10 Settembre 2015
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Fare comunità

Contributo a cura di Eredibibliotecadonne

 

Il testo prende forma a seguito delle riflessioni e delle elaborazioni sui guadagni e sugli scacchi registrati nei primi quattro anni di vita di Eredibiliotecadonne. Circa un anno di appassionato lavoro grazie al quale le Eredi hanno capito e ritrovato il senso del loro stare insieme e ritengono di aver altresì dato forma a pensieri meritevoli di essere offerti all’attenzione e al dibattito di quante/i scommettono nella capacità di trasformazione delle relazioni tra donne.

 

Perché COMUNITÀ?

Non per adesione alle teorie comunitarie, delle quali mutuiamo la critica all’individualismo di stampo liberale, ma rifiutiamo l’idea del collante identitario che viene di norma posto a fondamento di una comunità (nazione, religione, ideologia, ecc.); l’appartenenza al sesso femminile non è un’identità ma costituisce il nostro ‘essere umane’ e riteniamo inoltre che il femminismo della differenza cui ciriferiamo non sia un’ideologia ma un insieme di pratiche e di idee ancora ben vive e in divenire. Non ci siamo definite comunità in riferimento ad una tradizione femminile; non mancano certamente precedenti nella nostra come in altre civiltà, ma non abbiamo a disposizione (almeno non ne siamo a conoscenza) apporti di studi antropologici, etnografici e storici tali da farci pensare ad aspetti anacronistici che indichino un ‘essere in comune’ delle donne insito nel nostro DNA culturale. Non è neppure nostra intenzione imitare altre esperienze di comunità femminili contemporanee che, anche quando ispirate al femminismo radicale, presentano caratteristiche dissimili e portano avanti pratiche diverse dalle nostre: la loro ragion d’essere consiste di norma in un singolo e ben definito interesse/desiderio comune e sulla base di questo si rapportano con la realtà esterna; noi invece scommettiamo sul portare avanti più interessi emergenti dall’interazione tra i nostri comuni desideri e il contesto sociale, facendo della pluralità la nostra ricchezza senza divenire un semplice contenitore. Il nome di comunità non è stato scelto per una mera esigenza di pensiero né per vezzo intellettuale, ma ha preso orma nel vivo di un’esperienza collettiva: il lavoro svolto intorno alla figura di Ipazia nel 2010 e 2011, con la ricerca e il confronto sulle testimonianze prima, la scrittura di ‘Ricomporre Ipazia’ poi e infine con l’attività promozionale del libro. In quel periodo ognuna di noi è stata protagonista di un irreversibile processo di crescita individuale concomitante e connesso con la trasformazione delle relazioni tra di noi e dei rapporti con l’esterno; è infatti successo che individue con ‘identità’ e background assai differenti, unite dall’interesse per la filosofa alessandrina, mettendo in comune i propri talenti, hanno dato vita a qualcosa che è andato al di là delle previsioni e persino del loro desiderio originario. Possiamo dire che il sentirci comunità è stato l’imprevisto della nostra esperienza e non l’adattamento di un modello alla nostra pratica politica.

 

Il COMUNE della comunità

La nostra interpretazione prende qui le distanza sia dal collettivismo che dall’individualismo e fa riferimento seppure con qualche peculiaritàalla politica delle relazioni che è al centro delle pratiche del femminismo della differenza. Il comune è costituito dall’insieme degli apporti (competenze, talenti, risorse, ecc.) individuali che ciascuna mette a disposizione come dal prodotto del lavoro e dell’elaborazione collettivi che si genera grazie alle relazioni tra singole o tra tutte e anche dai contributi che derivano dai rapporti e dalle collaborazioni con soggetti esterni.

Tutti gli apporti però, in virtù della disparità che è posta alla base delle relazioni, anziché sommarsi semplicemente, si moltiplicano; il contributo di ognuna nel momento in cui viene accolto e riconosciuto dalle altre pone le condizioni per la creazione di nuovo sapere e avvia una dinamica di crescita e di arricchimento di tutte, in virtù della quale risulta moltiplicato il ‘capitale comune’ e di conseguenza anche il ‘valore’ della comunità. La disparità consente a ciascuna di partecipare al comune conservando ed anzi valorizzando la sua singolarità, poiché non la costringe a misurare il suo apporto ad un parametro precostituito ed ugualizzante, ma le richiede invece di immetterlo e giocarlo tutto intero nel circolo virtuoso del meglio. Le dinamiche di autorità che emergono dall’azione della disparità sono di mera natura relazionale e pertanto non soggette al rischio di esaurirsi in atteggiamenti di autosufficienza individuale, e inoltre, dal momento che colei che è investita di autorità sente l’obbligo di restituire aumentati il credito e la fiducia ricevuta, tali dinamiche divengono esse stesse generatrici di crescita e di valore per la comunità.

