1 Marzo 2012

L’università è qui, alzatevi

Gianluca Solla e Chiara Zamboni

La situazione che oggi stiamo vivendo è quella di uno slittamento di significati. I piani simbolici della realtà si stanno confondendo tra loro. Per questo ci sentiamo in difficoltà a dire quel che ci capita e di conseguenza a sapere come e dove aprire spazi con inventiva e su cosa concentrare la critica. La difficoltà è accresciuta, ci sembra, dal fatto che far emergere in questo momento esigenze e desideri sembra di aggiungere altri elementi in più agli slittamenti in atto. Eppure proprio mettere a fuoco il desiderio che abbiamo di una università che sia fedele ai momenti più vivi dell’insegnamento e del pensiero può rappresentare quel punto fermo di cui un po’ tutti avvertono la necessità.
Iniziamo dunque questo testo col descrivere quel particolare tessuto vivente che non solo crea l’università, ma da cui l’università viene alimentata, cioè la relazione studenti-docenti. Una relazione, che in genere sottovalutiamo perché è esperienza quotidiana, prevista e scontata nelle nostre mansioni, ma che ha una forte potenzialità di trasformazione. È movimento aperto verso qualcosa che si scopre nel processo. Chiama ad un rischio perché lo scambio è sempre esposto al fallimento della possibile creazione comune di senso.
Le relazioni con le/gli studenti, pur nel tempo limitato dei corsi, dei seminari, delle discussioni per la tesi di laurea, delle conversazioni orientate allo studio, aprono alla sperimentazione dell’insegnare e imparare. Attraverso questo scambio di pensiero studenti e docenti non solo danno parole alla direzione presa dalla realtà ma soprattutto discutono – direttamente e indirettamente – di come agire in rapporto ad essa.
Insegnare e imparare: si tratta di esperienze e non di fatti oggettivi, progettabili e costruibili. Le esperienze possono essere raccontate ma non programmate; trovano senso in processi, che sono solo in parte consapevoli e mostrabili agli altri. Eppure parlarne, cercare di capirle e confrontarci con gli altri fa crescere la nostra consapevolezza e la nostra capacità di agire con inventiva ed esattezza in aula e negli altri luoghi – non convenzionali – dell’insegnare e imparare a pensare.
L’incontro di differenti esperienze singolari stimola la circolazione di pensiero vivente. Ha una forza che ci impegna, ci mette in gioco nei confronti dell’altra e dell’altro. Non è affatto indifferente che i nostri interlocutori siano donne o uomini, porta anzi a numerose, diverse conseguenze. La presenza con altri ci dà una forza che ci fa andare oltre ciò che è definito e codificato nell’ordine del pensabile. Ha un potenziale di attrazione che assomiglia a quello della calamita. Attrae e respinge, sposta, disloca. È intessuta di relazioni che si modificano, si sgranano e si intensificano. È un punto vitale dell’insegnare e imparare a pensare. Non è un caso che le tecniche di potere tendano a risucchiare la presenza, a prenderla in ostaggio, ad adoperarla strumentalmente.

 

