17 Gennaio 2014
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“Spezie…”

di Alessia Fortunato

 

Tirarmi fuori da sotto le lenzuola, certe mattine, diventa quasi impossibile. Il fiato corto e una sensazione di gelo nello stomaco m’impediscono anche soltanto di tirarmi su a sedere. Penso all’acqua fredda e salata che mi riempiva la bocca e il naso impedendomi di respirare, che mi investiva a ritmo regolare senza darmi tregua. Le urla disperate di chi, come me, lottava per tener cara la pelle in quella situazione di paradossale, grottesca comicità. Duecento naufraghi che, in preda al panico, affogano in due metri d’acqua dopo uno spiaggiamento. Arrivare fin lì era già stato inumano e spaventoso, ma nel momento in cui tutto sembrava superato, quando finalmente un senso di gioia si stava impossessando di noi, era accaduto l’impensabile. Non c’è scampo a questi pensieri quando decidono di riemergere. Lo fanno con una violenza tale da stordirmi. Fissare attonita il soffitto di casa non mi impedisce comunque di sentirmi in tutt’altro luogo, lontano, avverso, terribile. Sento le preghiere di chi vuole rimanere a galla e non ce la fa, le urla rabbiose di chi, disperato, non trova appiglio a nulla, se non a discapito di chi gli sta intorno, aggrappandosi a spalle, braccia o tenendo giù la testa a qualcuno per permettersi il lusso di una boccata d’aria in più. Partiti dalle coste dell’Africa avevamo abbandonato la nostra terra, i nostri risparmi e la nostra dignità; ma qui, in mezzo al mare, abbiamo perso ogni briciolo di umanità, siamo diventati bestie feroci capaci di tutto pur di sopravvivere. Io ho graffiato, morso, inveito e bestemmiato; e ogni volta che accadeva avevo paura di me e di quello in cui il mare mi stava trasformando. Vivo a Milano da otto anni ormai, ma questo non mi impedisce di ricordare quel momento come se fosse ieri, ma no, che dico, come se fosse ora, qui, adesso. Ce l’avevano detto che sarebbe stato pericoloso, ma anche che ne valeva la pena. L’Italia era la nostra speranza, la possibilità di un futuro degno delle nostre anime. Scappavamo dalla guerra civile, dalle persecuzioni dovute alla maledetta religione, la maledetta fede che non unisce né genera fratellanze, ma solo vittime. Io ero una di quelle. Non potevo più lavorare, non potevo più vivere, dovevo nascondermi, nasconderci. Si, perché Shaadiya aveva solo sei anni e dopo che mio marito era stato ucciso da chi pretendeva di addomesticarci in nome di un altro credo, io e lei eravamo un corpo solo, un’anima disperata in cerca di libertà. Dopo mesi di rappresaglie e attentati, con la nostra città ridotta a un pallido ricordo di ciò che era un tempo, ho trovato posto su di una imbarcazione diretta verso le coste della Sicilia. Shaadiya mi sussurrava, la notte, prima di addormentarsi, che Parigi sarebbe stato il posto perfetto dove continuare il mio lavoro, che sarei diventata famosa anche lì. Se non fosse stato per lei mi sarei lasciata morire. Quando è morta ho dovuto decidere di vivere. Ho dovuto decidere di riscattarmi, di rimettere insieme quel che rimaneva della mia vita, di ciò che avanzava di me dopo che il mare mi aveva risputata fuori, dopo avermi tolto l’ultimo pezzo di carne che faceva di me un essere umano.

