28 Marzo 2008

“Il sì della donna non si può saltare”: un incontro, organizzato dall’Associazione Centrodonna Evelina De Magistris, che si è svolto il 18 marzo.

Paola Meneganti

“Il sì della donna non si può saltare”: sulla base di un documento aperto da questa frase, di Clara Jourdan, il 18 marzo si è svolto un incontro, organizzato dall’Associazione Centrodonna Evelina De Magistris, che, a partire dal dibattito su aborto e 194, recentemente sviluppatosi, ha voluto ampliarne l’orizzonte politico.
Perché, quando ci sono momenti di crisi, momenti di snodo della vita pubblica, si finisce con il parlare di aborto, di sessualità femminile, del corpo delle donne, spesso in modo assolutamente scomposto ed ipocrita, quando non violento?
Ho introdotto i lavori io, e ho tentato questa risposta: perché, nei momenti di crisi, la società ancora fortemente segnata dal patriarcato tenta di serrarsi in difesa dell’autoconservazione , e la libertà femminile è un grande inciampo su questa strada. La libertà femminile fa problema e produce conflitto.
In un bellissimo articolo sul “Manifesto” dello stesso giorno, Ida Dominijanni commenta quanto scritto nel numero precedente da Giorgio Agamben e Giacomo Marramao su due questioni cruciali nel dibattito di oggi.
Dal modello della sovranità si è passati a quello della “governamentalità”: gestione, amministrazione, management della vita e della dimensione pubblica, con la progressiva sparizione dello spazio della politica – quindi del conflitto, insomma delle forme classiche della democrazia, da una parte, e, dall’altra, nei/nelle “resistenti”, si registra la presenza di una logica politica “legata alla chiusura dell’identità più che all’apertura e al divenire della differenza”.
Anche se – ed è un altro inciampo – non dobbiamo dimenticare, ha giustamente osservato Maria Pia Lessi, citando Tamar Pitch, che le donne non hanno habeas corpus, perché non hanno sovranità sul proprio corpo, non è loro riconosciuta la piena disponibilità e responsabilità sul proprio corpo.
Il divenire della differenza genera conflitto, come lo fanno tutte le “rivoluzioni profonde della soggettività” (I.D.), una per tutte il femminismo.
È partendo da qui, da questa “profonda rivoluzione della soggettività”, che abbiamo detto: la prima parola e l’ultima è della donna, il sì della donna non si può saltare. Questo se si parla di aborto, di sessualità, di relazione con l’altro, di vita.
Non è in questione la dimensione del diritto – “non credere di avere dei diritti” – ma il rapporto tra materiale e simbolico. Il simbolico materno, per es., è stato indagato in profondità dalle donne, anche a partire dall'”ambiguo materno”, luci ed ombre, chiaroscuri. Ma pensiamo al simbolico costruito nei secoli dal patriarcato: la madre che nutre, la madre dolorosa, la madre che opprime, la madre santa, la madre che uccide …
In una vecchia, preziosissima pubblicazione, “Il vuoto e il pieno”, ho ritrovato, nella introduzione di Nadia Fusini, questa frase di Emily Dickinson: “i miei sono religiosi, e vanno tutte le mattine ad adorare una Eclissi che chiamano Padre”. Il patriarcato è molte cose, ma soprattutto il fatto che le donne sono definite dallo sguardo del padre.
Abbiamo affrontato l’eclissi del padre e della sua onnipotenza e abbiamo guadagnato la piena responsabilità, con le sue gioie ed il suo peso.
Ci ricorda ancora Ida che il corpo femminile, nell’intreccio tra materiale e simbolico che avvenne nella rivoluzione soggettiva del femminismo, divenne corpo politico – protagonista di una libertà duramente guadagnata. Ed è ancora l’unica barriera possibile: corpo politico, corpo che si frappone, nel discorso pubblico, a tutte le beghe partitiche, alle ideologizzazioni possibili, alle voglie confessionali. Corpo politico che ci fa dire che la prima parola e l’ultima è della donna e che il suo “sì”, rispetto all’aborto, non si può saltare.
Il dibattito si è sviluppato in modo molto puntuale. Letizia Del Bubba ha detto che la legge 194 e quella sulla fecondazione assistita, la legge 40, non sono circoscrivibili in una cornice di legge e di diritto, ma hanno a che fare con la soggettività e con il corpo simbolico delle donne. Come fa una legge a dar conto della gestione del proprio corpo e del proprio desidero, per es. di maternità?
