26 Settembre 2006
il manifesto

In marcia sulle vie ribelli alla razzia dei saperi

I brevetti stanno distruggendo le risorse naturali e i saperi locali. L’unica strada per resistere è la disobbedienza civile
Un’intervista a Vandana Shiva, di cui Feltrinelli ha pubblicato «Il bene comune della Terra». Dal miracolo economico indiano ai «suicidi dei semi», analisi di un pianeta sempre più ostaggio delle grandi corporation

Tommaso Rondinella
Duccio Zola

Quando inizia a parlare Vandana Shiva le sue parole hanno il tono pacato dell’argomentazione. Ma quando arriva al cuore della sua riflessione, il timbro di voce diventa più imperioso, come chi è talmente sicura di ciò che sta sostenendo che deve dirlo con forza e foga. Laureata in fisica quantistica e in economia, ricercatrice per molti anni, Vandana Shiva fa parte di quegli «scienziati dai piedi scalzi» che a un certo della loro vita hanno lasciato i laboratori per verificare gli «effetti collaterali», cioè le conseguenze delle loro ricerche e scoperte. Per questa indiana nata in uno stato nel nord dell’india, il punto di svolta è stato quando si è imbattuta in un progetto della Banca mondiale che aveva distrutto l’economia locale di una regione indiana.
Da allora, infatti, ha abbandonato la ricerca scientifica per dare vita nel 1982, assieme ad altri ricercatori, al «Centro per la Scienza, Tecnologia e Politica delle Risorse Naturali». Il primo risultato della sua nuova attività di sudiosa è condensato dal libro Sopravvivere allo sviluppo (Isedi). Da allora ha pubblicato molti saggi, tutti estremamenti critici verso la «globalizzazione neoliberista», di cui vanno ricordati Biodiversità, biotecnologie e agricoltura scientifica (Bollati Boringhieri), Biopirateria. Il saccheggio della natura e saperi locali (Cuen), Vacche sacre e mucche pazze (DeriveApprodi), Il mondo sotto brevetto (Feltrinelli) e Le guerre dell’acqua (Feltrinelli).
In Italia per un ciclo di conferenze – è stata ospite del forum della campagna Sbilianciamoci e ha partecipato alla rassegna Torino Spiritualità – abbiamo incontrato Vandana Shiva e con lei abbiamo parlato del suo ultimo libro Il bene comune della Terra, da poco uscito per Feltrinelli .
Nel tuo libro descrivi la relazione tra questo modello di globalizzazione economica e il diffondersi di terrorismi e fondamentalismi. Puoi illustrarci questo legame?
Ciò che cerco di evidenziare sono i percorsi che generano una cultura di «sfruttabilità», basata sul poter disporre di tutto e tutti perché a ogni cosa e a ognuno è assegnato un prezzo. Questa condizione, economica e culturale allo stesso tempo, cambia il modo in cui pensiamo l’uno all’altro e in cui ci mettiamo reciprocamente in relazione, ed è all’origine di innumerevoli conflitti. Essa favorisce l’affermazione di «identità in negativo», basate su un atteggiamento escludente, che rifiuta l’altro.
Questo modello di sviluppo che nega diritti, marginalizza ed espropria è alla radice di fondamentalismo e terrorismo. Innesca una processo che non è insito in nessuna cultura, ma che si alimenta quando vengono create persone «usa e getta». Per fare un esempio, la crescita indiana che si legge sui giornali di tutto il mondo nasconde espropri di terra mai visti prima. E la terra sequestrata è quella dei piccoli contadini, dei più poveri. Le terre vengono poi acquistate a prezzi irrisori dalle grandi compagnie transnazionali, che così possono produrre a prezzi stracciati. Questo sta causando massicce migrazioni verso le città, dove le popolazioni sradicate, senza terra né lavoro, si aggiungono alle masse di disperati che affollano le periferie, causando un aumento dell’instabilità.
Da tempo sostieni la necessità di un controllo diretto sulle risorse e sui beni comuni attraverso una «localizzazione dell’economia» e una ridefinizione dei confini della democrazia. Cosa implica sul piano politico questa concezione?
