26 Aprile 2013
Architetture del desiderio, a cura di Bianca Bottero, Anna Di Salvo, Ida Farè, Liguori 2011, pp. 67-76.

L’arte ci prende per mano

di Maria Donata Glori

L’arte ci prende per mano è la frase che Maria Lai ha inciso sulla sua opera Lavagna situata nel centro abitato di Ulassai, Nuoro.

Tratto da Architetture del desiderio, a cura di Bianca Bottero, Anna Di Salvo, Ida Farè, Liguori 2011, pp. 67-76.

Da dieci anni insegno nella stessa scuola primaria, la San Giovanni Bosco di Foggia, cerco di portarvi ciò che più mi muove, appunto l’amore per la città e per le relazioni.

La mia scuola esprimeva da tempo una particolare attenzione alla storia del territorio ma vi era qualcosa di più profondo che cercava la strada per esprimersi, un desiderio di esserci insieme, un desiderio di mondo. L’essere al mondo nello stesso tempo, occupando lo stesso spazio, l’intreccio di relazioni che la scuola si ritrova a essere come luogo di incontro per eccellenza tra persone differenti per sesso, età, cultura, estrazione sociale, si presentava come un’occasione da non perdere. Abbiamo chiamato questo desiderio comunità.

Dare un nome al comune sentire è servito per operare più consapevolmente a un progetto che coinvolgesse tutti i bambini della scuola dai tre agli undici anni.

Abbiamo tracciato una mappa a grandi linee da cui partire, al centro vi era sì la conoscenza dello spazio e del territorio ma orientati dalla consapevolezza che si cresce e si conosce in relazione. Per ogni bambino e bambina, la conoscenza del mondo ha come centro e punto di riferimento il proprio corpo, la madre e poi gli altri affetti; questi si intrecciano man mano a luoghi spaziali e affettivi: la casa e poi la scuola, primo luogo in cui i piccoli si trovano a condividere spazi e relazioni non scelti.

I bambini sono stati condotti a fare esperienza degli spazi dell’aula, della scuola, del giardino, della città, a osservare gli elementi naturali e antropici, le strade, la gente e il traffico; hanno memorizzato e notato le cose piacevoli e quelle sgradevoli. Hanno cominciato a cogliere la differenza tra privato e pubblico, “un luogo pubblico è un posto mio, ma anche tuo” dice Francesca, una di loro. Si sono espressi con riflessioni, disegni e testi, in cui sono riusciti a esprimere il bello della nostra città, ma anche il brutto.

Per rendere visibile la miriade di percorsi intrapresi con le classi e, insieme, il comune intento di noi adulti, in alcuni insegnanti si è fatta strada l’idea di realizzare un’opera comune. Non è stato facile, ma l’arte performativa della grande artista contemporanea Maria Lai ci è venuta incontro.

 

L’arte ci ha dato una mano

Ho conosciuto Maria Lai durante un convegno e una mostra tenutisi a Foggia nel 2004, l’ho ascoltata raccontare storie e fiabe della sua terra, universali, potentemente simboliche. Una mi ha presa più delle altre.

La bambina e il nastro

Si narra di una bambina mandata sulla montagna a portare del pane ai pastori.

A causa di un temporale la bambina arriva impaurita dalla voce dei tuoni e trova greggi e pastori rifugiati in una grotta. Mentre insieme ai pastori guarda l’arrivo della pioggia, pioggia che trascina con sé sassi e terra, vede passare un nastro celeste portato dal vento.

Per i pastori questa immagine è una sorpresa fugace, forse per loro è proprio un fulmine, ma niente che sia più importante del pericolo che incombe su di loro in quel momento.

Per la bambina, invece, è uno stupore che la trascina fuori dal rifugio e la porta verso la salvezza, mentre la grotta frana sulle greggi e i pastori.

