questo discorso della violenza sulle donne. Perché credo che come in tutti gli sport è necessario partire dai fondamentali. Se non si parte da lì non riusciremo a concludere. Parlare della violenza sulle donne è parlare di una piccola parte della violenza maschile. Noi siamo violenti tout court: contro di noi, contro la natura e anche contro le donne. Se non prendiamo coscienza di questo non riusciremo a fare grandi passi. Non abbiamo il concetto di che cosa sia la nostra violenza. Ci manca questo fondamentale: capire cos’è la nostra violenza. E credo che dovremmo partite da lì. Un secondo punto laterale ma che proviene da questo è la nostra paura del cambiare, cioè perdere qualcosa di sé. Credo che non si possa mai perdere qualcosa di sé. Cambiar strada non vuol dire perdere la strada che abbiamo fatto, semplicemente prenderne una diversa. Io credo sia impossibile perdere qualcosa di sé possiamo soltanto guadagnare qualcosa in più.

Luisa Muraro: “Vorrei riprendere la questione del conflitto. Il conflitto tra sessi è una modalità relazionale importante ma mi domando se è praticabile allo stato delle cose. Io sono polemica e aggressiva ma lo posso essere con donne, con gli uomini ho dovuto tagliare la corda perché è pericoloso. Se si fanno scherzi è finita. Uno può dirmi è un fantasma che hai tu e infatti è una questione che pongo: è un fantasma che ho io? Io ho questa questione che una donna polemica, aggressiva, non accomodante susciti fantasmi molto pesanti negli uomini a causa, credo, della figura materna. C’è un problema grosso lì. Un altro problema è lo scambio che c’è stato ad Asolo che tu riprendi nel libro. Un altra cosa che si associa è la realtà storica che abbiamo alle spalle. Tu ad Asolo citi la mia posizione come una posizione che non ti permette o che comunque critica la tua scelta di esplorare le possibilità presenti della sessualità maschile. Io non mi fido molto di quelli che saltano la frase depressiva. La fase depressiva-responsabile è una fase forse che bisogna attraversare e tu la rigetti così energeticamente. Quando ero nel Burkina Faso, bianca, in mezzo a tutti quei neri, mi sentivo colpevole. Questa umanità che i bianchi hanno umiliato bastonato non ti prende a sassate come si potrebbe pensare ma al contrario mi hanno trattata bene. I sensi di colpa, come dice Winnicot, è poco ma che ci siano almeno quelli. Questa paura ed esplorazione non euforica perché il libro non è euforico ma sempre in positivo.
Alla mia obiezione ad Asolo risponde Stefano Ciccone nel migliore dei modi. Perché nel libro, che avrà preso del tempo per esser scritto, alla fine tu stesso citi l’argomento per cui bisogna che l’uomo si impegni nella ricostruzione del patriarcato. Dici in un altro ragionamento: “la differenza maschile inoltre è storia di una parzialità che si è fatta norma e si è pensata come neutra. Questa è la differenza maschile”. Allora la differenza maschile non può esplorare le sue possibilità presenti senza assumersi la sua dimensione storica di parzialità. Quindi quel compito che ti chiedevo ad Asolo di assumere: certo, uno personalmente desidera, ha diritto, ma se uno si pone come autore di un discorso politico che vale per uomini e i loro rapporti con donne a me sembrerebbe che questo deve per forza chiudersi. Comunque il passato storico se non te lo vuoi assumere ce l’ho io nella testa e ce l’hanno tutte le donne che si rapportano con te. Le donne che hanno a che fare con te si ricordano della faccenda oppure sono delle sconsiderate a cui ormai non importa niente perché hanno una laurea in più di te, sono libere e sanno che poi te la fanno a pagare. Quelle non ti vengono a raccontare quello che è successo. Questi sono i termini di una conflittualità uomo – donna che io vedo difficile in termini che sono insieme politici storici e soggettivi. Perché tu hai pienamente diritto a non assumere il peso di cose che non hai fatto tu ma c’è l’immaginario la rappresentazione ci sono una serie di fattori dove tu puoi non assumerti niente ma non puoi impostare un discorso politico, perché il discorso politico deve sfangarsi fuori da queste questioni che ci sono e uno deve tenerne conto. Con questo non voglio insegnarti niente io su questo punto non ho nulla da insegnare so solo che siamo bloccati o le donne cercano di prevaricare su uomini provocando le reazioni che tu citi o siamo bloccati anche qui non c’è la cosa che tu chiedi. Noi abbiamo rapporti interessanti forti significativi con uomini che attraversano la fase della depressione. Certamente che alcune dicono vogliamo uomini più combattivi ma tu hai sentito Laura e Sara che addirittura vanno dall’altra parte a chiederti tu con tutto questo spirito critico che vai decostruendo manchi di spontaneità, fai torto al tuo desiderio. Non vai da nessuna parte. Per me sei troppo evasivo, per loro sei troppo inchiodato. Non c’è posizione. Tu non l’hai segnata sembra che non ci sia la posizione relazionale quella in cui si può fare il conflitto.

