9 Dicembre 2016

I semi di un metodo vivente

PROLOGO

 

di María-Milagros Rivera Garretas

(Traduzione di Silvia Baratella e Luciana Tavernini)

 

 

La scoperta della storia vivente

 

La storia vivente è nata nel 2005, nel contesto della Libreria delle donne di Milano, in un gruppo di politica delle donne che allora si chiamava Comunità di pratica e riflessione pedagogica e di ricerca storica. Come ogni vera nascita, non è scaturita dal nulla ma da una gestazione lenta e appassionante condivisa tra una madre (Marirì Martinengo) e le poche che facevano parte di questa comunità di storiche e di amiche: Luciana Tavernini, Laura Minguzzi e Marina Santini, accompagnate a volte da altre che entravano o entrano ancora nel gruppo, o anche che ne escono, quando la posta è troppo alta o per altri motivi. Poche e amiche, “Poche e sufficienti,”[1] come nelle fondazioni rivoluzionarie di Teresa di Gesù (Teresa d’Ávila, 1515-1582)[2] o del femminismo radicale dell’ultimo terzo del XX secolo, come per esempio Rivolta femminile (1970).[3]

 

La storia vivente è nata dalla pubblicazione da parte di Marirì Martinengo del libro intitolato La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, donna “sottratta. Ricordi immagini documenti.[4] Il libro ricostruisce la storia della nonna paterna di Marirì, Maria Massone, una donna che, trentunenne e dopo cinque maternità in sei anni, fu rinchiusa (1895) in una cosiddetta “casa di cura” fino alla sua morte (1924). Così Maria Massone fu cancellata dalla memoria della famiglia che lei stessa aveva fondato, sottratta silenziosamente al suo mondo e alla storia per qualcosa nel suo essere donna che minacciava nelle sue strutture le pretese della classe sociale a cui apparteneva, la borghesia. In apertura del libro, Marirì Martinengo scrisse la sua idea essenziale: “C’è una storia vivente annidata in ciascuna/o di noi, costituita di memorie, di affetti, di segni nell’inconscio; non penso che abbia valore storico solo quello che sta fuori di noi, che qualcun altro ha certificato, la famosa storia oggettiva. Io racconto una storia vivente che non respinge l’immaginazione, un’immaginazione che affonda le sue radici nell’esperienza personale, storia più vera perché non cancella le ragioni dell’amore, non respinge le relazioni, dal suo processo cognitivo.”[5]  Io lessi subito questo libro perché alcune di noi del Centro di Ricerca Duoda dell’Università di Barcellona avevamo già allora una relazione politica con Marirì Martinengo. Qualche mese più tardi lo presentai alla Libreria delle donne di Milano e, nel preparare il testo, ricordo che restai per un po’ sulla traduzione del paragrafo citato, e precisamente sulle parole «storia vivente», senza capire perché la parola “vivente” non fosse in corsivo, come mi pareva dovesse essere perché che quella fosse storia mi era evidente, l’aspetto rivoluzionario era invece l’idea di una storia vivente. Per un pezzo rimasi in dubbio se essere fedele come traduttrice o essere fedele alla genialità dell’idea. E alla fine lasciai l’incertezza.

L’incertezza era il segno dell’importanza stessa dell’idea: la traccia dell’ombra, dell’oscurità ormai mescolata alla luce. Il libro, in realtà, è una dimostrazione di quello che ancor oggi (2016) fa più problema accettare, cioè che la storia vivente sia storia, non che sia viva e che vivifichi. Fa problema accettarlo alla storiografia maschile tradizionale, e anche a una parte importante della storiografia delle donne, quella nata dagli studi di genere. Ed è così nonostante la storia vivente non abbia pretese totalizzanti, cioè nonostante non pretenda di essere l’unico modo di scrivere la storia: non pretende di riempire un vuoto e neppure di proporre un nuovo paradigma.