Al centro della nostra riflessione poniamo le pratiche di insegnare e imparare pensiero. Le pratiche hanno una forza istituente diversa e più solida di quella delle leggi amministrative di riforma dell’università. Sono le pratiche che danno inizio a una realtà sperimentale, e il loro valore dipende dalla capacità di durare nel tempo e da quello che le singole e i singoli riescono a portarvi. Non si tratta di avvenimenti isolati. Sarebbe interessante fare una mappa delle pratiche avviate nel nostro ateneo. Ad esempio ci sono laboratori per la scrittura e la discussione della tesi di laurea. Laboratori liberi, alcuni avviati da docenti, altri da studenti. Non hanno un riconoscimento istituzionale, né sono istituiti per legge, ma nascono per il desiderio di chi vi partecipa.
Le pratiche sono processi, dove sono in campo relazioni vive. È inevitabile che in esse si diano delle regole, che danno ordine ad un movimento contestuale. Però questo atto rimane vitale, se le regole vengono confrontate di volta in volta con esigenze, desideri, accadimenti e con le difficoltà che via via si presentano. Altrimenti è molto probabile che le regole diventino formali, vuote. Questo finisce per distruggere il tessuto vivente delle relazioni, che di per sé non è formalizzabile. Facciamo riferimento, per portare un esempio, all’esperienza del master sulla “Filosofia come via di trasformazione”, a cui stiamo collaborando. Desiderio, ascolto degli scacchi, imparare dall’esperienza già avuta: tutto ciò porta a modificare le regole stesse iniziali che ci siamo dati. Questo mantiene l’iniziativa coinvolgente per noi che vi partecipiamo.
Perché insistiamo così tanto sulle pratiche? Le trasformazioni in atto hanno cancellato le divisioni tradizionali dell’università. È venuta meno l’identità precostituita dei luoghi del sapere accademico. Le maglie sono state disfatte. Per questo ci troviamo confrontati direttamente con la questione di cosa sia pensare la realtà e che cosa significhi saper fare ricchezza simbolica delle esperienze vissute assieme. Ragionare sulle pratiche condivise ne è venuto di conseguenza.
Di tutt’altro registro è il modo di intervenire del ministero su questa smagliatura intenzionalmente provocata. Infatti le linee guida ministeriali consistono nel favorire l’organizzazione di centri di ricerca che concentrino più forze, più finanziamenti, più risorse, più gerarchia, dando un ordine centralizzato e spingendo ai margini tutti coloro che creano relazioni di ricerca fluide e legate ad una reale affinità. La mossa che ci sta a cuore non consiste soltanto nel criticare questo, ma soprattutto nel mostrare che l’università vive perché fa anche molto altro rispetto ai codici disciplinari, alle indicazioni ministeriali, all’apparato gestionale pesantemente burocratico, i cui fini sono oggi dettati da un’agenda esterna alla riflessione, conoscenza, sperimentazione che chi lavora nell’università ha delle proprie pratiche di insegnamento e di ricerca di pensiero.

 