A un certo punto, non so dire bene quando, in mezzo a quelle braccia che boccheggiavano, premuta al corpo della mia bambina morta, io ho sentito un profumo. Ho sentito l’aroma speziato di maqluba: pollo, riso, melanzane, cavolfiore, sentivo ogni singola fragranza di quella prelibatezza, ingrediente per ingrediente. Mi riportava a casa, al caldo, tra le mura domestiche, dove mi dilettavo a preparare piatti di ogni sorta per esercitarmi e diventare sempre più competente. La mia bambina diceva che non ne avevo bisogno, che ero la chef più brava di tutta la Tunisia. E lei sapeva riconoscere un buon piatto. Quell’odore è stato come uno schiaffo in pieno viso, un risveglio dalla sopraffazione che mi stava dominando, dal mio desiderio di abbandonarmi all’abbraccio salmastro del mare e sprofondare giù con lei stretta al cuore. La motovedetta di stanza a Lampedusa, che ci venne a recuperare, arrivò in quel momento. Uno degli uomini di bordo mi issò sul ponte quasi con compassione, sapeva di dopobarba e sale. Mi guardò tenere tra le braccia Shaadiya e, capendo che non me la sarei lasciata togliere, ci coprì con una coperta di lana spessa e accogliente. Fu mentre raggiungemmo il porto che maturai la decisione di fare dell’Italia l’ultima tappa della mia fuga, non c’era più spazio dentro di me per i voli pindarici fatti sotto le coperte, che piano piano erano diventati quasi una realtà, una possibilità poi non così tanto campata per aria. Sentivo il bisogno di dovermi punire per averci creduto troppo, per aver tentato di illudermi che potevo fare ed avere di più per me e per la mia bambina. Nel mio paese lavoravo per rinomati ristoranti e, quando davano feste di rilievo con menu ricercati, io facevo le prove a casa, con marito e figlia che si improvvisavano giudici esemplari, mai troppo teneri sapendo quanto ci tenessi a far bella figura. Quando iniziò la persecuzione mi dissero di abbandonare tutto. Avrei dovuto evitare di mostrarmi eccessivamente: ero fin troppo emancipata per essere una donna. Quando mi proposero l’Italia, e magari dopo la Francia, mi misero in guardia sul fatto che con ogni probabilità avrei dovuto rinunciare al mio lavoro di sempre, alla mia passione, all’attitudine che mi caratterizzava. Ma guardavo la mia bambina ed ero pronta a rinunciare a tutto per lei, qualsiasi cosa pur di darle un futuro degno di tale nome; e poi c’erano i nostri sogni, che ci bastavano. Non nel nostro paese però, non in quel momento tanto teso e controverso.

Nel centro di prima accoglienza a Lampedusa, dove sono stata portata, non pensavo ad altro che al cibo: spezie, carne, verdure, formaggi, frutta, noci, salse. Ripassavo a mente tutte le ricette che conoscevo, come un mantra. Non per fame, quella mi è passata nel momento in cui Shaadiya ha smesso di respirare, ma perché potessero tenermi aggrappata a quel briciolo di sanità mentale che mi impediva di urlare e strapparmi i capelli per la disperazione. Il mantra serviva a rimescolare ricordi di piacevole intensità per lenire le ferite che avevo dentro. Dopo un po’ ho iniziato a sentire il bisogno fisico di cucinare. Sognavo la notte di essere circondata dai miei utensili, sentivo in quei sogni la felicità d’un tempo, quella amara che non sarebbe mai ritornata, ma che mi faceva andare avanti lo stesso. La cucina del centro era triste e mal fornita, l‘andavo a sbirciare nelle notti in cui il sonno non arrivava a portarmi conforto; allora andavo là: toccavo i mestoli, le pentole, le fruste, le saliere, i pomelli del gas. Annusavo l’origano e il pepe, le uniche spezie contemplate lì dentro. Un giorno mi feci coraggio e mi presentai alla porta della cucina chiedendo ai volontari di permettermi di dare una mano ai fornelli. Capirono, forse dal mio sguardo, che non era voglia di rendermi utile, ma necessità. Fu un toccasana, un accenno di paradiso, il mio, personale.

Mangiavo come un’ uccellino ma sognavo piatti faraonici. L’appetito era affogato nel Mediterraneo e non dava segni di voler tornare. Ma mi stava bene così. Avevo bisogno di cibare l’anima, non il corpo.