 

La vita delle viscere

 

Quello che pretende la storia vivente è, secondo me, di cercare e di trovare la verità storica attraverso la strada della differenza sessuale, cioè attraverso la strada del senso libero dell’essere donna o uomo: la strada delle viscere, per usare le parole indispensabili di María Zambrano, poiché è nelle viscere dove la differenza sessuale mette le sue radici, dove radica il suo sentire. Ma le viscere non rientrano nella conoscenza universitaria: sono troppo sporche, inaffidabili, puzzolenti, deformi, volubili, taglienti, oscure e moleste. Sono moleste proprio per il loro legame inevitabile con la verità della madre e della lingua materna. La madre non rientra o rientra con grande fatica nel sapere universitario attuale. L’università alla fine del XII secolo concepì se stessa come Alma Mater (madre nutrice), e fatica a cedere il posto alla madre.

 

Così la Storia si scinde oggi tra la verità pattuita, ossia la verità del linguaggio concordato dagli Stati, e la verità della madre e della lingua materna. La verità del linguaggio concordato è sicura, assicurata com’è dalla forza degli Stati che la concordano; la verità della lingua materna è incerta e delicata, proprio come siamo delicate e incerte noi madri. Oggigiorno, però, l’ossessione per la sicurezza denuncia qualcosa di brutto. In questo stato di cose la verità incerta e delicata delle madri suscita una curiosità che preoccupa la verità pattuita. Per questo si può dire che stiamo vivendo nella storiografia e nella politica una battaglia per il simbolico in cui lottano per il senso della verità storica la storia di impostazione positivista e sociale da un lato e dall’altro la storia vivente. Non perché siano due storie antagoniste, ma perché il paradigma del sociale pretende fin dalla sua nascita di scrivere una storia totalizzante, e in questo ha fallito, fortunatamente, per quanto fatichi a riconoscerlo. Ha fallito perché era una pretesa vana, presa forse senza saperlo dalle ideologie totalitarie del XX secolo. C’è molto nella vita umana che non trova posto nel paradigma del sociale e che sta oltre, non contro il sociale, e che non ha mai cessato di esistere, benché fosse oscuramente presente al suo fianco, al fianco del sociale. In questo oltre (non contro) c’è, tra le altre cose, la storia vivente.[6]

 

Per questo, perché la storia sociale e la storia vivente non sono un’antinomia del pensiero ma sono due proposte o due scommesse dispari, la battaglia per il simbolico nella storiografia non si configura come una contrapposizione dialettica ma come un movimento delle viscere: un movimento delle viscere che non porta ad accordi o disaccordi che si possano mettere per iscritto, bensì a incontri spirituali riusciti o falliti alla maniera delle affinità elettive. In questo libro, per esempio, si discutono e si confutano nel dibattito cose che non sono neppure state dette. Non è follia ma aurora, aurora dell’oscuro che lascia a bocca aperta, nella quale il bianco, il grigio e il rosa non si connettono ancora.

 

All’oscuro delle viscere è stato dato, tra pensatrici del XX secolo e di oggi, il nome di vita passiva.[7] E, con la vita passiva, la chiamata delle viscere.[8] In uno dei suoi testi autobiografici, María Zambrano disse della propria filosofia: “Io sono sempre andata in direzione del riscatto della passività, della ricettività. Io non lo sapevo, ma da molti anni anch’io stavo facendo alchimia.”[9] La vita passiva è quello che in me non mi lascia fare con successo quello che non è necessario sia fatto da me, per quanto lo sembri, e me lo impedisce, custodendo al tempo stesso un mio desiderio vitale che non può venire alla luce lì; è quello che in me non mi lascia essere felice quando faccio molto bene le cose sbagliate, custodendo passivamente il mio desiderio di grandezza nel fare attivo che in quel momento è alla mia portata.