Perché la soluzione migliore è quella del femminismo degli anni ’70, dice Claudia Nocchi: depenalizzare, non normare. Per Maria Pia Lessi, non si possono consegnare temi di questa portata alla politica tradizionale, istituzionale, alla “politica seconda”, e al diritto. Contengono un tale “di più” che lei, per es., trova difficoltà a parlarne in quegli ambiti. Rispetto alla sovranità del soggetto, libero di articolare la libertà del suo desiderio, un soggetto che è comunque in relazione, il diritto dovrebbe fare un passo indietro. La norma non dovrebbe essere prescrittiva, ma a salvaguardia della salute, delle garanzie sanitarie, e qui limitarsi.
Anna Maria Bernieri rileva che è vero, la questione del corpo delle donne torna sempre in ballo nei momenti di crisi, e questo è sintomatico, e rende ancora più difficile la possibilità di parlare delle questioni in modo argomentato e sereno, perché dietro c’è “altro”.
Mi chiedo perché, ha detto Lori Chiti, le gerarchie ecclesiastiche non parlino mai del corpo delle donne, ma della vita. Il cattolicesimo impone la castità ai sacerdoti, ma loro dovrebbero porsi il problema dell’integrità del corpo femminile, no? Eppure sono questioni che fanno ancora molto problema: figurarsi ad inizio ‘900, quando le donne che ne parlavano, Sibilla Aleramo (“Una donna”), Annie Vivanti (“Vae victis!”) furono emarginate, estromesse.
Per Daniela Bertelli, c’è una grande angoscia nelle donne che oggi rimangono incinte. Sono continuamente monitorate, con amniocentesi, ecografie etc… spesso superflue: è un vero e proprio processo di espropriazione, e anche simbolicamente, questo feto che viene continuamente portato “fuori” dal grembo materno è come se avesse esistenza autonoma … si crea una scissione, una separazione tra feto e madre. Aumenta l’ansia e aumenta il senso di inadeguatezza rispetto a chi nascerà. E questo processo di controllo delle scelte delle donne, del corpo delle donne, del loro dare la vita è tutto maschile. È un fondamentalismo a cui a volte si risponde con un fondamentalismo di segno opposto … C’è poi questa cosa terribile che viaggia sui mass media, l’immagine della madre cattiva. È un disconoscimento della libertà femminile in cui si fanno strada delle componenti che, al di là del dibattito politico, diventano senso comune. Quanto al patriarcato … sì, esiste ancora, ma non dimentichiamo l’analisi del fratriarcato che sviluppa Ida Dominijanni (e qui merita citare: è uno spazio “in cui gli uomini si combattono e competono (ma si danno valore) fra loro in una sorta di recinto autoreferenziale che chiamano spazio pubblico”). E l’assuefazione a questo cattivo modo di stare nel mondo coinvolge anche molte donne … due parole anche su questa assurdità, questa cattiveria del dibattito sul momento in cui davvero si può parlare di vita: ma scherziamo?
Aggiungo io: se un feto nasce a 21 settimane qui in Europa ha delle possibilità di salvarsi, non sappiamo con quali conseguenze sulla qualità della sua vita, ma se nasce in Africa? Allora l’inizio della vita è uguale per entrambi?
Per Marco Mazzi, la cultura dell’indisponibilità del proprio corpo è profonda, è di matrice giudaico-cristiana. È la comunità a disporre del corpo, non l’individuo. In guerra sono punite le automutilazioni – si attacca il corpo di cui deve poter disporre la patria-, ed è nella socialdemocrazia svedese si che si inventa il trattamento sanitario obbligatorio. La Chiesa porta questa questione fino al rifiuto verso l’eutanasia: non si può disporre del proprio corpo anche nella sofferenza, nella prospettiva della morte. Con la legge 194 – e con la legge 180 – si esplica un filone di pensiero libertario degli anni ’70: si mette in discussione l’unicità del punto di vista. È stata una visione perdente: la prima vittima degli “anni di piombo”. Oggi c’è un forte ritorno alla medicalizzazione, addirittura alla prevalenza della eugenetica, che prefigura quasi una predestinazione. Ma la libertà e l’ultima parola sono certamente della donna.
Maresa Conforti porta la sua esperienza di donna cattolica che votò nel referendum del 1981 per confermare la legge 194, ma che si chiede se effettivamente la legge è stata attuata anche nelle parti a sostegno del desiderio di maternità. Si dovrebbe fare di più in questa direzione., perché per lei non è così scontata l’assenza di problema rispetto alla questione dell’inizio della vita. Apprezza però molto quanto è scritto nel documento di “Evelina”, e cioè che per il femminismo l’aborto non è mai stato un “diritto”. No, confermo io in chiusura: è un fatto, una scelta: e possiamo stare sicure che le donne hanno sempre saputo portarne la responsabilità in prima persona, fino in fondo.

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