Maria aveva avuto l’incarico di realizzare un monumento ai caduti nel suo paese di origine: Ulassai, in provincia di Nuoro, un paese ai piedi di un monte sempre sul rischio di franare. Chiese di avere carta bianca, non la stimolava un simile progetto e sentiva i paesani chiusi e diffidenti.

Camminando per le strade del paese, parlo con la gente, ricordo la mia infanzia. Viene a galla una storia, una fiaba che tutti i bambini, da chissà quante generazioni, hanno sentito raccontare. La bambina e il nastro, una leggenda affidata alle interpretazioni di tante voci, nata dalla fantasia di un poeta sconosciuto, un pastore forse o una donna del posto.

A Ulassai la creatività si rivela, nel quotidiano, al femminile: il telaio oppure il pane, che per le feste prende forme di uccelli, di fiori e di gioielli. Ho sempre pensato che in questa storia ci fosse lo zampino di una donna per quella atavica civetteria di portare un oggetto frivolo anche al centro di un dramma.[1]

Man mano che la storia della bambina e del nastro circolava casa per casa, tra la gente del piccolo paese di Ulassai si risvegliava la consapevolezza che qualcosa occorreva fare per tenere unito il paese, per impedire che, metaforicamente parlando, la montagna franasse e sommergesse paese e abitanti. Maria si fece regalare da un fabbricante di stoffe un rotolo di stoffa azzurra che insieme a tutta la gente del paese, trasformò in strisce: il nastro della bambina.

Il nastro celeste della bambina, che invitava a uscire dalla grotta del proprio piccolo io e dei confini conosciuti, per rischiare l’esperienza del non già conosciuto, dell’incontro, ha quindi attraversato casa per casa tutto il paese, impegnando ognuno a passare il nastro ai propri vicini e ad esplicitare visivamente la qualità del legame, con nodi, fiocchi, pani decorativi o, per lo meno, a passare davanti alla finestra, alla porta del vicino allorquando nessun tipo di rapporto si configurava.

In questo modo 26 km di nastro hanno stretto il paese e questo è stato poi legato alla montagna. Il nome di questa performance è appunto Legarsi alla montagna.

Non ho avuto dubbi, la storia parlava anche di me, qualcosa legava me donna di pianura alla bambina e alla storia di montagna; parlava del desiderio di tenere insieme ciò che è disgregato, di continuare a tessere e fare comunità.

Il racconto di Maria Lai ci dice che la presenza degli altri è un dato imprescindibile, il nastro deve necessariamente passare davanti alla porta e alla finestra dell’altro, anche quando l’altro non ci piace, anche quando sembra che ci faccia da ostacolo.

A me è sembrato parlasse di quella capacità di rendere abitabile il mondo che Luisa Muraro ha chiamato “politica prima”, e a mia volta ho cominciato a raccontare l’esperienza e la storia. Non è stato difficile trovare analogie tra Ulassai e ciò che si verifica nelle varie realtà che abitiamo, come la scuola stessa, piccolo mondo dove si incrociano persone ed esigenze le più diverse, come la città di Foggia, slargata e senza confini, città di passaggio, di transumanza passata e recente, a volte accogliente a volte difficile da tenere insieme.

La storia, grazie al contributo indispensabile di colleghe e genitori, della dirigente e di amici, artisti e appassionati di relazione, ha cominciato a circolare nella scuola e fuori, ha dato voce a un desiderio di confronto che trovava la modalità per dirsi in un’opera comune, concreta e simbolica insieme. Abbiamo, così, cominciato a pensare a un grande arazzo, un arazzo-mondo. Vi dovevano confluire i lavori di tutti i bambini della scuola e doveva raccontare i vari percorsi nella conoscenza dello spazio e delle relazioni, conservando della relazione iniziale con la madre lo stare in atteggiamento di apertura e fiducia.