 

Fare i conti con la vita passiva è necessario per fare simbolico. La stessa parola “simbolico” lo indica, deriva dal greco συν-βαλλειν, che significa “lanciare con”: il “con” è l’oscuro delle viscere, oscuro inseparabile dalla parola che, lanciata, fa simbolico. Questo ha conseguenze importanti nell’azione e, pertanto, nella storia e nella politica. Quando le parole vengono lanciate in aria senza il peso delle viscere, senza la loro sporcizia e impotenza, volano, ideologiche, e immolano vite, sacrificate all’idea smaterializzata. La sporcizia non tenuta in conto allora straripa terrificante sotto forma di distruzione e sangue.

 

La storia vivente riscatta e redime la vita passiva, la vita delle viscere.[10] E non dalle viscere di chiunque, non da quelle delle “altre”, ma dalle proprie. Questa è una rivoluzione nella scrittura della Storia: una rivoluzione che lascia finalmente dietro di sé la pretesa ottocentesca di obiettività, senza minimamente intaccare l’uso, per scrivere storia, della più squisita erudizione.

 

Perché riscattare la vita delle viscere? Perché la storia non dimentichi la vita passiva, l’impossibilità dell’azione a fianco della sua possibilità e, così, faccia simbolico e sia feconda. Tutti i testi di questo libro che trattano di storia vivente, che sono quelli di Laura Minguzzi, Luciana Tavernini, Marina Santini, Marirì Martinengo, e in modo promettente, quelli di Marina Canal, Piera Moretti e Désirée Urizio, sono nati e sono stati scritti dopo un difficile processo di indagine sulla propria esperienza profonda, indagine in cerca dei nodi, degli ostacoli e dei grumi oscuri del disordine simbolico che impedivano l’interpretazione libera della Storia da parte ogni storica in carne e ossa. Quest’indagine non è solitaria, anzi è stata condotta sempre in relazione: in relazione all’interno della Comunità di storia vivente, o fuori di essa in una relazione duale di affidamento. Che l’indagine in profondità della vita delle viscere venga svolta in relazione è importantissimo, perché da questo dipende che la pratica della storia vivente sia politica. Che sia politica implica allo stesso tempo che la storia che alla fine viene scritta è storia comune, non solo storia personale, per quanto sia anche questo. La relazione crea il contesto e contestualizza gli avvistamenti di luce che ogni autrice persegue e ottiene indagando i nodi della sua esperienza. Così le autrici di questo libro offrono e propongono interpretazioni generali di periodi e di avvenimenti storici come la riurbanizzazione e le migrazioni degli anni Sessanta in Europa, le guerre del XX secolo, il genocidio in Istria alla fine della seconda guerra mondiale o l’influenza sulla perpetuazione del patriarcato degli abusi sessuali diffusi e quasi indicibili da parte di uomini socialmente rispettabili e, con questa, sulla difficoltà femminile a prendere parola in quanto donna.[11]

 

Il metodo vivente

 

Così la storia vivente pianta i semi di un metodo di conoscenza che si può chiamare il metodo vivente, intendendo la parola metodo per ciò che è: un cammino in movimento. È un metodo di ricerca della verità nella pratica di relazione più che nella pretesa di obiettività e nel rigore positivista. È un metodo femminile che interpreta la Storia a partire dalla propria storia, passata attraverso il vaglio del confronto con altre donne che sono impegnate nello stesso processo. È un metodo che misura la Storia sulla libertà femminile e sui risultati della misurazione fonda interpretazioni degli avvenimenti orientate dall’ordine simbolico della madre. È un metodo che, allentando o sciogliendo i nodi vitali della storica stessa, intende liberare sia il senso della vita e della verità della storica, sia la veridicità storica.

