10 Gennaio 2006

L’Africa al soccorso dell’occidente – Prefazione

Odile Sankara

Un grido! L’Africa in soccorso dell’Occidente risuona come un grido che non lascia indifferente il lettore.
La complessità della relazione Africa-Occidente ha assunto le dimensioni di un mostro, rinchiuso nelle profondità della terra: egli mangia, beve, divora tutto ciò che gli passa a tiro e cresce tanto da perdere le proprie forze. Si ritrova così prigioniero della sua stessa trappola.
Le utopie contraddittorie hanno raggiunto un culmine che ci riporta in una situazione diffusa di paura del domani. E fin dall’inizio Anne-Cécile colloca l’Africa al posto d’onore: “L’Africa esprime valori e mentalità ‘altri’ che potrebbero rendere un servizio a un mondo sull’orlo del baratro. La battaglia per la diversità culturale – di cui il continente nero costituisce uno dei simboli più forti – rappresenta infatti in realtà una battaglia per la sopravvivenza dell’intera umanità”. Questa affermazione suscita in un africano un sentimento di fierezza. Ma subito, però, emerge la domanda: come potrà l’Africa salvare l’Occidente da questo baratro?
Infatti, l’Africa è plurale nella sua diversità culturale – elemento fondamentale per la sua sopravvivenza – e sviluppa una sorta di inattesa resistenza di fronte al mostro insaziabile. Eppure, per quanto possa apparire paradossale, essa ha sviluppato negli ultimi cinque secoli soprattutto la politica della “mano tesa”.
Proprio per dire “no” a questa avvilente mendacità, Thomas Sankara ha fatto del potenziale umano il suo credo. Diceva: “Il solo modo di vivere liberi è di vivere da africani. Costruire basandoci sulle nostre forze, quelle degli uomini e delle donne del continente”. Intendeva la forza fisica, morale, intellettuale, ma anche le ricchezze immagazzinate nelle viscere della terra africana, e che purtroppo sono la causa del suo disastro.
Questa volontà politica di emancipare gli uomini e le donne del suo paese, il Burkina Faso, consisteva non solo nel credere nel loro valore intrinseco di esseri umani, ma anche – e soprattutto – nel liberarli dal giogo di cinque secoli di storia, aprendo la strada alla libertà di pensiero e di azione, per trovare insieme il modello di sviluppo, forgiando gli attrezzi necessari alla sua realizzazione, e per non sprofondare nella fatalità. Quella fatalità teorizzata e affermata dagli afropessimisti, che sostengono che l’Africa sia un continente maledetto.
“Il continente potrebbe allora inventare le proprie soluzioni ai mali che lo divorano”, riassume Anne-Cécile. Mali peraltro apprezzati dai media occidentali e ben radicati nella coscienza collettiva, che fanno dell’Africa un sinonimo di guerra, malattia, fame, miseria. Tutti fattori che permettono di giustificare la presenza degli stranieri: “La logica dell’aiuto può perpetuare una logica di dipendenza alimentata dal miserabilismo”.
Emancipare i propri connazionali, basandosi sui valori tradizionali: “…un rapporto diverso fra l’individuo e la collettività, una resistenza all’accumulo di ricchezze, un inserimento pacifico nell’ambiente… Essi lasciano intravedere che l’evoluzione del mondo potrebbe avere luogo in un altro modo, più equilibrato, più modesto, meno predatore, più previdente”.
Questi valori, Thomas Sankara e i suoi precursori, Kwamé N’krumah, Patrice Lumumba e altri, li hanno fatti propri. E Sankara lo diceva spesso: “Per essere esigenti con il popolo, occorre esserlo nei confronti del suo primo responsabile”. Ciò che richiede sacrificio quotidiano e disinteresse. Quanti sono pronti a questo?

Mi pare che questo aspetto dell’accumulo di ricchezze sia lo spartiacque, il punto nevralgico del male che rode la società occidentale, ma anche il potere politico in Africa, trascinando con sé una certa élite, con il suo corollario di corruzione e nepotismo. Una cancrena strutturale della giovane democrazia africana.
Il conflitto di valori è reale. Il modello occidentale dominante come unico esempio di sviluppo trascina il continente in una folle corsa. Invece, nei meandri del pensiero tradizionale africano, il valore del “chi sono io” non si seziona in attributi materiali, ma trova piuttosto risposta nelle profondità della spiritualità, per quanto metafisica, da cui si sprigionano le virtù di un benessere sociale. L’avere diviene oggi il solo valore e l’avidità materiale la sola misura.