Quando, mesi dopo, ci consegnarono i nostri documenti da rifugiati politici, dopo aver valutato con estenuante minuzia ogni nostra singola situazione, partii alla volta di Milano. Avevo una lontana cugina che mi avrebbe temporaneamente ospitato. Temporaneamente per me, non per lei, che mi avrebbe anche tenuta per sempre tra le sue mura; io avevo bisogno di solitudine, di metabolizzare, di ricominciare a vivere senza nessuno che mi sostenesse. Pensare al cibo mi aiutava a farlo.

Dopo due anni dalla morte di Shaadiya io avevo già un lavoro e un buco da chiamare casa, che mi permettevano di respirare autonomamente. Da allora, lavoro in una mensa scolastica, dove gli odori del cibo non possono chiamarsi profumi, ma sono almeno qualcosa. A casa non cucino liberamente il ricettario che ho in testa perché so cosa dicono gli italiani degli stranieri, che esagerano nelle spezie, che contaminano scale e androni dei palazzi, che insozzano i vestiti lasciati ad asciugare. Le ripasso mentalmente, a volte sono un chiacchierare continuo al di sotto del rumore dei pensieri, non mi lasciano mai. Quando mi sveglio, e il naufragio della nostra bagnarola mi assale, cerco disperatamente di aprire il ricettario e rifugiarmi tra le sue pagine, ma nella maggior parte dei casi, non ci riesco: la sua copertina è pesante, spessa e, per me, ancora in balia delle onde, è uno sforzo sovrumano riuscire ad aprirla.

Quando ho trovato la medicina a questo stato di attanagliante angoscia, nemmeno me ne sono resa conto.

Vicino casa mia c’è un parco, e, sentendo parlare delle mie colleghe, ho scoperto che al suo interno c’è un centro che si occupa di aggregazione multiculturale di quartiere. Ho pensato per mesi di andarci, ma ho trovato scuse a me stessa perché farlo avrebbe significato scoprirmi, dover interagire. Io in questi anni ho stretto legami, se tali si possono definire, solo superficiali: le mie colleghe, con cui scambio non più di quattro parole alla volta; la mia padrona di casa, al momento di pagarle l’affitto; i commercianti del quartiere e i vicini, a cui non nego mai un saluto e un sorriso. Mi sono mimetizzata, ho lavorato con abnegazione, dopo ogni turno sono tornata a rifugiarmi a casa, a leggere montagne di libri innamorandomi della letteratura di questo paese e imparando così l’italiano come mai avrei pensato di poter fare. Non l’ho imparato per usarlo, ma per capirlo, per capire cosa mugugna in metro il razzista di turno o la parola gentile dell’anziana che aiuti a scendere dall’autobus. Ma soprattutto per le ricette, quelle della tv, quelle che gli italiani amano tanto. ” Hai visto ieri la ricetta della Parodi? Massì, dai, quella con le zucchine” ” Le ricette della Clerici sono favolose, sto diventando bravissima seguendola ogni giorno” Ne sentivo molti di discorsi del genere e il mio italiano stentato non mi aiutava certo a comprendere meglio il significato. Da noi non ci sono le ricette in tv, da noi non c’è chi ti spiega come si cucina, da noi quello lo fanno le nonne e basta: morte quelle, puoi solo sperimentare. Così ho iniziato a seguire questi elogi via cavo alla cucina, perfezionando la mia dimestichezza nella preparazione di piatti italiani, cosa che mi ha fatto apportare delle migliorie anche alla mensa, spesso insipida e dai colori spenti. Cucinavo pietanze italiane per sopperire al mio desiderio di quelle arabe, anche se sotto pelle sentivo serpeggiare la frustrazione.