Chantal Podio: “non vorrei essere nei tuoi panni. Ti faccio una domanda ma non mi aspetto una risposta. Domanda che riguarda il mio desiderio. Sono molto d’accordo con molte cose che sono state dette da Luisa Muraro e Marisa Guarnieri sulla necessità della relazione. Io lavoro sulla tematica della violenza e questa è una necessità essenziale. Uno dei torti storici maggiori alle donne è stato negar loro la soggettività femminile e quindi la presenza di un desiderio. A partire da quelli della psicanalisi che frequento di più, sono attraversati costantemente da questa domanda cosa vuole una donna. Si arrovellano su Freud ai suoi tempi, ma non solo ai suoi tempi. La domanda ‘che cosa vuole una donna’ conviveva con l’affermazione ‘è meglio che una donna taccia’ il cosiddetto ‘taci donna’ da cui è partita Carla Lonzi. Quindi la questione paradossale è interrogarsi sul desiderio dell’altro ma non chiedere cosa vuole l’altro da noi. E’chiaro che posso parlare per me. Sono d’accordo quando Luisa Muraro parlava della depressione responsabile. Se io, ma molte di noi, dovessimo parlare della lacerazione e delle contraddizioni che si aprono quando mi confronto con donne al governo io ho una lacerazione fortissima di fronte ad alcune tematiche. Faccio un esempio: rispetto ai conflitti e contraddizioni interne al mio genere quando si parla della prostituzione sono in conflitto, quando si parla delle veline, del velo, altrettanto. I femminismi sono attraversati costantemente da conflitti, elaborano interrogativi e mettono in luce dei paradossi più che dare risposte per questo non ti chiedo risposte perché credo che noi incorriamo nei paradossi. Questa questione fondamentale. Io lo so che parte del mio desiderio è inconscio ed è fortemente contradditorio e tanto m’aspetto del tuo. Non credo che il problema sia una questione di coerenza o del poter delucidare. Se io fossi al tuo posto e mi si chiedessero certe cose sarei molto in difficoltà, io come donna rispetto al mio percorso. Quello che è il mio desiderio e la mia necessità è quella di avere un’alleanza, non ho timore ad usare questo termine, almeno di poterla ricostruire rispetto alla questione del disagio maschile. E’ chiaro che il sistema patriarcale è stata una risposta a delle esigenza che forse non erano solo esigenze maschili. Secondo me il patriarcato è stato sostenuto probabilmente anche a livello inconscio dalle donne. Quello che mi interessa rispetto al percorso. Credo che, al di là dell’autonomia del percorso della ricerca, rispetto al proprio desiderio e posizionamento.
L’interlocuzione che mi interessa è chiedere a te e agli uomini che fanno questo percorso di confrontarsi con maschi scomodi come i macchi selvatici, i padri separati. Quello che mi interessa, la questione è chi lavora sulla violenza sa bene che chi la esercita ha una fragilità spaventosa, solo che la società che è stata sempre maschile e non prevede luoghi per il disagio maschile. Esistono luoghi della forza maschile, ma non del disagio. Per cui l’iniziativa come certi uomini come il telefono del disagio maschile è scardinante perché sovverte la questione del sesso forte e debole e forse lì che è utile una relazione uomo – donna per provare a ragionare su quali siano i percorsi alternativi a quel disagio che non siano percorsi di violenza”.