Rispetto alla mia idea di democrazia, il modello neoliberista di globalizzazione non è altro che il dominio di istituzioni sovranazionali non democratiche e ostaggio di poche, potentissime multinazionali. La distanza è un fattore che isola. Ecco perché la pratica della localizzazione, del mettere al centro gli interessi e le legislazioni locali, riveste un’importanza fondamentale. La localizzazione permette di assicurare giustizia e sostenibilità. Ciò non significa che ogni decisione debba essere presa a livello locale, ma che debba essere discussa e approvata anche a livello locale: le decisioni migliori si prendono laddove il loro effetto può essere percepito più chiaramente.
E’ importante sottolineare che questo principio costituisce un imperativo ecologico. Le crisi ambientali che affliggono il nostro pianeta derivano da un disconoscimento del ruolo delle risorse naturali. Per risolvere queste crisi è necessario che le comunità locali recuperino il controllo delle proprie risorse per costruire un’economia sostenibile. Riconquistare i beni comuni comporta dunque la necessità di poter esercitare un controllo sulla gestione statale delle risorse, delle decisioni e delle politiche di sviluppo economico. Ma al tempo stesso è necessario riprendere possesso delle risorse privatizzate dalle multinazionali attraverso gli accordi del Wto e i programmi di aggiustamento strutturale della Banca Mondiale e del Fondo Monetario.
Nel tuo ultimo libro denunci l’esistenza di un genocidio ai danni di donne e piccoli agricoltori…
In India mancano all’appello 36 milioni di donne a causa dell’aborto selettivo praticato sui feti femminili. Nel mondo la cifra raggiunge i sessanta milioni. Il feticidio è la diretta conseguenza dell’esclusione delle donne da un sistema produttivo basato sull’agricoltura industriale, sul consumismo, sulla mercificazione di ogni aspetto della vita umana. Questo avviene nelle regioni agricole, ma soprattutto nelle zone urbane o suburbane. A Dehli troviamo il più alto tasso di alfabetizzazione e i redditi più elevati di tutta l’India, e allo stesso tempo il maggior numero di violenze sulle donne, a partire da stupri, molestie sessuali e morti per dote. Il censimento del 2001 registra a Dehli 140 mila bambine sotto i sei anni in meno rispetto alle tendenze demografiche.
Parallelamente, lo sviluppo dell’agricoltura industriale, basata su costosissime tecnologie, sul massiccio impiego di fertilizzanti e pesticidi chimici, e sull’imposizione delle sementi geneticamente modificate, causa il fallimento dei piccoli agricoltori incapaci di sostenere i costi e la concorrenza di questi metodi. Solo nel 2004, 16.000 contadini si sono tolti la vita in India. I suicidi dei contadini poveri derivano dall’indebitamento, provocato dall’aumento dei costi di produzione e dal crollo dei prezzi dei prodotti agricoli. I suicidi sono l’esito inevitabile di una politica agricola che protegge gli interessi del capitalismo globale e ignora quelli dei piccoli agricoltori. Per questo io non parlo di suicidi, ma di genocidio.
La rete contadina Navdanya, che hai fondato e che coordini, si propone come un’alternativa per i piccoli contadini indiani minacciati dalle multinazionali del settore agroalimentare. Quali sono le vostre pratiche e i vostri obiettivi?
Navdanya significa «nove semi», un nome che evoca la ricchezza della diversità e il dovere di difenderla di fronte all’invasione delle biotecnologie e delle monoculture dell’agricoltura industriale. Insieme ai brevetti che monopolizzano i diritti sulla proprietà intellettuale introdotti dal Wto, dalla convenzione sulla biodiversità e da altri accordi commerciali, le biotecnologie riducono la diversità delle forme di vita al ruolo di materie prime per l’industria e i profitti. I semi geneticamente modificati intrappolano i piccoli agricoltori in una gabbia di debiti e menzogne. Per questo li chiamo «semi del suicidio». Essi sono resi sterili in modo tale che non possano riprodursi e debbano venire acquistati dai contadini ogni anno a caro prezzo. I brevetti dei semi sono di proprietà di multinazionali come la Monsanto, che in questo modo si appropriano della fonte di vita e dei diritti di due terzi dell’umanità.