Ho preso coraggio il giorno che mi sono trovata tra le mani un volantino di quel centro, datomi da una collega di cui fino a quel punto avevo ignorato la sensibilità e lungimiranza nello scrutarmi, che invitava la popolazione del quartiere ad una cena solidale multietnica in cui tutti potevano portare qualcosa di cucinato a casa. Ci sarebbero stati anche dei bambini, figli di altri che avrebbero assaggiato qualcosa fatto da me, piccole manine che afferrano forchette o sprofondano direttamente nel piatto che hanno davanti, vivendo il cibo come solo loro sanno fare: in modo totalizzante. Avevo tre giorni di tempo per decidere cosa cucinare. Mi mi assalì una pazzesca febbre di adoperarmi ai fornelli, ero irrequieta ed emozionata. Il giorno prima della cena mi presi un permesso dal lavoro, mi svegliai all’alba e andai per mercati e negozi a scegliere tutto ciò che mi serviva, quei posti che sbirciavo solo da lontano con il dolore nel cuore e la voglia di entrarci. Quando l’ho fatto, in uno di quelli che mi appariva il più fornito, ho trattenuto a stento le lacrime dalla gioia. Annusavo il baharat, sentendone ogni sfumatura, toccavo le spezie colorate disposte sui vari banchi e le mie dita, a quel contatto, sussultavano di piacere e nostalgia. Contemplavo in estasi il ras al-hanut: ogni Attar, il tipico erborista arabo, possiede un suo dosaggio che custodisce con gelosia. Ho comprato ogni specialità della mia terra, quelle cose dai gusti indescrivibili e introvabili nella cucina italiana. Ho comprato ogni cosa che mi suscitasse emozione e che fosse necessario alle ricette della mia mente. Sono tornata a casa colma di squisitezze di ogni sorta, che avrebbero dato vita a piatti deliziosi e ricercati: la bamia, una verdura dalla forma di un piccolo zucchino; il burghul, che è grano cotto al vapore, essiccato e quindi macinato; il carvi, spezia molto usata nella cucina araba, che io mescolo con il coriandolo macinato, il peperoncino e l’aglio, componendo un preparato squisito che si chiama tabel; il cardamomo, la curcuma, lo jebne, un formaggio prelibato e cremoso; il laban, un latte acido sostituto di quello normale; il mâ e-zzahr, un distillato di fiori d’arancio per i dolci; la melokhiyya, simile nelle foglie agli spinaci ma si usa essiccata, come spezia.

Appoggiate le borse ho fatto l’ultima cosa importante che mi avrebbe messo in pace con me stessa: sono andata a ogni porta del mio palazzo a chiedere anticipatamente scusa per gli odori che avrebbero sentito, ma spiegando che proprio non ne potevo fare a meno. Ogni porta che si apriva, ogni viso che spuntava, sentivo il mio cuore riempirsi di emozioni strane e contrastanti; siamo pochi nel palazzo e i vicini mi hanno accolto con gentilezza e cortesia, cosa che ho trovato inaspettata dato il mio pregiudizio su di loro: me li immaginavo scorbutici e poco inclini ad avermi come abitante del palazzo. Sono stata accolta da frasi di incoraggiamento, di noncuranza verso quegli odori che ” Che saranno mai! Con tutto lo smog che respiriamo, sarà mica la sua cucina a ucciderci! ” ” Si, però poi vogliamo assaggiare qualcosa anche noi! “. Quando sono ritornata nel mio appartamento ero stordita, ubriaca di quel mondo la fuori che mi stupiva e che non mi era per nulla ostile. È la forza del cibo, direbbe mia nonna, donne che conoscono lo sforzo che si nasconde tra le pareti della cucina sanno di essere accomunate da un segreto.