 

È un metodo che risponde alla necessità personale, condivisa con un numero indeterminato di donne e uomini di oggi, che la storia sia la storia delle donne[12], che, come scrisse María Zambrano nel 1958 parlando della democrazia, “la società sia adeguata alla persona umana; uno spazio a lei adeguato e non un luogo di tortura”.[13] Per questo non separa la storia della storica dalla storia che la storica scrive, così come non separiamo, nel parlare o nello studiare la lingua, il significante dal significato, lasciando così en passant cadere lo strutturalismo linguistico, che ha reso un’antinomia ciò che non lo è.[14] Per questo il metodo vivente non pretende di giungere a una storia totalizzante ma di mantenersi aderente all’incertezza e alla delicatezza della verità della madre e della lingua materna. La madre è la materia, la sostanza. “E come la sostanza – ha scritto María Zambrano – inesauribile, prolifica, traboccante da ogni forma, piena di promesse. Perché le sostanze viventi, essendo atto, possiedono una potenza mai interamente attualizzata; segnale di vita. Il cristallo appare come l’identificazione piena di forma e materia, di potenza e atto; il cristallo è l’immagine dell’atto puro. Ma non vive. Ciò che è vivente non si attualizza mai del tutto e solo quando è passato completamente lascia un’immagine fissa. Ma anche questa immagine si sfoca, cambia come dotata di vita propria, quando la guardiamo e a seconda del punto di vista da cui la guardiamo. E cambia, ma non come l’immagine di una montagna a cui giriamo intorno. Tutto ciò che era vivo, dal momento in cui lo guardiamo, torna a esserlo, lo restituiamo alla vita solo con il prestargli attenzione un istante. Ciò che è vivo, benché non lo sia più, rivive al contatto con la vita.”[15]

 

Di conseguenza nei testi che fanno parte di questo libro si dicono cose sfocate e, proprio per questo, appassionanti, della vita e della Storia. Ne scelgo alcune: “Tra i guadagni simbolici della pratica della storia vivente, voglio annoverare, oltre a quello di aver ricevuto voce e parola sulla mia esperienza, l’aver avuto giustizia, un bisogno universale che ha trovato uno sbocco positivo, attraverso un percorso politico di crescita e non rivendicando né aprendo conflitti distruttivi (Laura Minguzzi, p.23). “So di aver raggiunto qualcosa di vero perché è avvenuto un cambiamento visibile in me. La pratica della storia vivente è trasformativa. Riesco a parlare a partire da me e le citazioni di altre e di altri, che pure uso, non sono più un nascondimento ma un dialogo in cui io sono il soggetto che apre l’interlocuzione” (Luciana Tavernini, p. 29). “La pratica della storia vivente apre la possibilità di rileggere diversamente la storia dal punto di vista femminile, indagando sui nodi personali che con fatica andiamo a ritrovare dentro di noi e diciamo alle altre che, a loro volta, ci rimandano, in un continuo dialogo, in una continua ripresa, le nostre parole. Ci impegniamo a distillare un racconto che vale anche per altre e altri” (Marina Santini, p. 31). “Qualsiasi possa essere la risposta a questo che per me rimane un enigma, forse la sua rinuncia, anche se le è costata molto e le ha impedito una comunicazione fluida con noi figlie e figli, sicuramente le ha permesso di preservare la sua unica forma di libertà: la capacità di stare presso di sé, di nutrirsi con la musica, la lettura di libri spirituali, le belle foto di famiglia, i ricordi, il silenzio” (Marina Canal, pp. 58-59). “La lettura del numero di DWF sulla Storia vivente ha riportato a galla questo nodo del rapporto con la mamma che credevo ormai risolto e mi ha fatto capire che andava indagato ancora più in profondità per capire chi sono io adesso. Tutte le volte che vado a Fratta Polesine dalle mie sorelle e vedo i loro occhi che luccicano di gioia, penso che ho mantenuto la promessa fatta alla mamma e questo mi dà forza (Piera Moretti, pp. 63-64). “Adesso il mio desiderio è ancora più grande: c’è un significato simbolico, universale da guadagnare dall’esodo istriano e dai gravi fatti accaduti alla fine della seconda guerra mondiale lungo il confine italiano orientale, in Istria, Dalmazia e Venezia-Giulia. Ora lo scopo della mia ricerca è di andare oltre gli innumerevoli racconti, i ricordi, le testimonianze, gli scritti letterari, oltre il piano dei sentimenti e delle rivendicazioni di giustizia e liberare da false interpretazioni questa storia che ha segnato pesantemente non solo la vita di mio padre e dei suoi parenti esuli, i cui discendenti oggi sono sparsi in tutto il mondo, ma anche la mia e quella dei miei fratelli. L’esodo dall’Istria, regione italiana, abitata da gente che parlava Italiano, in dialetto veneto-triestino, è un nodo non solo della mia vita e della mia famiglia, ma della storia. Vorrei che emergesse in tutta la sua complessità, nella fiducia che solo la verità potrà restituire senso e sbocco positivo a quelle tragiche vicende” (Désirée Urizio, p.68).