Stefano Ciccone: “Potrei evidenziare le contestazioni con analisi specularmene opposte e cavarmela stando nel mezzo. Forse su questo sarebbe interessante discutere. Parto dal discorso che faceva Marina Terragni riguardante depressione e irresponsabilità maschile come due atteggiamenti di risposta alla crisi. Poi il tema de gli uomini buoni. Cerco di uscire da questa dimensione. Noi abbiamo passato quindici – vent’anni di percorso maschile su questo. Quando oggi dico “voglia andare oltre” lo dico oggi e lo dico con un’acquisizione per me significativa, esito di un percorso. Sara e Laura dicevano a proposito del nostro percorso e soprattutto di ristrutturazione dell’atteggiamento sul sé e poco di espressione di un desiderio sul mondo. Questa cosa, anche come dimensione conflittuale, all’interno dei gruppi maschili la sento. Infondo le cose che diceva Gianni, che noi uomini siamo violenti con le donne e la natura, che dobbiamo imparare a rispettare. Io vorre imparare a rispettare me. Vorrei dare a me valore. Credo che la violenza che agisco sulle donne, sulla natura sia frutto della miseria della relazione che vivo con il mio corpo e della percezione che ho del mio corpo e della mia esperienza di uomo. Da questo punto di vista quello che voglio fare è spostare lo sguardo su di me. Perché? Sono convinto che sia una posizione inautentica e poco utile politicamente quella della responsabilità maschile: farmi carico di tutto. Io penso che io sia un gesto che rompe che rivoluzione e trasforma quando anziché chiedermi cosa il mondo mi chiede, mi domando cosa io voglio portare nel mondo. Questo è un gesto di verità. Uno può dire mi interessa non mi interessa, ma è il mio percorso che dice la mia vita. Soprattutto non mi interessa gli uomini buoni. L’abbiamo scritto in tutte le salse. L’idea degli uomini buoni, sensibili che si assumomono le responsabilità del maschile mi suona falso…

Clara Jourdan: “Fallo diventare vero, ti suona valso fallo diventare vero”

Stefano Ciccone: “E’ quello che io faccio”.

Clara Jourdan: “Sembra che l’essere un uomo buono, sensibile, farsi carico della responsabilità maschili sul mondo non sia una cosa buona cosa ma è quello di cui abbiamo bisogno…”

Luisa Muraro: “Gli uomini a noi sembrano preoccupati di se stessi, narcisi. Chiediamo uomini che siano buoni responsabili attenti e semplici”.