Dopo aver iniziato a spacchettare gli acquisti fatti e a tirar fuori gli utensili la casa era tutta un’inebriante disordine di oggetti da cucina e profumi intensi. Il ricettario era aperto nella mia mente, avevo già selezionato i piatti da preparare, in ordine di portata, con ogni ingrediente posto in una lista di priorità di utilizzo. Avrei fatto delle piccole porzioni di ogni piatto, preludio delle portate vere e proprie che avrei preparato il giorno dopo, e le avrei fatte assaggiare alla mia dirimpettaia, una trentenne sola e dall’aria trasognata che era scoppiata in una dolcissima risata sonora di fronte alle mie maldestre e paradossali scuse. Iniziare è stato come fare un salto nel passato, in quel passato che rivivo solo nei sogni, mi sono immersa negli odori e nelle padelle fino a riemergerci soddisfatta ed emozionata. Solo io so quanto sarebbe stato bello girarmi e trovare i miei due amori, lì, al di là del tavolo, ad aspettare con l’acquolina in bocca di assaggiare ogni portata. Ma la faccia stupita e deliziata della mia dirimpettaia mentre mangiava e tra un boccone e l’altro mi riempiva di parole d’ammirazione, mi ha reso più sopportabile e più dolce il ricordo di ciò che è stata la mia vita precedente.

Quella notte non chiusi occhio, ero eccitata all’idea di quella cena e al tempo stesso atterrita, ma non mi sentivo così viva da tantissimo tempo, e questo mi bastava. Al mattino l’alba mi trovò già ai fornelli, impaziente di mettermi al lavoro. Avevo casa nel cuore e il presente negli occhi. Un presente che mi stava dando una possibilità di esprimermi, di manifestare il mio amore sconfinato per il cibo, signore conviviale di ogni incontro umano, anche se fosse stato solo per qualche ora. Quando alla sera arrivai al centro, aiutata dalla mia vicina del piano di sopra munita di macchina e di inaspettata disponibilità, a cui avevo fatto assaggiare, in pegno, un fatayer ancora caldo e invitante, mi accolsero esclamazioni di stupore per la quantità di cibo che avevo portato, per i profumi intensi ed esotici che si sprigionavano nell’aria primaverile. Ringraziavo imbarazzata e rispondevo alle mille domande delle ragazze che avevano organizzato la cena, mi contagiarono con il loro entusiasmo e la curiosità che dimostravano nei miei confronti. Mi chiesero di aiutarle negli ultimi preparativi di allestimento della sala adibita per la cena e mi presentarono ad ogni partecipante che via via entrava chiedendo da dove provenissero profumi tanto inebrianti.

La cena fu un sogno, un’emozione indescrivibile, i miei piatti furono divorati, i bambini erano in solluchero per i dolci al miele e mandorle, e mi ronzavano intorno facendomi domande e mandandomi in visibilio. Una donna tunisina mi si avvicinò e mi abbracciò stretta stretta, piangeva, e mi disse che da quando aveva lasciato la sua terra non aveva più assaggiato nulla di simile, nonostante fossi più giovane di lei, mi disse che le ricordavo sua nonna, che le ricordavo casa.

Al momento di riordinare ogni cosa, una delle responsabili del centro mi chiese di lasciarle il mio numero perché pensava di avere una proposta da farmi.

E me la fece.

Insegno ogni mercoledì cucina tunisina a chiunque voglia imparare, ho una mia aula nella struttura al centro del parco, vengono i miei conterranei che vogliono rispolverare le vecchie tradizioni o vogliono mantenere i propri ristoranti sempre curati nei particolari della preparazione, vengono stranieri di altri paesi a cui interessa conoscere i segreti di noi arabi, alchimisti delle spezie, e gli italiani, tanti, tante, che vogliono sperimentare, abbracciare una cultura che vivono quotidianamente a Milano, quasi a volerla comprendere, condividere. Questa è la mia medicina, questo il mio riscatto. Aprirmi alla comunità che mi circonda mi infonde gioia e calore. Mi sento amata e rispettata. Ma soprattutto posso esprimermi e ritornare ad amare la vita.

Io non sogno più il mare ingordo e funesto, ma sogno tanto la mia Shaadiya, le dedico ogni piatto che cucino, ogni chicco di grano, ogni spezia con cui mi sporco le mani.

 

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