Il rapporto tra esperienza e pratica consente di “far altro” perché è in grado di valorizzare le differenze attive sul campo. Queste, benché vengano spesso recepite in una società tecnocratica come un fattore di disturbo e di rallentamento delle procedure, costituiscono un valore aggiunto su cui riteniamo che sia imprescindibile investire. Rispetto all’idea di armonizzazione dei conflitti e alla conseguente cancellazione delle differenze, crediamo sia possibile “fare altro” ovvero fare università come situazione in cui succede dell’altro: succede formazione non solo come trasmissione, ma anche come trasformazione; ha luogo l’elaborazione singolare di un pensiero; si creano relazioni di scambio e di crescita.
Tutto questo si articola in tre momenti decisivi: 1) nella valorizzazione della conoscenza in quanto conoscenza critica e condivisa; 2) nell’apertura a pratiche che consentano di vivere i luoghi decisionali dell’università come altrettanti luoghi di discussione e di partecipazione in prima persona (a iniziare dal dipartimento); 3) in una pratica della didattica in cui ogni docente è libero di proporre tematiche e modalità che reputa più idonee alla formazione dei suoi studenti. Benché questa idea della lezione rappresenti un’anomalia tutta italiana, noi riteniamo che costituisca un elemento di valore all’interno del panorama europeo. Si tratta del rapporto tra libertà di insegnamento e libertà di apprendimento.
In particolar modo può essere interessante soffermarsi sul secondo punto, quello relativo alle strutture di governo dell’università. Queste strutture, e in particolar modo quella del dipartimento come struttura in cui a valere è la presenza diretta e non la rappresentanza, possono essere il luogo di un confronto sulle esigenze della didattica, sul senso dell’insegnamento, sulle scelte politiche di governo di ateneo. Il dipartimento, in quanto luogo di una politica in presenza, ci sembra essere il luogo in cui rendere pubbliche le richieste, le esigenze, le mancanze, le stesse ricerche esistenti. È qui che è possibile non solo amministrare la vita universitaria, ma anche creare una mappatura che renda conto di una vita (scientifica, didattica, di formazione) che non si lascia formalizzare, ma che occorre tenere in considerazione come la risorsa più importante per l’università.
Se occorre rendere conto di ciò che è formalizzato, non è possibile trascurare ciò che non è formalizzabile. Il sapere non si fa discreditando le capacità singolari, e quindi le altrettanto singolari differenze, che hanno un valore intrinseco indecidibile, ma unicamente valorizzando la capacità dei singoli di farsi carico di se stessi e del contesto nel quale operano.
Questa esigenza prevede una assunzione e una appropriazione effettivamente politica del dipartimento, affinché questo non sia più solo il luogo in cui le decisioni vengono assunte in base a un principio di esclusione della partecipazione, per cerchie ristrette, ma diventi un luogo di senso in cui la discussione sia possibile. Sembra parlare in questo senso anche la recente esperienza del movimento dei ricercatori che, nato nel segno della protesta contro la riforma ministeriale del sistema universitario, è diventato un momento di conflitto e di crisi capace di aprire un’elaborazione autonoma di pensiero e di relazioni, un momento di interlocuzione tra chi, pur lavorando in uno stesso contesto, non aveva mai avuto occasione di scambio nella normalità del funzionamento delle strutture universitarie e dell’insegnamento in genere. Vediamo qui l’esistenza di potenzialità che sono da rigiocare. Rispetto alla natura tendenzialmente statica della gerarchia, i ricercatori si sono dimostrati in grado di un altro livello di mobilità. Inoltre la riforma prevista dalla Legge 240 ha portato in Italia alla creazione di nuovi organismi che rompono con l’omogeneità di area e di disciplina. Rispetto alle storie dei singoli dipartimenti, spesso improntati a un criterio di sostanziale uniformità disciplinare, c’è stata qui l’occasione di ripensare la propria presenza dentro quel contesto. Questo implica una trasformazione che non si arresta allo scambio disciplinare o interdisciplinare, ma comporta anche la rimessa in gioco della propria situazione in un contesto mutato. È possibile vedere qui lo spazio per l’emergere di forme di conoscenza e di discorso che cambiano i rapporti di forza e che perciò non si limitano a un ambito particolare (quello dei ricercatori, per esempio), ma si trasmettono come istanze di cambiamenti alle aree circostanti. In questo senso, è augurabile che queste trasformazioni in atto non si traducano poi tanto in nuove forme di rappresentanza di tipo sindacale, quanto piuttosto in una inedita partecipazione, capace di andare al di là della pura logica della rivendicazione di settore.
Esiste indubbiamente una differenza sostanziale dei movimenti politici rispetto a quelli corporativi. Se questi ultimi sono volti a salvaguardare gli interessi particolari di una ristretta fascia, nei primi è il sapere come istanza comune a crescere, cambiando i parametri vigenti e il panorama di ateneo.
Lo stesso movimento degli studenti è caratterizzato da analoghe potenzialità, rispetto alle modalità preacquisite di comportamento e di condotta. Nato anch’esso in opposizione alla Legge 240, il movimento studentesco è diventato occasione di elaborazione di un sapere vitale e di una maturità politica.
Sono esperienze che si trasmettono da generazione a generazione, in modalità eterogenee rispetto a quelle abituali della trasmissione del sapere. Noi riteniamo che esse siano in grado di cambiare l’ambiente universitario, e quindi non solo la relazione tra studenti ma anche quella tra studenti e docenti. L’aver imparato a pensare e ad agire l’università diversamente ha significato farsi portatori e portatrici di una trasformazione in termini di autonomia della riflessione e dell’agire. Al di là delle logiche di subordinazione, è solo questa trasformazione a poter far diventare l’università un luogo di formazione politica.

 

Abbiamo scritto questo testo perché vorremmo trovarci per discuterlo assieme. Il nostro desiderio è che sia punto d’avvio di una riflessione con studentesse e studenti, con docenti e con tutti coloro che hanno a cuore l’università come uno dei luoghi più importanti per la vita comune.
Questo ci sembra il momento giusto per farlo.
Invitiamo all’assemblea il 26 marzo alle ore 9,30 avendo tempo fino alle 12 per discutere assieme. L’aula è la 1.5 del Polo Zanotto.Università degli studi di Verona.

 

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