Stefano Ciccone: “La forma maggiore di narcisismo è per me quella di apparire buono e salvatore del mondo.Il mio è un percorso di assunzione di responsabilità. Da vent’anni ogni tre giorni son in un centro antiviolenza, in un scuola e parlo della violenza degli uomini. Quindi non mi sembra di far un operazione che non si assume responsabilità in questo terreno e il nostro volantino diceva già quindici anni fa che la violenza non è l’opera di un altro, un maniaco, un emigrato e via dicendo ma è una responsabilità di tutti noi e siamo parte di questo mondo. Io non sono altro da quel mondo lì e questo è il centro di partenza di Maschile Plurale. Vorrei che ci ascoltassimo tra noi perché altrimenti invece di parlare tra noi ognuno parla con i suoi fantasmi, proiezioni. Io vorrei parlaste con me, con la mia storia, con la mia pratica politica che è tutto meno che pratica che si tira fuori dalla responsabilità maschile rispetto alla violenza contro le donne. Penso che dovremmo evitare facili semplificazioni. Dentro questo c’è una riflessione più interessante che ci porta un passo oltre: La questione è: c’è una crisi di potere degli uomini. Cosa ci guadagnamo perché dentro questo c’è la verifica dell’autenticità del nostro percorso e se si perde è inautentica.
Quello che cerco di dire con questo libro è che cerco di pormi in modo differente rispetto a una posizione meramente di assunzione della responsabilità. Io cerco di dire cosa guadagno in questo percorso. Non dico che è un percorso motivato da una spinta volontaristica all’assunzione di una responsabilità ma dico anche: o questa mia politica è capace di esprimere una domanda di libertà e cambiamento maschile o se si ferma un passo prima all’assunzione della responsabilità allora è inautentica. Altri due elementi: che rapporto abbiamo noi come uomini con il patriarcato. In due sensi: la crisi del patriarcato significa crisi per ogni uomo? Cioè la crisi è una minaccia per la mia vita? La femminilizzazione della società, la libertà femminile o l’autonomia è qualcosa che mette in crisi un ordine, ma è qualcosa che è distruttiva nella mia identità o soggettività come uomo? Rispetto a questo vorrei dire due cose: una riguarda la rappresentazione che non è qui dentro ma che è socialmente diffusa che parte dall’ottocento in poi e che nel mio libro chiamo quella della precarietà della verità. Verità come costrutto sociale che assegna a me un potere, un’autorevolezza, un’autorità, un dominio ma è anche un elemento molto precario tanto che viene messo in discussione dalla libertà femminile o anche da altre cose come la perdita del lavoro, il non aver successo sociale. Funziona come modello identitario questo? Cioè che la mia identità sta tutto nel ruolo sociale di potere e che se quel potere finisce allora finisco io, o posso trovare una strada che mi ponga un’idea di futuro e di libertà fuori da questa prospettiva? E’ una domanda aperta. La seconda cosa. Il patriarcato, io non me ne tiro fuori e perché faccio un libro in cui continuamente faccio un movimento di estraneità e critica. E’ un’operazione che mi corrisponde o mi nega? Io sento che oggi quella costruzione di neutralità maschile è un’operazione di potere che nega la mia differenza cioè che non mi permette di esprimere la libertà di una mia domanda. Ma nello stesso tempo è il frutto è stata prodotta da questa parzialità. Questo è un elemento controverso in cui la mia posizione dev’essere attenta a tenere dentro questa ambiguità. Perché gli uomini, il genere maschile, hanno prodotto questa illusione del neutro, di un soggetto che si emancipa e si libera dal corpo, che considera la corporalità il luogo della materialità, mentre la soggettività, quella che si libera da questo? Dentro questo elemento è evidente che c’è un conflitto rispetto al potere femminile generativo, alla tentazione di costruire delle protesi cioè usare potere e parola come protesi che inseguono quelli che io percepisco come i limiti del corpo maschile. Quindi tutto questo è frutto dell’esperienza e angoscia maschile nei confronti della procreazione, della finitezza del corpo. La costruzione storica che il maschile ha prodotto, cioè il patriarcato è l’identificazione con un modello neutro astratto estraneo al proprio corpo, incapace di ascoltare il proprio corpo e di trovarne una verità della propria soggettività. E’ una cosa che mi ha privato di un’esperienza di verità. In questo senso il patriarcato mi rappresenta e mi nega. Se non tengo insieme questi due elementi, non tengo questo movimento farò un percorso. Se uno mi dice il patriarcato è l’unica condizione per te, perché devo rinunciare al potere, alla sottomissione femminile nella sessualità, alla mia autorità indiscussa per che cosa?”

Luisa Muraro: “Perché l’avete persa. L’hai già persa. Non si può rinunciare a quello che hai già perso. E la depressione è questa il passaggio attraverso la depressione”.