 

Te-La Racconto

Siamo partiti da un grande e suggestivo telo bianco, uno spazio tutto da inventare, con cui i bambini, quasi ottocento tra scuola primaria e dell’infanzia, hanno giocato, immaginato, progettato. Poi abbiamo diviso la tela in diciotto pezzi e l’abbiamo distribuita a ogni coppia di classi. Su di esso tutti i bambini e le bambine hanno avuto la possibilità di raccontare per immagini, con pennelli e colori, gesto individuale e collettivo, l’incontro, gli spazi frequentati dentro e fuori la scuola e le relazioni che a essi si intrecciano.

I teli sono stati poi cuciti insieme, come a dire che con sguardo multiplo si è guardato alla città, si sono intessute relazioni, ma per costruire un mondo che è sempre un intero e in cui le varie parti sono in relazione necessaria. Ne è venuto fuori un lungo racconto, abbiamo chiamato l’arazzo TE-LA Racconto.

Spesso tra i vari pezzi della tela ci sono sconfinamenti, si entra nel pezzo di tela dell’altra classe con un albero in comune, con le cianche (lastre di pietra) con le quali si suggerisce il centro storico, con le rose che passano di spazio in spazio, con un campo di grano e papaveri o con personaggi venuti fuori da libri e da film visti dalle classi. Gli sconfinamenti, a volerli interpretare, narrano lo stato delle relazioni tra le classi e le insegnanti: un’occasione per esercitare la vita sotto il segno della creatività e dell’alleanza.[2]

L’arazzo è attraversato da un nastro giallo.

Il nastro celeste della bambina di Ulassai, che rappresenta la capacità del singolo, la propria interiorità, è diventato giallo a rappresentare la socialità, l’apertura e l’incontro con gli altri. Il nastro giallo attraversa tutta la scuola, entra nell’arazzo e vi esce. Il giorno dell’inaugurazione si è spinto fuori dai cancelli della scuola e si è proteso verso la città e il cielo sostenuto da palloncini celesti.

 

L’arte e la creatività attivano incontri fecondi

Il giorno dell’inaugurazione, quando abbiamo tirato giù l’arazzo, 10 metri per 3 in un’esplosione di colori e vita, è stato chiaro che la tela davvero raccontava di noi tutti, bambini, adulti, scuola, relazioni, comunità, spazio, tempo che avevamo vissuto, desideri, città, mondo.

Eppure manteneva un residuo, non tutto poteva essere detto in parole.

Il residuo è ciò che permette al racconto della tela di continuare a essere re-interpretato e diversamente narrato ancora oggi, a distanza di qualche anno.

L’arte lo sa dire meglio, collocandosi in un tempo e un luogo indefiniti, non dice chiaramente cosa fare ma crea suggestioni, avvia un dialogo che permette a chi guarda di mettere in moto la propria individualità creativa e narrativa.

L’arte è in grado di aprire e dilatare la coscienza. Chi opera nel mondo dell’arte fa, al tempo stesso, un discorso sull’arte e indaga sul segreto della vita…l’arte è come vestire la vita, parte dal corpo, dal desiderio di abbracciare, cantare, ascoltare, seguire ritmi che accompagnano un respiro, un passo, il battito di un cuore, dice la Lai, – e alla domanda a che serve l’arte? risponde: fareste la stessa domanda al canto di un uccello? Al gioco di un bambino? Alla nascita di un figlio?[3]

La Lai rende visibile nelle sue opere il rapporto inscindibile tra spazio e relazioni umane che quello spazio abitano; crede nella possibilità di un’arte radicata nella creatività quotidiana del singolo e allo stesso tempo collettiva. E noi volevamo che i nostri alunni e le nostre alunne potessero continuare a “dire” e dirsi in relazione, con noi adulti, nella città e nel mondo.

 

Il volo del gioco dell’oca

Abbiamo provato a giocare uno dei giochi della straordinaria artista, Il volo del gioco dell’oca.