 

Questo bel libro rivoluzionario inizia con l’invito dell’Associazione Le Vicine di casa, promotrice dell’incontro, e un’introduzione di Alessandra De Perini. I due testi riassumono gli aspetti essenziali e innovatori della pratica della storia vivente e ricostruiscono amorosamente i venti anni di riflessione, scambio e ricerca che hanno portato le componenti della Comunità al momento decisivo che qui si presenta. Li segue una infelice lettura di Tiziana Plebani, in cui, confondendo anche gli esempi di biografia e storia personale che le autrici avevano incluso nel numero della rivista DWF proprio per evidenziarne le differenze, tenta di dimostrare che la storia vivente di cui sta parlando non esiste, perché – scrive – “in conclusione, l’affermazione delle nostre amiche milanesi sull’imprescindibilità della relazione tra la storica e il suo oggetto di ricerca procede nell’alveo già segnato della migliore tradizione della riflessione sul fare storia” (p.14). Certo, quello di cui lei scrive non è storia vivente. È piuttosto una mescolanza contraddittoria di alcune parole trovate nel libro con la storiografia patriarcale, con la storia di genere e con il paradigma del sociale, di cui considera immutabile il quadro, riducendosi dentro di esso la libertà di confronto. Di conseguenza le autrici del libro non dialogano direttamente con la sua lettura; quello che fanno è mostrare e rendere concreto il senso della loro pratica e i cambiamenti che questa ha generato, evitando contrapposizioni sterili e preferendo l’interlocuzione con le donne presenti all’incontro, come appare dagli interventi del dibattito. La lettura di Tiziana Plebani, tuttavia, è utile come esempio di quello che succede quando la storia moribonda si confronta con la storia vivente: né la sfiora né la raggiunge.

 

 

[1]Emily Dickinson, Poemas 1201-1786. Nuestro Puerto un secreto, traduzione e lettura delle poesie in spagnolo di Ana Mañeru Mendez e María-Milagros Rivera Garretas, con un Epílogo di quest’ultima, Sabina Editorial, Madrid 2015, pp.639 + CD formato mp3, poema 1639, p.439.

 

[2]Una biografia femminista, la mia Teresa de Jesús / Teresa of Ávila, edizione bilingue spagnolo-inglese con traduzione inglese a cura di Laura Pletsch Rivera, Sabina editorial, Madrid 2014.

 

[3]Nacque a Milano con il “Manifesto di Rivolta Femminile”, in Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, La donna clitoridea e la donna vaginale e altri testi, Scritti di Rivolta femminile, Milano 1974, ora anche edito da et al, Milano 2010; (Escupamos sobre Hegel, La mujer clitórica y la mujer vaginal, trad. Francesc Parcerisas, Anagrama, Barcellona 1981; prima LaPléyade, Buenos Aires 1975).

 

[4]Marirì Martinengo, La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone donna “sottratta”. Ricordi immagini documenti, Genova, ECIG, 2005. In spagnolo è disponibile una recensione in DUODA, Estudios de la Diferencia Sexual, n. 31 (2006), pp. 205/208. DUODA è una rivista cartacea a libero accesso in http://www.raco.cat/index.php/DUODA/ .