Stefano Ciccone: Da dieci anni dicono che sono depresso. Torno su questo passaggio. Io sento che invece proprio questo è il danno. Quale depressione voglio esprimere, disagio maschie? Rispetto a questo. Non solo ho perso quel potere e non riesco a sentirne la nostalgia ma quel potere ha perso di senso di fronte ai miei occhi cioè alcuni uomini che fanno a gara a chi ce l’ha più lungo all’Università che fa la gare a chi fa più scontri con la polizia o alla seduzione alle donne: mi appaiono ridicoli e non è che dico non potrò più essere così e me ne dispiaccio perché per me quella cosa mi appare ridicola. L’ho persa dentro di me non perché fuori non c’è più lo spazio: perché, secondo me, qualche piccola condizione di privilegio, supremazia, opportunità maschile nel mondo la vedo, ma non è questo. Sento che quella cosa a me non funziona più non mi dà più senso. Non è che ho perso qualcosa e mi devo adattare è che quella cosa lì. Non mi interessa più non mi significa più. Su questo devo ragionare. E devo capire non quanto sono depresso del male che ho fatto a Chiara ma che cosa voglio io nella mia vita. Sono convinto che la sua libertà e la mia siano condizione l’una per l’altra e cha la sua libertà non sia minaccia a me, minaccia al mio potere, ma il mio potere non mi suona più. Per esempio Marina parlava del fatto che gli uomini possono fare un discorso molto ricco sulla sessualità non penetrativa, diffusa, però lo fanno per manierismo perché l’uomo punta al coito. Io, quello che cerco di scrivere sul libro è questo: mentre c’è una sessualità femminile complessa, diffusa, su varie dimensione c’è una sessualità maschile facile, banale esteriore basata sulla penetrazione eiaculazione. Se non è proprio così, che gli uomini puntano al goal, io mi chiedo: posso godermi la partita e non pensare subito al goal? Perché godermi la partita può portarmi a fare delle esperienze che fanno piacere a me. Siamo convinti che questa sessualità che gli uomini vivono sia pienamente soddisfacente? Nel libro cerco di raccontare di esplorare, osservare, come forse questa immagine di una sessualità proiettiva, tutta verso fuori, concentrata sul pene sia una cosa che impoverisce la mia sessualità, il mio piacere, non l’oppressione delle donne. Sto parlando dell’esperienza che io faccio, quanto la sessualità basata sulla prestazione impoverisce la mia esperienza l’ansia è fare goal e non ascoltami. Quanto io posso pensare che il mio corpo possa essere oggetto di uno sguardo femminile maschile oggetto di un’esplorazine e quanto questa possa essere esperienza per me soddisfacente. L’eiaculazione è sufficiente al piacere maschile, come questa sessualità basata sul pene? Forse no, ho ragionato anche sugli aspetti più controversi di morfologia, per cui i luoghi del piacere maschile sono anche dentro il corpo. Secondo me l’idea che ci può essere una sessualità maschile meno banale, meno legato al goal in cui ci guadagno, come dicevi tu, Marina.
Rispetto a Marisa che diceva: tutto siamo meno che uomini buoni. Siamo uomini che cercano di capire il loro desiderio la loro libertà può essere condizione di creare uno spazio di libertà anche con le donne. Rispetto al tema del conflitto per me è questo: un conflitto dove non ci sia una polarizzazione tra la differenza espressa politicamente e il patriarcato ma che ci sia anche un mio spostamento in questo conflitto. Dove mi misuro con il patriarcato e mi sposto e costruisco una critica e apro uno spazio dove agire un conflitto più ricco.
Sul tema del conflitto, su come esprimerlo. Quello che abbiamo tentato di fare è: ascoltiamo il disagio, l’angoscia maschile. Noi abbiamo ragionato sul tema della violenza e nel libro c’è un capitolo sui dei padri separati. Il problema è: non dire ‘il padre separato si lamenta per l’attribuzione dei figli solo alle donne’, ‘è un’attribuzione misogina patriarcale’ quindi lo liquido. Invece ascolto quel desiderio di relazione con i figli, quel desiderio oggi acquisisce una risposta revanscista, di rivalsa reazionaria. Voglio capire se dentro quella cosa posso scavare e dire a quegli uomini: ‘attenzione le sentenza di tribunale che affida i figli alle donne è il frutto di una costruzione stereotipata di ruoli: gli uomini portano i soldi a casa, hanno il lavoro. La donna è relegata alla cura del privata e dentro quella cura c’è la sentenza’. allora ragionimao se quel potere che ti sei preso come padre di famiglia oggi non ti fa stare da solo a dare gli assegni matrimoniali e forse quel potere va smontato. Allora torno a Luisa. La realtà storica del maschile su cui io mi misuro è una realtà controversa in cui c’è quella violenza, la perdita di significato delle attribuzioni di potere. In pratica su questo voglio costruire una domanda. Tu dici: ‘ io ero bianca, occidentale, ho vissuto il senso di colpa’. Io sono maschio, occidentale, eterosessuale e borghese. Io posso sedermi e osservare il mondo frutto dell’oppressione a cui io corrispondo oppure posso capire se dentro questo mondo posso agire una domanda di libertà e cambiamento a partire non dall’estraneità alla mia norma, ma sapere quanto questa norma mi rappresenta o mi nega. Questo non vuol dire non assumersi la responsabilità al contrario assumersela in modo onesto e trasparente senza fare l’operazione che è facile fare ovvero quella di dire ‘siamo tutti colpevoli’.
Sulla Necessità e desiderio. Sento nella discussione di questa sera una difficoltà che incontro spesso e che ho riportato nel libro: sento che c’è un riconoscimento della necessità politica di costruzione di una relazione politica tra donne e uomini, a volte non sento il desiderio, l’attrazione, la curiosità, il movimento per dire che dentro questa relazione c’è qualcosa di vitale che ci trasforma e ci sposta. Allora prendo nel merito tutte le cose che mi dite c’è come una sorta di resistenza a questa relazione che viene riconosciuta come politicamente necessaria ma che sento non essere mossa da un desidero che è quello di dire dentro questa nuova relazione trovo spazi che parlano la mia domanda di politica di libertà come donna”.