Il gioco è composto da una tavola con quarantadue caselle che contengono parole, segni, figure stilizzate e spazi vuoti. È un gioco aperto, in parte strutturato, in parte no, funziona come un normale gioco dell’oca con dadi, punteggi e segnacoli ed è indissolubilmente accompagnato da La filastrocca del volo del gioco dell’oca.

Gioco e filastrocca sono una metafora della crescita e del rinnovarsi, del bisogno di trascendersi. Ci parlano di un pulcino che esce dal guscio per ritrovarsi nel guscio dei propri limiti e del mondo; qui il pulcino razzola inconsapevole fino a quando in una pozzanghera, fatta di fango e di cielo, vede il riflesso di un volo e comincia ad alzare gli occhi e a immaginare che ci sia altro da vedere, sperimentare, vivere e rischiare.

In questo percorso l’oca incontra simboli e segni della crescita, i semi, la pioggia, il sole, l’arcobaleno e un burattino che diventa compagno di viaggio, anch’esso essere imperfetto, prigioniero com’è di un corpo di legno, e come l’oca portatore di un sogno, quello di essere un bravo bambino.

Insieme fanno un tratto del cammino e incontrano il sillabario, la cultura, i segni, il bisogno di comunicare, l’impegno di farsi comprendere, di trascendersi e, ancora, la fatina dal velo turchino, il tocco di magia nel quotidiano e chissà, l’avverarsi di un sogno ma solo se si attraversa la conoscenza umana con impegno e investimento personale “perché – dice la Lai – l’arte e la creatività non nascono dai sogni ma dal contatto di una materia con il corpo umano: mani, sguardo, orecchio, educati da un lungo apprendistato”.[4]

 

Vuoti per crescere

Una parte importante del gioco assumono le caselle vuote; io credo che Maria le abbia pensate per dare la possibilità di riempirle dei luoghi dove il gioco viene giocato. Occorrono radici molto profonde per poter volare.

La scelta degli spazi vuoti nel gioco mi pare molto significativa, occorrono spazi vuoti, così come far vuoto dentro di sé, per lasciare posto all’imprevisto, al nuovo, alla crescita, alla possibilità di altro, come mi ha insegnato Simone Weil, pensatrice da me molto amata e che spesso costituisce lo sfondo delle mie intuizioni.

Il gioco è un’opera aperta, sollecita domande, apre territori inesplorati più che dare soluzioni e significati univoci, provoca perplessità con il suo rigoroso bianco e nero che alcune maestre hanno avuto difficoltà ad accettare, sostenendo che ai bambini non sarebbe piaciuta l’assenza del colore. Così non è stato, il bianco-nero, la sua essenzialità sono stati uno stimolo per riflessioni importanti, nelle intuizioni dei bambini ho trovate molte delle motivazioni dell’arte contemporanea, ma occorre guidarli e nello stesso tempo mettersi in loro ascolto.

Io ho un’enorme fiducia nelle possibilità dell’arte di veicolare apertura al bello. Credo che in campo formativo l’arte sia utilizzata ancora poco e per quanto riguarda l’arte contemporanea le difficoltà si moltiplicano per una generalizzata diffidenza verso qualcosa che sembra difficile da decodificare.

 

Il gioco giocato dai bambini

La partecipazione al gioco dell’oca giocato in ogni classe è stato un apprendistato di mani, sguardo, orecchio. Molto spazio è stato dato alla libera interpretazione dei segni e dei simboli contenuti nel gioco. Ne sono scaturiti racconti personali e universali, un ri-percorrere gli archetipi della crescita e dell’essere al mondo con paure e desideri e fiducia.

Volevamo portare fuori dalla scuola le nostre consapevolezze e abbiamo realizzato la performance Desidero per me, desidero per la mia città.

In una bella mattina di fine maggio abbiamo svuotato completamente la scuola. Circa ottocento bambini, accompagnati da genitori, insegnanti, curiosi e figure dell’istituzione, da tutto il personale della scuola e dai vigili, hanno formato un serpentone allegro e colorato su cui campeggiavano i palloncini bianchi pieni di desideri per sé, segreti o palesi, e per la propria città.

