1 Settembre 2001
Via Dogana n. 56/57

Mary Cassatt

Luciano Sartirana

Le prime impressioni riguardano le immagini. Non conoscevo la pittrice Mary Cassatt, è stata una scoperta.
In copertina: un teatro. Una donna osserva davanti a sé con un binocolo; la luce è ancora accesa; forse ha intravisto qualcuno passare dietro il sipario; o un musicante indica lo spartito a un collega; due persone colloquiano e la donna ne vuole cogliere il senso; il sipario ha disegni che lei non aveva mai notato; il frontone sul boccascena ha particolari interessanti. Osserva il mondo e i suoi dettagli. A teatro si va per farsi osservare, o per osservare l’apparenza altrui; lei fa il contrario. Sullo sfondo, fedele al luogo comune, un uomo osserva la donna che osserva. Perdendosi le opportunità della luce accesa, la figura dietro il sipario, il musicante e il suo violino, le parole sulla bocca di altri, i motivi sul sipario e sul frontone. Non ne saprà mai nulla.
A pagina 19, un dipinto intitolato Il bagno: una donna regge un bambino nudo e affonda l’altra mano in una tinozza d’acqua. C’è movimento – esterno ed interiore – in questa figura. La donna adempie a un dovere con l’opportuna e non severa delicatezza, ma senza particolare affettuosità. Il bambino nudo tenta di andarsene, muove maldestramente i piedi, viene retto dal braccio sinistro della donna e non sa decidersi se scapparle abbassandosi e sfuggire sotto o proseguire avanzando contro quel braccio. L’acqua della tinozza partecipa dei sentimenti dell’una e dell’altro; è mossa, vuole bagnare il bambino; ma è anche docile e professionale complice della donna. Ma quell’acqua è anche l’unico tramite relazionale dei due personaggi, che non hanno alcun rapporto al di fuori di quello che l’acqua può creare. Non si guardano, ed entrambi paiono non accorgersi dell’altro, ma solo delle cose o della situazione.
Ho trovato quest’immagine molto familiare. Ricordo di essere piccolissimo, adagiato sulla lavatrice, mia madre mi sta cambiando il pannolino; o anche: sono in una vaschetta, sostenuto con una mano da mia madre, con la mano libera mi lava. Borotalco e panni puliti. La sensazione di questi oggetti vicini e addosso al mio corpo è piacevole. Non lo sono invece le azioni di mia madre, mi sembra una persona lontana. Ricordo le sue mani, ma non il suo viso. E molto di più i panni morbidi, l’acqua calda e il borotalco, questi sì legati a un piacere. Un ricordo – e il disegno della Cassatt – che descrive molto bene il rapporto con mia madre, sempre bisognoso di essere mediato da cose.