Luisa Muraro: “Bisogna suscitarlo il desiderio. Ma a quei padri che si lamentano perché non hanno i figli in affidamento perché non racconti loro quello che hanno fatto patire a tante generazioni di madri? Non devi dir loro che è uno stereotipo, devi dire ‘guardate che il nostro sesso ha fatta tante ingiustizie sulle madri e oggi i giudici credono che le loro sentenze possano ristabilire un po’ di equilibrio, ascoltando il desiderio delle donne. Racconta cos’è stata la storia occidentale di paternità”.

Marina Terragni: “Quando dici ‘il conflitto si deve spostare, io mi sposto rispetto al patriarcato’, non capisco cosa vuol dire ‘mi sposto rispetto al patriarcato’ perché non c’è più. Volevo chiedere cosa provi tu, nudo, di fronte all’onnipotenza della madre. Perché quello che è successo, che provano i bambini, e chi ha figli maschi lo vede, è che dall’amore, dal terrore dalla dipendenza passano alla rabbia allo sprezzo. Tu a che cosa passi se non vuoi passare di lì?”

Intervento: “Volevo portare un’esperienza un po’ diversa. Io ho sposato un uomo buono nel senso che è un uomo di seconda generazione. Ha avuto un padre che ha agito la cura, la sua attitudine alla cura, non ha nascosto la sua parte emotiva per cui lui vive con più naturalezza e libertà queste parti di sé. Lui stesso nei confronti dei suoi figli è un padre presente, premuroso, però è vero c’è un lato irritante in tutto questo. Il problema è dove collocare il conflitto perché lui non tollera il conflitto e dice ‘come! io faccio tutto quello che faccio!’. Io sono polemica e aggressiva e la relazione è abbastanza tosta. Sono molto interessata allo spostamento del conflitto in che modo collocarci andare oltre e iniziare a rapportarsi con un uomo buono non nella retorica dell’eroe che salva il mondo ma un uomo che si prende cura”.

Elisabetta Marano: “Volevo dirti alcune cose: sono molto contenta che da anni facciamo gruppi assieme, sei un uomo buono, mi hai fatto vedere un maschile diverso. C’è un punto che mi preme e che riallaccio alla questione di dove si sposta il conflitto. Da sei anni facciamo gruppi di riflessione assieme misti uomini donne. L’altro giorno ho saputo che parteciperai alle elezioni nel gruppo di Sinistra e Libertà. Ti chiedo una cosa. alla luce di tutti gli scambi, le conversazioni avute in questi anni assieme, mi trovo in difficoltà a sapere che fai questo. Pensavo che dopo anni di riflessioni l’approdo tuo sarebbe stato un po’ diverso. Mi sembra così che ti vai a ricacciare in quello scontro con il patriarcato e quello che rappresenta e mi sembra che quel discorso tuo di tenere aperta la contraddizione con quel sistema forse è già qui, nella relazione che hai con alcune donne, alcuni uomini e mi sembra che tu questa cosa di pratica politica non la stai vedendo. E’ questo il mio terreno di conflitto con te oggi, perché questa cosa che c’è, esiste. Tu non stai dicendo che c’è, stai spostando da un’altra parte. Mi lascia molto perplessa£.