 

Il METODO IPAZIA

Il modo di essere della comunità non può non derivare dal contesto che le ha dato origine. Il contesto come abbiamo già detto risale al lavoro creativo sulla figura di Ipazia, che rappresenta tuttora il paradigma dell’azione politica efficace, ovvero di una pratica di trasformazione di sé che trova rispondenza nella realtà esterna (il maximum della politica). Ma come e perché è successo che mentre tra di noi si stringeva una relazione che aveva forza generativa l’esterno mandasse segnali di accoglimento dei nostri stimoli e ci invitasse a proseguire nell’opera intrapresa? La risposta che abbiamo trovato sta nella dinamica relazionale che siamo riuscite ad attivare tra di noi e intorno a noi in quell’occasione; una di noi l’ha nominata qualche tempo dopo Metodo Ipazia, significando che l’archetipo della filosofa ha in qualche modo ispirato la nostra pratica con il suo insegnamento mettendoci in grado di trarre imprevisti guadagni dal suo esempio.

Tale metodo richiede che colei (colui)che in qualsivoglia contesto è investita di autorità ha l’obbligo di esercitare la funzione magistrale e di ‘esigere’ con sapienza ed amorevolezza la crescita di coloro che sono con lei in relazione; il metodo prevede altresì che colei (colui) che si trova a beneficiare dell’azione magistrale deve accettare il percorso di crescita non avendo timore di farsi attraversare dal dubbio e abbandonare certezze e deve saper prendere forza dalla ‘maestra’, per guadagnare a sua volta riconoscimento di autorità nello stesso e in altri contesti.

 

L’AFFIDAMENTO

Il Metodo Ipazia per essere efficace necessita di un tessuto di relazioni capaci di orientare alla valorizzazione della disparità e di determinare le condizioni affinché nel gioco del più e del meno si punti sempre al più e l’agire comune non discenda dalla media delle opinioni ma risulti dalla selezione del meglio. La trama di questo tessuto è data dalla pratica dell’affidamento. Ci si affida a chi detiene il dipiù che ci occorre per realizzare un progetto oppure a colei che ci rafforza nell’affrontare i rapporti sociali come anche quando si sceglie la mediazione femminile per affermarsi nel mondo.

Affidarsi comporta la decisione di prendere misura dalle donne, da nostra madre come dalle altre cui riconosciamo autorità e competenza, da quelle cui siamo legate da relazione politica. L’affidamento presuppone la doppia figura dell’affidante e dell’affidataria, colei che dà e colei che riceve l’affidamento; non funziona in modo univoco ma comporta differenti piani di reciprocità che vanno dichiarati e resi espliciti, nel senso che deve essere chiaro quale guadagno ogni parte trae dalla relazione. Come Eredibibliotecadonne abbiamo scelto di praticare l’affidamento nelle relazioni interne come nelle collaborazioni esterne poiché abbiamo sperimentato che se si prescinde da tale pratica non si attiva il circolo virtuoso dell’autorità e difficilmente l’azione politica risulta efficace e generatrice di nuova realtà e anzi molto facilmente si depotenzia la spinta innovativa e ci si involve nella ripetizione e nella conservazione dell’esistente.

 

Perché FARE e non essere comunità?

Innanzitutto perché, come abbiamo visto, non abbiamo a disposizione un modello pensato e prefissato di comunità femminile cui aderire o conformarsi, ma è un’idea in fieri che prende forma sulla base delle esperienze fatte e di quelle che faremo. Riteniamo poi importante evitare l’autodefinizione per non risultare fissate in un’identità, mentre sappiamo che la differenza femminile è un significante in movimento che non ‘vuole’ essere definito in uno stato o in un’essenza. Il fare indica invece un processo, il passaggio da uno stato all’altro, l’apertura al rapporto con le/gli altri, il desiderio di dar vita al nuovo e meglio esprime pertanto il senso del nostro stare insieme e del nostro guardare al mondo. Inoltre fare rende l’idea dell’incompletezza e della perfettibilità del progetto comune, lo lega ad un agire trasformativo della realtà e insieme delle stesse ragioni esistenziali della comunità. Infine perché avendo come Eredibibliotecadonne sperimentato che non basta definirsi comunità per esserlo davvero, preferiamo pensare piuttosto alla comunità come il prodotto di quello che saremo state capaci di fare insieme.

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