Quattro anni di regno, quattro anni di lotta contro la corruzione e l’imperialismo: “Bisogna produrre. Produrre di più perché è normale che chi ti dà da mangiare ti detti anche le sue volontà. Alcuni chiedono: ma dov’è l’imperialismo? L’imperialismo? Guardate nei vostri piatti. Quando mangiate i chicchi di miglio, di mais e di riso importati, questo è l’imperialismo”. Una feroce volontà politica di rifiuto della mendacità, ecco ciò che animava Thomas Sankara. La ferma volontà di forgiarsi un’identità, di esistere come Stato indipendente e sovrano, capace di generare risorse per il proprio sviluppo. Come i suoi precursori, combatteva tutto un sistema: una scommessa per giungere all’uguaglianza di possibilità per tutti.
Affrontavano, lui e i suoi precursori, il mostro. E L’Africa in soccorso dell’Occidente denuncia la doppiezza del mostro: “la specificità dell’Africa risiede certamente nel fatto che essa non ha mai avuto davvero diritto alla parola e che l’Occidente, più che altrove, si è accanito a far tacere coloro che la pensavano in maniera diversa e volevano seguire un’altra via. Dalle guerre coloniali agli assassinii politici dell’epoca moderna – per esempio quello del congolese Patrice Lumumba, ucciso con l’aiuto dei colonizzatori belgi nel 1962, e quello del burkinabé Thomas Sankara, eliminato certamente con il consenso della Francia nel 1987”.
Assassinata la speranza, si è infranto il sogno? Tutto è da ricostruire, dato che una buona parte della gioventù africana, senza punti di riferimento, sembra persa e aspetta, forse, Godot? Ma essi aspettano di partire e di gonfiare i ranghi degli immigrati, e Aminata Traoré lo dice: “Agghindati da capo a piedi con vestiti usati, un cellulare in mano e l’Europa in testa, i nostri figli aspettano, a migliaia, intorno a una teiera o a un bicchiere di birra”.[1] Anne-Cécile rincara la dose: “Ma la gioventù africana sembra attraversata da sentimenti violenti e contraddittori”. Responsabilità condivisa e, di nuovo, diplomaticamente riassunta in questo libro: “Anche la destrutturazione del tessuto sociale e dei punti di riferimento culturali suscita la tentazione dell’emigrazione. Attraverso la televisione e le videocassette, l’Occidente proietta inoltre un’immagine vantaggiosa per sé e frustrante per le società impoverite che la ricevono”.
Infatti, se i media occidentali rimandano immagini “vere” dell’Africa (guerre, fame, malattie, Aids, miseria…), la miseria di una certa parte della società occidentale è invece sovente sconosciuta: poche immagini e analisi poco approfondite nelle riviste umanitarie e di altro tipo. Bisognerebbe forse chiamare in causa la responsabilità dei media e dell’élite africana rispetto al loro modo di informare. Questa élite, secondo Aminata Traoré, è persuasa di non aver bisogno di un pensiero africano sull’economia e la politica. E Jean Ziegler afferma che “informare, rendere trasparenti le pratiche dei padroni è il compito dell’intellettuale”.[2] Informare gli uomini e le donne perché possano scegliere assennatamente la loro vita.
C’è molto da fare per salvare la barca dell’Occidente che va alla deriva! Ma l’Africa ne ha oggi la capacità e la forza, tenendo conto dei suoi mali? È qui che la nostra fierezza di africani ci provoca un nodo alla gola. Secondo Anne-Cécile “è sul piano spirituale e in termini di civiltà che essa potrebbe svolgere un ruolo realmente alla sua altezza”. Certo, ma l’Africa è alla ricerca di se stessa, perché dismette i propri valori a vantaggio di altri, virtuali, dettati dal modello occidentale che si impone con fragore. La saggezza africana, sorgente inestinguibile di insegnamenti, non è purtroppo la più condivisa dai governanti africani. E Aminata l’afferma: “Noi vi imitiamo globalizzandoci, e a volte camuffandoci”.
Il nuovo ordine mondiale guidato dal capitalismo è colpito da una malattia grave: l’autismo, che impedisce alla sua vittima di dialogare, di usare semplicemente la parola. E il saggio Hampaté-Bâ ce lo sussurra: “La parola impegna l’uomo. La parola è l’uomo”. Sì, è questa parola il veicolo di trasmissione dei valori e del dialogo sociale. In queste circostanze, come si può essere in ascolto di un continente i cui valori provengono da una cultura che sfiora l’irrazionale e dove, d’altro canto, la macchina tende a sostituire l’uomo? In che modo i miti, i simboli, i segni, le leggende, i proverbi possono contribuire a ridefinire un nuovo dialogo, in cui l’Africa potrebbe suonare davvero il suo spartito? “Ma non potrà accadere nulla di giusto, per il mondo e per l’Africa, se non si rispetta il principio di uguaglianza e di rispetto reciproco”. Questa frase mi sembra sintomatica del senso di ineguaglianza e di ingiustizia nella relazione Africa-Occidente.