Silvia Motta: “Apprezzo molto. E’ la prima volta che sento degli uomini parlare della loro esperienza. Apprezzo molto che ci siano uomini che non sono solo dentro il crollo del patriarcato ma che si rendono conto, sono consapevoli e penso che questo non sia un lavoro molto facile. Per cui non disprezzo percorsi di autocoscienza che loro hanno definito ridicoli, li valuto positivamente anzi li guardo con molto interesse e per una certa parte sono convinta che siano pratiche che fanno venire fuori uomini buoni (terrei molto buona questa espressione). Da piccola vedevo i maschi divisa in due parti: una grandissima maggioranza di uomini cattivi e pochi uomini buoni. Bene, se aumentassero i buoni sarebbe qualcosa di straordinario. Volevo andare oltre. Vorrei uscire dalla questione maschile – femminile rivolgendomi ai maschi. Oggi al mondo le questioni le domande le pongono le donne e su questo devono rassegnarsi. Capitolo secondo della cosa, sono convintissima che le risposte non le trovano sole le donne e quindi quella è l’altra parte che implica noi donne. Per esempio. Sposto il terreno dal discorso personale uomo – donna. Quando abbiamo scritto il documento ‘Immagina che il lavoro’ abbiamo sostenuto un nuovo concetto di lavoro. Io auspicherei di trovare in giro maschi che si allineino con me in un nuovo concetto di lavoro e insieme si trovino risposte.

Laura Minguzzi: “Riprendo il discorso di prima. Mi è venuta una sensazione ascoltando le tue parole. Non ho letto il libro però sono stata ad Asolo, sono venuta al Circolo, ti conosco abbastanza. Ho avuto una percezione quando tu dici che a te non interessa l’identità maschile come una volta. E’ come se tu togliessi il merito alle donne che ti hanno tolto la terra sotto i piedi che hanno fatto cadere il patriarcato. Forse è inconscio. C’è come un certo compiacimento di restare nella posizione della decostruzione. E’ come rimanere in un circolo vizioso anche se sono d’accordo con quello che diceva Silvia ovvero la parte dell’uomo buono che si metta con te per creare questo nuovo concetto di lavoro”