Lia Cigarini prende in esame le reali difficoltà degli uomini che pur accettano un’autorità femminile e una pratica improntata alla differenza.
La prima: questi uomini “separano i piani, i campi del discorso e della ricerca, degli ambiti, dei luoghi, del pensiero dalla vita”… “…quando agiscono nella politica maschile usano un altro linguaggio e un’altra centralità.”.
Per quanto mi riguardi, leggo questo in due modi: in negativo, è un approccio maschile tattico alle cose (cosa ho da guadagnare o perdere?); in positivo, nello sforzo di dare il massimo valore al destinatario e al dirimpettaio (colgo la tua differenza, ti lascio parlare e scelgo di ascoltarti; parlo solo dopo aver trovato il linguaggio migliore per capirsi a un livello alto e privo di fraintendimento e reciproche proiezioni, mantenendo comunque un linguaggio non connotato perché aperto). Per quanto concerne il linguaggio della differenza – desiderio, guadagno, conflitto, relazione… – lo utilizzo se l’appartenenza a tale gioco linguistico è palese e accettata (senso rilanciato, riferimento a una grande storia di esperienze); ne cerco invece un’altra declinazione se il destinatario fa riferimento ad altre stelle polari; o se la relazione si fa rito o stereotipo, con parole che servono solo a confortarsi superficialmente a vicenda.
Mentre una difficoltà che ancora trovo è il passaggio dal pensiero della differenza come pratica per migliori rapporti personali – o del retto pensare – ad azione politica vera e propria.
Più a fondo… ho accordato autorità a filosofi e filosofe, scrittori e scrittrici, cantautori e cantautrici, citazioni anonime; raramente a persone reali, o solo per pochi istanti. Mi hanno cresciuto le canzoni di Fabrizio De Andrè come i romanzi di Virginia Woolf, le vertigini di Jorge Luis Borges o la modernità di Louis Débord.
Per me i grandi messaggi devono essere staccati da una persona reale, per evitare che vengano filtrati dai difetti della persona; o che, semplicemente, mi si mettano i piedi in testa. E l’affidamento del pensiero femminile della differenza è un affidamento a una persona reale e per me troppo presente.
La seconda: gli uomini tendono a “far sparire il conflitto fra i sessi nella relazione in cui sono coinvolti…e addebitare alla società genericamente intesa l’eventuale cancellazione della differenza femminile”.
Io vivo effettivamente poco il conflitto fra i sessi. Mi sento distante da molto immaginario tradizionalmente maschile e quindi – perlomeno – in mezzo a un guado senza vera appartenenza; colgo la presenza femminile come un invito al movimento, all’accorgersi di una disparità fruttuosa. E tendo – ritenendolo peraltro corretto – a distinguere quello che sono io da ciò che agisce la società: perché dovrei vedere anche in me cose che non ci sono, che sento di avere superato, su cui mi interrogo comunque di continuo? Perché dovrei annullare una mia differenza, quando gli uomini sono qualcosa di diverso dalle donne, ma anche da me?
La terza: gli uomini “fanno politica insieme a donne solo quando c’è un interesse contingente comune”.
Io faccio politica insieme a donne – e lavoro, vado al cinema, dialogo – perché trovo esteticamente migliore (ricco, vario, elegante, dinamico) l’agire e il pensare (il simboleggiare) femminile piuttosto che quello maschile. In questo ci possono essere interessi contingenti, ma è la forma dell’agire che diventa anche fine. È bello e attuale il richiamo di Lia al movimento dei movimenti e a Naomi Klein: le forme (relazione, decisione non delegata, rivolta sul terreno del simbolico) di una politica diversa si stanno affermando, e la loro pratica da parte di donne e uomini – e mia…! – penso sia anche legata più al fascino anche estetico e libertario che tali forme portano con sé, e meno a obiettivi contingenti.
La quarta: gli uomini “prendono in considerazione il pensiero della differenza perché, in un momentaneo vuoto di teoria, permette di aggiornare la lotta anticapitalistica o rispondere ad altre preoccupazioni dominanti…”.
La mia frequentazione di pensieri e politiche anticapitalisti ha radici in anni lontani. Conosco una politica fatta di riunioni piene di fumo, documenti e volantinaggi, ricerca di alleati, manifestazioni le più eclatanti possibile, passi per occupare determinate posizioni, affermazione del proprio partito politico, diffusione di informazioni boicottate, stesura di testi.
Ne conosco un’altra, improntata alla costruzione di un linguaggio capace di anticonformismo e pensiero autonomi, percezione delle connessioni sociali, legami fruttuosi fra pensiero e azioni quotidiane, sostanza tramite leggerezza. Io scrivo per professione; e la mia preoccupazione particolare – anche quando scrivo, ad esempio, di musica leggera – è comunque segnalare la rete di scelte e saperi che lega tutto e tutti: accennando alle radici sociali e simboliche di una corrente musicale, utilizzando un linguaggio non banale capace di stimolare menti sveglie e attente alle differenze taciute, in grado di interrogare la propria visione simbolica anche con un semplice aggettivo. È la mia piccola politica di oggi, alla quale sento – in modo caldo – la vicinanza del pensiero femminile della differenza. Non mi sostituisce la lotta anticapitalista, che so essere un’altra cosa. Forse mi dà più una risposta al bisogno di forme nuove della politica; di certo, partendo da me, un flusso di cui avverto la sintonia con ciò che faccio ogni giorno.
In queste mie considerazioni c’è una caratteristica – e una contraddizione – che torna: mi sento differenza, e sono attratto dal pensiero della differenza, “in quanto individuo”. E forse questa è la radice di tutti i comportamenti distorti degli uomini individuati da Lia Cigarini. Sicuramente dei miei.

Il pezzo di Alessandra Perini – su Loredana e Maria Teresa, dirigenti di Mag-2 – non mi ha invece lasciato bene.
Mio fratello è presente da anni in una cooperativa Mag-2, e quello che conosco dalle sue parole è un’esperienza sicuramente diversa da molto simbolico maschile e borghese: c’è lo sforzo di superare strutture (istituzionali e mentali) di potere fine a se stesso, comprensione e condivisione profonda delle diversità, intervento maturato in modo collettivo, valorizzazione del contributo personale, scelte concrete che non necessariamente obbediscono a mere logiche di profitto. Con tutti i limiti e le ricadute. Come ovunque.
Un luogo dove molti dei tradizionali valori maschili (dall’efficientismo alla strumentalità dell’individuo a un fine) vi sono radicalmente messi in discussione. Tutto questo, nel racconto di Alessandra, non c’è. Non ho scorto, nello sguardo di Loredana e Maria Teresa, un impegno nel capire l’altrui differenza, lo specifico che tali uomini praticavano; ma solo una normale vicenda di avvicendamento alla dirigenza. Con in più la triste fuga di ogni uomo, come se per loro quel posto fosse divenuto estraneo dopo anni di attività.
Non ho trovato una parola che descrivesse cosa pensassero e facessero in concreto questi uomini; anzi: viene attribuito loro un motivo solo materiale – non guadagnavano abbastanza… – al loro ritrarsi, quando probabilmente c’era altro. Mi è rimasta la curiosità su come sia davvero andata; e anche se la mia impressione dipenda solo da una narrazione troppo sintetica.

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