31 Marzo 2007
il manifesto

L’America povera dei super-ricchi

Marco d’Eramo

Alla fine ce l’hanno fatta George W. Bush e Dick Cheney a rimettere le lancette indietro di 80 anni e riportare la geografia sociale dell’America a prima della Grande Depressione. È quanto emerge dai redditi statunitensi nel 2005 (l’ultimo disponibile): in quell’anno i 300.000 americani più ricchi hanno dichiarato un reddito pari a quello cumulato dai 150 milioni di statunitensi più poveri: e cioè lo 0,1% (l’un per mille) in cima alla scala dei redditi ha incassato quanto il 50% che sta in basso; detto in altri termini: in media ogni persona del gruppo di testa ha incassato 440 volte in più di ogni membro del gruppo di coda: una disparità che non si vedeva dal 1928, da prima appunto della Grande Depressione. Una tale concentrazione della ricchezza non la si vedeva forse dai tempi dell’antico Egitto. Almeno dal punto dei vista dei redditi, i repubblicani sono così riusciti a cancellare il New Deal di Franklin D. Roosevelt. Altro che Iraq! Eccola la reale «Missione compiuta» di Bush. Vero Robin Hood al contrario, ha scippato i disagiati e arricchito i miliardari. Questa razzia da parte dei più ricchi è partita nel 1970, ma si è accelerata con Ronald Reagan negli anni ’80 ed è precipitata negli ultimi sei anni: dal 1998 al 2005 lo 0,1% più ricco ha aumentato del 50% la propria fetta del totale. Le bastonate le hanno prese non solo i poveracci, ma anche la mitica «middle class»: nel 2005 il reddito globale degli statunitensi è cresciuto di un fantastico 9%, ma quello del 90% (cioè la quasi totalità) degli americani è sceso dello 0,9%: e questo in un anno di vacche straordinariamente grasse, anzi di mucche obese! Vuol dire che tutta la crescita (e la compensazione del reddito perso dalla maggioranza) è andata al restante 10% che da solo si pappa quasi la metà della torta (il 48,5%). È un vero cannibalismo sociale: nel 1970 il decimo più ricco degli americani si appropriava solo (sic!) di un terzo del reddito totale, non della metà. La perversione più raffinata di questo meccanismo è che non solo scava un baratro tra ricchi e poveri, ma apre una voragine tra ricchi e super-ricchi: l’aumento del reddito dell’1% più ricco è stato dieci volte maggiore di quello del 10% più agiato. Oggi l’1% più ricco si mette in tasca più di un quinto di tutto il reddito americano (21,8%), il 2% in più dell’anno prima e più del doppio del 1980. E ancora meglio fa l’un per mille più ricco: nel 2005 il reddito medio annuo dell’1% più ricco è stato di 5,6 milioni di dollari (+908.000), mentre quello dell’un per mille è stato di 25,7 milioni di dollari (+ 4,4 milioni). Queste cifre sono così astronomiche che è difficile coglierne il significato. Allora mettiamola in questi termini: i 30.000 americani più ricchi dispongono di un reddito annuo che è superiore al Prodotto nazionale lordo di Brasile, Argentina, Cile, Uruguay, Paraguay, Bolivia e Perù messi insieme (che contano più di 270 milioni di persone). E 30.000 persone sono contenute in una cittadina come Oristano. L’ironia non è finita qui: l’ufficio delle entrate ammette che i redditi delle classi più agiate sono sottostimati, perché mentre il 98% dei redditi da lavoro dipendente passa al vaglio del fisco, si stima che sia dichiarato solo il 70% dei redditi di affari e commercio. In queste nude cifre sta tutta la portata della «rivoluzione reazionaria» compiuta dai repubblicani Usa (assai flebilmente contrastati dai democratici). Se fosse vivo, il Marchese di Sade correggerebbe la sua celebre incitazione in «George, ancora uno sforzo!»

 

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