27 Novembre 2007

Nutrirsi di fiducia per fermare la violenza contro le donne

Intervento che sarà pubblicato su Noi donne di gennaio 2008
Giovana Providenti

Osare amare se stesse e pronunciarsi ‘per’ invece che ‘contro’ sono le prime regole di un efficace decalogo di autodifesa contro la violenza alle donne, come dimostra il personaggio di Modesta.

l 25 novembre è stata la “giornata internazionale per l’eliminazione di tutte le forme di violenza contro le donne”: nel 1999 l’ONU, accogliendo una richiesta dei movimenti femministi, ha deliberato questa data in memoria di tre attiviste politiche della Repubblica Dominicana, le sorelle Mirabal, che nel 1960 sono state seviziate e assassinate dai militari mentre si recavano a far visita ai loro mariti, in carcere per motivi politici.
In Italia questa giornata è stata ricordata con molte iniziative. Peccato però che in molti casi, già dal titolo, si sia trascurato il “per” e il “tutte le forme di violenza”, limitandosi a dichiararsi “contro la violenza alle donne”, talvolta specificando “contro la violenza maschile”, come nel caso della manifestazione di Roma. Anche io mi sento impegnata in prima persona nella battaglia culturale rivolta a “un nuovo patto di convivenza tra uomini e donne che tanto gioverebbe alla parola civiltà” (cito dall’appello), e credo che alla base di molta violenza vi siano misoginismo e maschilismo. Ma non condivido alcun tipo di semplificazione e non definirei il grave dramma di tante donne un “conflitto di genere” attribuibile solo all’aggressività e alla “violenza maschile”.
A chi si rivolge e verso quale direzione ci porta proporre la violenza contro le donne in questi termini? È così che vogliamo contribuire a diminuire la rabbia e la paura alla base della maggior parte dei conflitti domestici (e non) causa di molte morti femminili?
La rappresentazione della donna indifesa e vittima di un uomo dominatore, o arrabbiata contro il maschio cattivo, rischia di diventare un facile strumento nelle mani del simbolico patriarcale sempre pronto a rinnovarsi. Eccola la debole, la pazza che reagisce alle torture subite in maniera inconsulta! Un secolo fa era internata in manicomi o sottoposta ad elettroshock, e oggi mette in piazza la rabbia!
E se invece di cercare colpevoli provassimo a comprendere più profondamente le ragioni della violenza? Se smettessimo di attribuire a qualcun altro il tracciato della nostre vite? Se ci assumessimo la nostra parte di responsabilità? Se provassimo ad essere libere?
La libertà femminile non parte da una reazione istintiva, ma da una profonda ricerca che alla critica della società patriarcale accosta una personale e radicale indagine interiore. Per Carla Lonzi la prima oppressione da sconfiggere è quella radicata in ogni singola donna. Virginia Woolf in “Le tre ghinee” invita a “pensare e pensare” e a scoprire le nostre “oscure emozioni”: “perché quella paura e quella rabbia impediscono una vera libertà tra le pareti domestiche… e possono impedire una vera libertà nel mondo della vita pubbica: possono contribuire concretamente a provocare le guerre”.
La causa della violenza contro le donne non è l’aggressività maschile, ma una serie di concause secolari (da sempre le donne muoiono per la disgrazia di stare dalla parte “sbagliata”, la novità è che finalmente se ne parla) di cui anche le donne sono state complici; ma oggi possono non esserlo più. Mancanza di autentica libertà, condizionamenti sociali, privazioni (materiali, culturali e spirituali), complessi processi psichici, e molta sofferenza, sia femminile che maschile, sono le cause della violenza, che scatta perché non si è in grado di gestire il conflitto, né di assumersene la responsabilità.
La violenza è una relazione, non ha un responsabile soltanto: e questa è una buona notizia perché significa che ciascuna di noi può fare qualcosa ‘per’ eliminare la violenza contro le donne.
Anche io che scrivo e racconto di donne, scegliendo di rappresentarle in un modo o nell’altro, posso contribuire a fermarla, comunicando fiducia e potenzialità piuttosto che rabbia e paura.