Tuttavia, noi osiamo credere che la speranza non sia stata assassinata e che il sogno non sia infranto. L’esperienza di Thomas Sankara e dei suoi predecessori non ha forse lasciato un’eredità materiale agli uomini e alle donne del continente, ma ha contribuito in una certa misura a placare la fame che abita l’uomo – fame di cibo, certo, ma anche di sapere, di lavoro, di libertà, di dignità, per riprendere le espressioni di Ziegler riferite alla politica di Lula in Brasile in L’empire de la honte. Essa ha piantato il seme che germina e libera l’individuo dalle sue paure. È fonte di dinamismo e creatività. Sankara rispondeva alle domande e alle inquietudini dei suoi familiari in questi termini: “Dopo di me, ci saranno centinaia di altri Sankara per continuare”.
Malgrado la tendenza alla mendacità, c’è una prospettiva felice che si apre con una generazione di intellettuali disponibili a dare il cambio a questi grandi uomini che hanno segnato con il loro coraggio e il loro onore l’evoluzione positiva della storia del continente. Questo potenziale umano prende il testimone. Anche se l’immigrazione aumenta rapidamente, molti giovani preferiscono il rifugio del proprio paese che il rischio dell’esilio; o ancora, si vedono giovani diplomati africani tornare in patria per tentare la sorte. Una nuova dinamica viene a rinforzo della precedente, poiché l’eredità degli anni di Sankara è anche la nascita del mondo associativo, in particolare in Burkina Faso, in Mali, in Senegal. Questo fatto dà incontestabilmente vitalità e forza creativa al continente, anche se, come afferma Anne-Cécile, “spesso il mondo associativo è abbastanza sviluppato in Africa (Burkina, Mali, Senegal, Sudafrica…), ma si inscrive sempre più nelle strutture e negli schemi di pensiero del Nord. Il vocabolario e le tecniche ricalcano grosso modo quelli dell’Occidente”. Ancora una volta entra in gioco il ruolo delle élite e dei nuovi politici africani nel dare vita ad un nuovo linguaggio ispirato alle realtà del continente.
Parliamo allora delle donne, dal momento che sono loro a tenere insieme con cura il tessuto associativo. Le donne hanno saputo creare dinamismo attraverso una forma di organizzazione sociale fondata sul modello tradizionale, da cui trae lo spirito di condivisione, di aiuto reciproco, di solidarietà. Si possono citare come esempio le tontines, attraverso le quali esse hanno creato piccole economie indipendenti. In Mali, Burkina, Senegal, Benin, Togo, e molti altri paesi, una famiglia su due ne beneficia.
Queste forme di organizzazione consentono una ristrutturazione del tessuto sociale, con un’attenzione particolare all’ambiente, alla salute dei bambini, all’educazione. Favoriscono la presa di coscienza di tutta la popolazione su alcune questioni. In Burkina e in Mali, gruppi di donne hanno affrontato il problema dell’inquinamento dovuto alla discarica incontrollata di rifiuti domestici, in particolare i sacchetti di plastica. Esse ripuliscono i quartieri e riciclano i sacchetti, che altrimenti sarebbero dannosi per l’ecosistema; ne ricavano graziosi oggetti di decorazione e di uso comune: borse, cappelli, scarpe… che rivendono poi ai turisti. Infatti, “il riciclaggio dei rifiuti della società capitalistica è una fonte essenziale di reddito”.
Nel campo dell’arte, si possono citare a questo proposito alcuni grandi artisti africani contemporanei che utilizzano materiali di recupero, come i beninesi Calixte Dapkogan e Romouald Hazoumé. In molti hanno potuto ammirare le “maschere-bidone” di Romouald al Beaubourg di Parigi, nell’ambito della mostra “Africa-remix”, nell’estate 2005; un’opera gigantesca. Queste maschere fissavano con sguardo ilare, quasi indifferente, a volte interrogativo, i visitatori occidentali. “La cultura diviene allora un veicolo di resistenza alla globalizzazione liberista e alla predazione capitalistica”. Si potrebbe sostituire “cultura” con “arte”.
In Africa, l’arte, in tutte le sue forme, è sorgente di dinamismo e veicolo di trasmissione di valori. L’arte come progetto di edificazione delle coscienze; come mezzo d’espressione e di resistenza alla perdita della cultura tradizionale; come industria culturale. Tutti questi attributi sono appropriati di fronte all’investimento dei giovani in un settore che spesso non dà di che vivere.
L’Africa in soccorso dell’Occidente? Se è così, occorre che essa prenda il fiato, si attrezzi di tutto punto, perché altrimenti rischia di soffocare, se non addirittura di annegare, in questo salvataggio. Infatti, “bisognerebbe giungere a un’autentica presa di coscienza dell’Africa, per se stessa. Un’autonomia di pensiero è necessaria per un rifiorire della dignità… la costruzione di un pensiero proprio in rapporto con le realtà sociali, politiche e storiche”.
Questa presa di coscienza è presente nella nuova generazione di intellettuali che sviluppa una riflessione per una nuova Africa. È presente anche nel dinamismo delle donne e tra gli artisti.

[1] A. TRAORÉ, Lettre ouverte au président des Français à propos de la Côte d’Ivoire et de l’Afrique en générale, Fayard, Paris 2005.
[2] J. ZIEGLER, L’empire de la honte, Fayard, Paris 2005.

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