Stefano Ciccone: “Inanzitutto parlo dalla questione di Marina sull’onnipotenza del materno e della relazione con questo. Più che un discorso politico questo è uno dei terreni su cui si può agire un conflitto donne – uomini sul tema della scelta procreativa rispetto a cui non c’è solo un’esperienza dell’onnipotenza del materno ma c’è anche una fantasia su questo. Può essere interessante un’interlocuzione reciproca tra uomini e donne può essere interessante vedere cosa agisce dentro le donne. Io so che rispetto all’esperienza concreta materiale della relazione con mia madre ho vissuto un percorso quasidi simmetria con mio fratello e mio padre cui ho avuto di fronte un modello molto netto di posizionamento maschile, un’emozione maschile che è quella della frustrazione rabbiosa rispetto l’onnipotenza del materno. Rispetto questa onnipotenza da un lato si attribuisce la colpa di ogni proprio fallimento, frustrazione e si ha la pulsione di volerla degradare, smontare, riportarla alla dimensione materiale. Io sono una persona poco violenta e gli istinti che ho vissuto di limpida violenza distruttiva e aggressiva li ho vissuti con mio fratello maggiore nella relazione con mia madre, in cui c’era l’ansia dell’indipendenza come movimento contro una dimensione di dipendenza di vincolo di relazione che però diventa contro quel soggetto e quanto queste cosa sia una pulsione distruttiva autodistruttiva e frustrata l’ho vissuta sulla mia carne. Oggi questa pulsione ha portato mio fratello ad autodistruggersi. E’ un alcolista. Non a caso l’alcolismo e la dipendenza è un fenomeno maschile a parte quello femminile che è un’altra cosa. Il movimento di negare una dipendenza ti porta a un’altra dipendenza che neghi continuamente e mio fratello ha fatto un percorso distruttivo. Ho difficoltà a prendermi cura di lui perché trovo un dolore arrecato a mia madre, una violenza contro mia madre. Mio fratello è in una clinica per anziani. Io penso una relazione di fronte a quell’esperienza di onnipotenza del materno che tenta di costruire in modo distruttivo un percorso di rivincita frustrata e rabbiosa che nega e non guarda la forma di interdipendenza. E’ un’operazione distruttiva non solo tanto verso le donne ma verso noi stessi. Io il percorso che faccio è questo: io voglio essere una persona che si misura con questo, senza essere frustrato e autodistruttivo come mio padre e mio fratello. Detto questo. Io mi devo prender cura di mio fratello. Riguardo la cura: penso sia un terreno su cui potremmo ragionare un po’ di più. La cura può essere un luogo di forte ambiguità. La cura è il modo in cui io proietto il bisogno tutto su di te e questa è l’onnipotenza. Tu sei quello che ha bisogno e quindi l’unico desiderio in gioco è il tuo, io non metto in gioco il mio né i miei bisogni. Ascolto i tuoi ma mi pongo fuori dalla relazione. Io quello che faccio con mio fratello è questo: siccome se dovessi mettermi in gioco dovrei mettere in gioco tutto questo portato di ostilità rancori e via di seguito, dico: ‘siccome tu stai male mi prendo cura di te e facendo questo nego i miei bisogni e la mia pulsione’. Questa cosa la faccio anche come uomo e mi è stata contestata. Ne parlo nel libro ad esempio quando di fronte a un’ipotesi di gravidanza inaspettata ho avuto l’atteggiamento dell’uomo buono che dice: ‘io ascolterò le tue scelte, quindi sono accogliente’, ma lei ha chiesto cosa volevo io. Perché prendersi cura è un modo per non dire cosa si vuole però vale anche al contrario. Cioè quando parliamo dell’onnipotenza del materno ne parlo nel libro cercando di dialogare con Manuela Fraire che fa un discorso di far emergere anche l’elemento di desiderio di soggettività, di sessuazione della madre che mette in gioco quella relazione in cui la madre non rappresenta più solo l’onnipotenza ma un soggetto parziale con un suo desiderio con una sua sessualità, con un suo immaginario colonizzato dal patriarcato, con una sua idea delle relazioni sessuate tra donne e uomini. Questo mi permette di avere una immagine reale della madre e non solo simbolica. A me interessa costruire una relazione che si misuri su questo. Dentro questo elemento c’è un dato sulla interdipendenza o della dipendenza. A me misurarmi con il tema di essere stato in balia di quell’onnipotenza che però Fraire dice non essere solo in balia dell’onnipotenza, ma di un corpo che mi trasmetteva il suo desiderio e la sua sessualità, quindi un corpo reale di una donna, mi fa dire che io non posso dare conto di me fino in fondo. Come dice Judith Butler: la soggettività è quel luogo dove non si può render conto fino in fondo, è un luogo anche opaco. Il soggetto è quello che non può render conto interamente di se stesso, deve riconoscere le radici dell’interdipendenza della relazione originaria con la madre e confrontarsi con l’angoscia della relazione con la madre e dentro questo un soggetto che non è pienamente padrone di sé. Questo è un mito maschile che è stato il mito che ha portato mio fratello in quel conflitto con la madre, è un mito distruttivo.
Riguardo Sinistra e Libertà. Io penso che il mio agire poltico nel sindacato, nella politica non sia altro. Io son una persona tutta intera, la mia storia è fatta della relazione politica con donne e uomini, questo portato a della ricchezza di critica alle forme della politica la voglio portare anche dentro quella politica perché se no mi condanno ad essere amministrato da meschini soggetti che non sono consapevoli di sé. Su questo voglio costruire una battaglia politica. Non capisco se il patriarcato c’è o non c’è. Se non c’è più non abbiamo problemi…Elisabetta diceva allora accetti di stare dentro il quadro del patriarcato.”

Quando tu, Laura dici: “fai un’operazione che sminuisce il gesto delle donne di toglierti la terra sotto i piedi’ io dico non mi interessava più. Invece è proprio il contrario: la verità è che io vedo ancora un concretissimo potere maschile dentro la società. La fine del patriarcato è dentro di me, la fine di senso di quella cosa. Io so che all’università ho più probabilità di una donna di fare carriera…”

Luisa Muraro: “ma il patriarcato non è il potere maschile. Il patriarcato non c’è più ma questo non vuol dire che non ci siano prevaricazione di maschi sulle donne”.

Stefano Ciccone: “è la stessa cosa che dicevo. Poiché esiste anche una forma di potere maschile di predominio, quando esprimo che emotivamente quel modello virilità tradizionale a me non significa più qualcosa e che non mi interessa quell’universo, quella prospettiva, sto dando conto del fatto che dentro di me nei miei desideri, nelle mie politiche esistenziali, il movimento delle donne ha infranto il patriarcato perché ha tolto valore senso credibilità autorevolezza a quell’universo simbolico. Se ci fosse ancora una passione rispetto a quello direi il patriarcato ha subito delle botte ma è vivo perché è capace di dare senso alla mia prospettiva esistenziale invece quando dico non è più capace c’è una crisi più profonda: non è crisi del potere istituzionale o fine delle forme di oppressione ma è crisi di senso nelle nostre vite.”

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