Per far fronte a questa situazione Navdanya, che oggi conta quasi 300 mila agricoltori, ha creato delle economie locali alternative che controllano i processi di produzione e distribuzione degli alimenti e tutelano i produttori locali. I contadini della rete adottano coltivazioni biologiche differenziate che proteggono la fertilità dei terreni e la biodiversità, evitando l’uso di fertilizzanti chimici e pesticidi. In questo modo si migliora la produttività e l’apporto nutritivo dei raccolti, recuperando anche il 90% dei costi di produzione. Le entrate sono tre volte superiori a quelle degli agricoltori che si servono di prodotti chimici, non vengono prodotti rifiuti tossici e danni alla biodiversità. Inoltre, il sistema di commercio equo che regola la distribuzione dei prodotti ci protegge dalla insicurezza dei mercati e delle speculazioni finanziarie. Coltivazione organica e commercio equo offrono invece sicurezza sul piano delle scelte alimentari, della salute e della stabilità. In questo modo tutti – agricoltori, ambiente e consumatori – ricavano un grande beneficio.
Di fronte a una situazione così grave, riesci a indicare una possibile via d’uscita?
Cento anni fa in Sudafrica, Gandhi rifiutò la segregazione razziale, affermando il diritto di non obbedire a leggi ingiuste. La disobbedienza civile implica la scelta della nonviolenza e della non cooperazione pacifica. Credo che anche oggi questa sia la strada da seguire, a cominciare dalla resistenza alla brevettazione dei semi indiani. In India è in discussione una legge che potrebbe portare alla proibizione dell’utilizzo di sementi proprie da parte dei contadini. Sementi che da migliaia di anni vengono conservate e trasmesse – di generazione in generazione e di raccolto in raccolto – verrebbero così bandite per far posto alla commercializzazione di semi prodotti nei laboratori di multinazionali come la Monsanto, e venduti a caro prezzo. Noi sappiamo che le varietà di sementi indigene, conservate e selezionate localmente, rappresentano la nostra garanzia ecologica ed economica, perché sono in grado di adattarsi perfettamente alle condizioni climatiche e geologiche delle diverse regioni indiane. Non si possono criminalizzare centinaia di milioni di piccoli agricoltori che non sono disposti a sottomettersi al modello agricolo imposto dalle multinazionali. Per conquistare la nostra libertà economica e politica è necessario guardare ancora una volta a Gandhi, alle sue idee di autogoverno e autoproduzione locale.
Nei tuoi interventi dimostri sempre come sia possibile rimpossessarsi dei beni comuni, attraverso degli esempi concreti. Come quello della mobilitazione contro la Coca Cola in Kerala…
Un esempio che dimostra le possibilità di vittoria da parte del movimento democratico globale. La lotta ha avuto inizio nel 2000 dalle donne di Plachimada, un piccolo villaggio del Kerala sede di uno stabilimento della Coca Cola. Uno stabilimento che era arrivato a consumare un milione e mezzo di litri d’acqua al giorno e a produrre siccità in tutta l’area circostante, da sempre ricca di acqua. A questo si deve aggiungere l’inquinamento prodotto dagli scarti produttivi e la contaminazione dei terreni. Le donne hanno cominciato ad assediare i cancelli dello stabilimento, a organizzare manifestazioni e sit-in, coinvolgendo tutte le comunità della regione. Si è così deciso di ricorrere all’Alta Corte di Giustizia del Kerala. Che ha dato ragione alle donne di Plachimada, con una storica sentenza che sostiene il carattere di bene pubblico dell’acqua: nel 2004 il governo regionale è stato costretto a chiudere lo stabilimento. Questo ha prodotto una moltiplicazione delle lotte in tutta l’India, e la formazione di una campagna nazionale di boicottaggio nei confronti di Coca Cola e Pepsi. Ad oggi più di cinquecento tra villaggi, scuole e università e si sono dichiarate «Coca Cola e Pepsi Free». Questa vicenda dimostra ciò che Gandhi ci ha insegnato: solo prendendo coscienza delle nostre responsabilità si possono ottenere i diritti, solo iniziando a vivere liberamente si può ottenere la libertà.

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