Raggiunta la piazza d’arrivo e confluiti in un grande cerchio, mano nella mano tutti i bambini hanno recitato la filastrocca dell’oca e, al grido l’arte ci prende per mano in omaggio a Maria Lai, hanno lasciato volare i palloncini a cui erano stati affidati i loro desideri. So per certo che alcune maestre e genitori hanno mischiato i propri desideri a quelli bambini, non sempre, infatti, i desideri di un adulto e di un bambino sono diversi.

I bambini hanno mostrato di averla un’idea di città, hanno evidenziato che per sognare un futuro migliore occorre uscire fuori dal proprio guscio, che sia di calcare come l’uovo o di legno come per il burattino.

Qualche bambino si è spinto ancora più in là e ha riconosciuto il guscio più duro di tutti, il pregiudizio che tutto sia immutabile, i destini già segnati.

La città gi-Oca-ta ha concluso il suo percorso in una grande riproduzione a parete del gioco; al posto delle caselle lasciate vuote dalla Lai ci sono le sintesi che ogni classe ha inteso lasciare come traccia di come ha gi-oca-to la città.

Il nostro gioco dell’oca intreccia a segni, parole e personaggi della filastrocca della Lai la nostra storia: classi, scuola, luoghi che i bambini scoprono con occhi nuovi dando conto di uno sguardo bambino che ha trovato lo spazio per dire desideri, difficoltà, da quelli più intimi e personali a quelli che riguardano la vivibilità della nostra città, la ricerca di spazi sicuri e belli, alberi, fiori e piste ciclabili, a dimensione di bambino e quindi a dimensione di tutti. Racconta, ancora, di noi adulti di scuola che nel corso degli ultimi anni siamo riusciti a non farci sopraffare da diffidenze e contrasti in vista della ricerca del bene comune.

Raccontano di una città che giocando abbiamo tutti imparato a guardare meglio nella sua bellezza, nella sua arte e nelle sue contraddizioni. Ma non è che un punto di partenza, ancora molto c’è da fare.

 

L’arte di non spezzare il filo

Nel corso dell’esperienza abbiamo avuto la possibilità di vedere il bellissimo film Figlia di un dio distratto. Maria Lai di Marilisa Piga e Nico di Tarsia: l’artista stessa vi racconta alcune delle sue opere e l’origine della sua arte, l’amore per le storie, di quando bambina guardava la nonna rammendare e gli intrecci casuali dei fili le parevano parole scritte. Il filo è davvero uno dei segni che contraddistinguono la sua arte, attraversano le sue splendide fiabe cucite e intrecciano memoria dell’infanzia individuale e dimensione collettiva.

Le potenzialità dell’arte di Maria Lai non sono ancora del tutto esplorate, donna estremamente schiva – se mi volete bene, non ditemelo – dice, forse perché è figlia di un tempo in cui per una donna l’amore voleva dire essere proprietà di qualcuno e rinunciare alla propria individualità, preferisce restare nel suo bozzolo Il baco da seta dà il filo al tessitore, ma va lasciato nel bozzolo, altrimenti il filo si spezza.

Terrò il suo filo di seta, uno dei capi, cercando di passarlo ad altri, da tessitrice che sa come non spezzare il filo.

Continuerò a pensare che, intrecciata alla creatività del quotidiano e delle relazioni, l’arte possa dare una mano a pensare che il mondo è tutto attaccato.



[1] Ulassai da Legarsi alla montagna alla Stazione dell’arte, Art Duchamp, Cagliari 2006, Maria Lai, p. 25.

[2] Ibidem, F. Menna, p. 35.

[3] F.P.Minerva e M.Vinella (a cura di ), Arte e Creatività Le fiabe e i giochi di Maria Lai, Art Duchamp, Cagliari 2007, p.31.

[4] Ibidem, p. 29.

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