 

[5]Marirì Martinengo, La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone donna “sottratta”. Ricordi immagini documenti, op. cit. p.21. La citazione si trova anche in “La voz del silencio. Me llama desde siempre” (La voce del silenzio. Mi chiama da sempre) in DUODA, Estudios de la Diferencia Sexual, n. 40 (2011), 42/49, pag. 44 http://www.raco.cat/index.php/DUODA/

Le sue riflessioni più recenti in: Marirì Martinengo, “Me llama desde siempre: la respuesta a la llamada” (Mi chiama da sempre: la risposta alla chiamata) in DUODA, Estudios de la Diferencia Sexual, n. 49 (2015), pp. 68/94, http://www.raco.cat/index.php/DUODA/ .

 

 

[6]Ho toccato questo argomento nel mio “La vida de las mujeres: entre la historia social y la historia humana” (La vita delle donne: tra la storia sociale e la storia umana), in Flocel Sabaté e Joan Farré, eds., Medievalisme: noves perspectives, Pagès editors, Lleida 2003, pp. 109-120.

 

[7]Luisa Muraro, “Vita passiva”, in Annarosa Buttarelli, Giannina Longobardi, Luisa Muraro, Wanda Tommasi, Iaia Vantaggiato, La rivoluzione inattesa. Donne al mercato del lavoro, Pratiche editrice, Milano 1997, pp. 65-83, pag. 77. Si veda anche Chiara Zamboni, L’azione perfetta, Centro Virginia Woolf, Roma 1994.

 

[8]Si può vedere il mio “Madres e hijas: la llamada de las entrañas” (Madri e figlie: la chiamata delle viscere), in Isis Internacional, portale MujeresHoy, 2015 (Cile) www.mujereshoy.com/secciones/portada.shtml e www.mujereshoy.com/secciones/3091.shtml

 

[9]“María Zambrano, pensadora de la aurora” (Maria Zambrano, pensatrice dell’aurora), in Anthropos, n. 70/71 (1987), pp. 37-38. Intervista pubblicata in Cuadernos del Norte, n. 38 (1986), pag. 6.

 

[10]María-Milagros Rivera Garretas, “La historia que rescata y redime el presente”, in DUODA, Estudios de la Diferencia Sexual, n. 33 (2007), pp. 27-39; “History that rescues and redeems the present”, in Imago Temporis. Medium Ævum, n. 2, 2008, pp. 17-25; “La storia che riscatta e redime il presente”, in Annarosa Buttarelli e Federica Giardini, eds.,  Il pensiero dell’esperienza, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, pp. 343-357.

 

[11]Laura Mercader Amigó y María Milagros Rivera Garretas, “Hablar como mujeres. Una elección” (Parlare in quanto donne. Una scelta), atti del laboratorio di Duoda (con Gloria Luis Peralvo) in Radicalment feministes. 40 Anys de Feminisme a Catalunya (2, 3 e 4 giugno 2016), in corso di stampa.

 

[12]Luisa Muraro, “La politica è la politica delle donne”, in Via Dogana, n. 1, giugno 1991, pp. 2-3.

 

[13]María Zambrano, Persona y democracia. La historia sacrificial (1958), Anthropos, Barcelona 1988, p. 136; Persona e democrazia. La storia sacrificale, Paravia Mondadori, Milano 2000, p.161.

 

[14]Un esempio prezioso del fatto che non è un’antinomia lo danno i seguenti versi della poesia n. 446 di Emily Dickinson: «Destilla sentido asombroso / De Significados Corrientes» [Distilla senso stupefacente/ Di Significati Correnti], in Emily Dickinson, Poemas 1-600. Fue – culpa – del Paraíso, prologo, traduzione e lettura in spagnolo delle poesie a cura di Ana Mañeru Méndez e María-Milagros Rivera Garretas, Sabina editorial, Madrid 2012, pp. 940 + CD formato mp3, p. 691.

 

[15]María Zambrano, Persona y democracia. La historia sacrificial (1958), op. cit., pp.136-137; Persona e democrazia. La storia sacrificale, Paravia Mondadori, Milano 2000, p. 161.


(www.libreriadelledonne.it, 9/12/2016)

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