25 Maggio 2019
L'Attacco

Quale scuola per quale società Riconoscere l’essenziale

di Antonietta Lelario


Dobbiamo tornare per il suo forte valore simbolico sul caso della professoressa Rosa Maria Dell’Aria, l’insegnante di Palermo sospesa per 15 gg dall’insegnamento senza stipendio per non aver censurato in occasione della giornata della memoria un lavoro dei suoi studenti che paragonavano le leggi del ’38 contro gli ebrei al decreto Salvini contro i migranti.

L’hashtag scelto dalle e dai docenti del Liceo Anco Marzio di Ostia #iononSorveglioSveglio dice in modo molto sintetico che la posta in gioco è un’idea di scuola.

C’è evidentemente un gran bisogno di discutere di questo.

La scuola è un luogo preziosissimo.

Lo sapeva bene chi ha redatto la nostra costituzione che ha voluta che la scuola fosse pubblica e gratuita. Lo sapevano bene le donne che si sono battute per frequentarla e farne uno strumento di libertà. Lo sapevano bene i figli di contadini e di operai che vedevano lì una possibilità di emancipazione sociale.

Ogni volta questi passaggi si sono ottenuti con un salto di coscienza di tutta la società e “aprendo porte e finestre”.

Io so delle porte e finestre aperte da noi donne nel Sapere perché perdesse il carattere neutro e autosufficiente che la tradizione maschile gli aveva impresso, per farlo diventare “saperi plurali” che stanno fra noi e il mondo e che funzionano se mantengono l’impronta di noi che li scopriamo e del mondo in cui li portiamo. Come la plastilina, ma anche come l’Arte.

La trasmissione di quel sapere maschile richiedeva ripetizione da parte dei discenti e sorveglianza da parte dei docenti. Quella scuola l’ho frequentata da ragazzina quindi so di cosa parlo, riconosco a naso la tentazione di appoggiare quell’idea di scuola.

La scuola che ho voluto come docente insieme alle meravigliose colleghe e ai tanti colleghi che mi hanno accompagnata, nei passati quarant’anni, è quella in cui i saperi diventano materiali nelle mani dei e delle ragazze perché loro si riconoscano, li scartino, ci giochino, si lascino toccare emotivamente, imparino ad applicarli per la soluzione dei problemi del mondo in cui ci troviamo a vivere; è una scuola in cui circola aria, in cui si respira libertà. Qualche volta c’è conflitto, bisogna imparare a lasciar spazio al pensiero dell’altro o dell’altra, qualche volta bisogna sospendere il giudizio, altre volte bisogna assumersene il peso. C’è autorità senza autoritarismo.

È esercizio del pensiero. È palestra attraverso cui si cresce, si impara a relazionarsi. Entra in gioco l’essenziale.

Io credo che sia per la bellezza di questo lavoro essenziale che i docenti tollerino la pretesa di chi tenta di controllare la scuola con norme e criteri che le sono estranei, penso alla cosiddetta produttività per esempio. Li vedo esercitare l’abilità che insegnano ai loro studenti un po’ glissando, un po’ adattando le proposte ai propri desideri, un po’ rifiutandosi. E sopportano anche che si scarichi sulla scuola la frustrazione di chi le attribuisce la responsabilità del lavoro che non c’è, della mobilità sociale bloccata, del progressivo impoverimento delle classi medie, facendo chiarezza quando si può, dove si può. E sopportano anche che si scarichi sulla scuola la rabbia giovanile per il degrado delle periferie, per l’assenza di luoghi di incontro e di crescita fuori della scuola, per non parlare della corruzione indotta dagli esempi che i giovani hanno ogni giorno sotto gli occhi. Certo non tutti. Ma come insegnare la differenza se i valori del vincere ad ogni costo, del disprezzo per la vita umana, della violenza sono presentati come gli unici?

Giovedì 16 maggio ho partecipato a un incontro dell’Istituto Notarangelo – Rosati in conclusione di un progetto didattico che aveva coinvolto alcune classi. Il progetto dal titolo «Dal disagio alla criminalità: Quale giudice per i minorenni?» è stato realizzato in collaborazione con l’USR, il Tribunale per i minori, la Procura per i minori e l’Associazione Libera, per questo a dialogare con i e le ragazze c’erano la dottoressa Leone e la dottoressa Mazza, due giudici onorarie del tribunale per i minori di Bari, e la dottoressa Federica Bianchi di Libera. Di un vero dialogo si è trattato con studenti e studentesse interessati che ponevano domande e questioni e le tre relatrici che rispondevano in modo diretto e appassionato. In verità quello che mi ha colpito è stato riconoscere attraverso le domande e le slide che i ragazzi avevano letto e commentato quel tipo di insegnamento che una vecchia insegnante come me riconosce da lontano, quello che mi ha fatto amare la scuola, quello per cui anche l’argomento più ostico diventa accessibile perché si aiutano i ragazzi ad avvicinarlo alla loro esperienza, a farlo diventare sapere vivo. L’ho riconosciuto come in tanti racconti delle mie amiche che insegnano ancora, come nei molti incontri a cui partecipo.

Questa qualità essenziale del lavoro docente devono aver visto nel lavoro della collega di Palermo i docenti di Ostia che hanno proposto il Teacher Pride col quale si invitavano insegnanti e cittadini ad interrompere le attività martedì 21 maggio alle ore 11 per leggere in pubblico gli articoli 21 e 33 della Costituzione italiana che garantiscono la libertà di pensiero e di insegnamento, proposta che è stata raccolta da molte scuole e in molte città. Questo abbiamo visto anche a Foggia dove, su iniziativa delle amiche e degli amici del Circolo la Merlettaia, abbiamo letto gli articoli della costituzione davanti alla libreria Ubik. Questo deve aver mosso molti docenti e studenti, in varie scuole della città. Perfino a S. Chiara dove alcune classi di sei paesi della provincia partecipavano a un incontro del progetto di lettura organizzato dalla sala ragazzi/e sul libro Che forza la danza di Donatella Caione.

Questa qualità del lavoro docente che salva l’essenziale e ne fa la propria misura si può anche perdere se non si riesce a resistere all’opera di demolizione continua che se ne fa ignorandolo, misconoscendolo, considerandolo scontato. Proprio come il lavoro materno. L’analogia non è casuale visto che la scuola è diventata un luogo gestito in gran parte da donne. È il momento di fare un altro salto di coscienza.

Dobbiamo tornare a discutere sull’idea di scuola che serve alla nostra civiltà per essere all’altezza delle sfide che le stanno davanti, ora che per la prima volta nella storia abbiamo a disposizione un pensiero libero di donne e uomini. Dobbiamo ricostruire intorno a questo una cultura della differenza, un desiderio, uno slancio consapevole dentro e fuori dalla scuola. Senza questo nuovo patto sociale perdiamo tutti e tutte.


(L’Attacco, 25 maggio 2019)

Print Friendly, PDF & Email