Noi siamo fatte di ciò con cui ci nutriamo: se non vogliamo finire schiacciate dalle oscure emozioni suscitate da descrizioni di stupri e assassini vari, anche particolareggiate, propostici da trasmissioni televisive e pagine di giornali, serve un contrappasso. Oltre a denunciare ciò che le donne subiscono a causa del perpetuarsi del patriarcato, è necessario documentare storie di donne che, avendo scelto di prendere in mano la propria vita, riescono ad emergere da terribili storie di oppressione e a gestire complessi conflitti, divenendo protagoniste di trasformazione culturale.
Regalando un libro ad un’amica posso contribuire a fermare la violenza contro le donne. Scegliere, ad esempio, il recente libro in cui Lilli Gruber testimonia “la rivoluzione pacifica delle donne musulmane”, invece delle molte autobiografie (talvolta pilotate) di donne prima vittime della società patriarcale in cui sono nate e poi “liberate” in quest’altra parte del mondo. Oppure di nuovo vittime della nostra doppia morale o della nostra finta libertà.
Se provassimo a spostare l’ottica riduzionista patriarcale, nutrendoci di simbolici meno opprimenti? Se provassimo ad attraversare paradossi e contraddizioni, cercando saperi più articolati, sia maschili che femminili, a partire dalle “narrazioni” di cui ci nutriamo?
La storia di Modesta, la protagonista del romanzo L’Arte della gioia di Goliarda Sapienza, è l’esempio di un tipo di narrazione che, osando attraversare in profondità la “disgrazia delle donne”, va in tutt’altra direzione rispetto al simbolico femminile della cultura patriarcale.
Modesta conosce bene il “destino coatto” delle donne: il loro cadere vittime della propria dipendenza affettiva, del senso di vergogna, della depressione, della paura di rimanere sola, come da quella di essere “squartata” dalla violenza maschile. Quando viene violentata dal padre sa capire che il proprio corpo sessuato e il proprio piacere erano tutt’altra cosa da “quella lama fra le cosce tremanti” che “affondava nel sangue per dividere, separare”. Per questo non rimane “lì sulle tavole del letto, a pezzi”, come pure “sarebbe rimasta”. Non va nemmeno a rifugiarsi nello stanzino dove sono nascoste la madre e la sorella, pur subendo l’attrazione di questo tipo di destino. Preso il lume con cui non riesce a svegliare le due donne addormentate lascia che tutto bruci, senza più desiderare l’aiuto del suo uomo: “questa volta lui non era lì, e io anche a costo di morire dalla paura per quelle fiamme per quel fumo che quasi mi strozzava, non avrei chiamato aiuto, né gridato”.
Salvatasi dalla violenza maschile Modesta però finisce nella brace della violenza femminile, l’oppessione psicologica che la donna si autoinfligge, rappresentata simbolicamente dalle cure premurose di una madre-badessa, che, pur aiutandola ad elevarsi culturalmente, la spinge a trascendere il corpo e ad abnegarsi in nome di un ideale-dio, rubandole la gioia di essere viva.
Ma lei è una bambina curiosa che fa molte domande e studia le persone come si studia la matematica, la musica e la grammatica, e impara sulla propria pelle a liberarsi anche da questa subdola forma di oppressione, e a non ricadere in alcun tipo di riduzionismo e/o dogma che “nasconde la paura della ricerca, della sperimentazione, della scoperta, della fluidità della vita”.
Modesta, nata in una famiglia poverissima e in un contesto sociale molto degradato, finisce col trovare in se stessa le risorse ‘per’ non subire più violenza. Già donna matura, e in crisi per le continue delusioni-contraddizioni che la vita le pone, succede che un uomo la aggredisce per gelosia. Lei, guardando allo specchio la sua ferita, si accorge di avere “cercato la morte affrontando Mattia quella notte”, e capisce che è sua la responsabilità di abbandonare le pulsioni autodistruttive e di amare se stessa: “Rinasce Modesta partorita dal suo corpo, sradicata da quella di prima che tutto voleva, e il dubbio di sé e degli altri non sapeva sostenere. Rinasce nella coscienza d’essere sola”.

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