8 Febbraio 2014
contropiano.org

Fuori dalla Cgil, l’importanza della “prima volta”

di Franca Peroni

È la prima volta nella storia che due dirigenti nazionali della Cgil lasciano l’organizzazione per “andare a sinistra”, scegliendo il maggiore dei sindacati di base per proseguire una militanza che dura da una vita.

Ma questi sono tempi pieni di “prime volte”.

[…]

Le ragioni di una scelta certamente sofferta, complicata, meditata, non improvvisata, le abbiamo raccolte dalla voce si Franca Peroni, con una ragionamento che qui proviamo a sintetizzare.

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L’altro elemento fondamentale, quello che mi ha fatto capire che non ce la potevo più fare in Cgil, l’ho toccato con mano quando sono tornata a lavorare, “in produzione”, facendo la micro-contrattazione sul territorio[…]

Non ho mai pensato che il sistema delle “quote” potesse rappresentare l’interesse delle donne. Può aiutare nelle fasi più nere, e oggi siamo in una fase nerissima, ma non consentono di risolvere questo problema dell’assenza della voce delle donne nel sindacato in Parlamento.

Il problema è che le donne, ad un certo punto, hanno deciso di “fare altro”. Perché quando ti scontri quotidianamente – anche dentro le organizzazioni di sinistra – con un “pensiero unico”, e non c’è una valorizzazione della differenza di genere, una decide che fa altro, costruisce delle relazioni in altra maniera. È importante il ruolo delle donne nel mondo del lavoro perché purtroppo si tratta di un mondo molto sessista. Viaggia ancora sugli stereotipi. A livello di dirigenza il “tetto di cristallo” viene sfondato da pochissime donne di grande capacità. A livello intermedio hai una pletora di donna in gamba, ma quando sali al livello della dirigenza trovi soltanto uomini. E non è mica perché si sono perse per strada…

Serve il punto di vista delle donne perché c’è un altro approccio al lavoro di cura, riproduttivo (ovviamente), ma anche produttivo. Stare dentro la discussione sindacale con questi punti di vista di genere è necessario per dare risposte migliori a livello complessivo. Non ho mai creduto neppure nei “coordinamenti donne”, perché non ci posssono essere compagne che elaborano a parte una serie di cose e poi le “trasmettono” all’organizzazione. Ci deve essere una discussione con i compagni e le compagne su alcune priorità che devono essere di tutta l’organizzazione. Altrimenti rimani “la bandierina” messa sul tema.

È accaduto anche in Cgil, e penso che molto dipenda anche dal linguaggio. Credo che il linguaggio sessuato sia il punto di partenza per una alfabetizzazione in un tempo in cui tutto va a ritroso. Le conquiste femministe degli anni ’70 e successivi sembrano quasi scomparse, si è tornati agli stereotipi. Il fatto che la segretaria generale della Cgil si faccia chiamare “segretario” è per me motivo di sofferenza e di insofferenza al tempo stesso. Significa che neghi te stessa, il tuo genere, la tua soggettività. E questo si vede anche nella contrattazione. Quando tu cominci a porre dei limiti alla tutela sugli orari e i turni, tu stai pesando sulla quotidianità delle donne molto più di quanto non avvenga per gli uomini. Quando introduci delle riduzioni in materia di malattia, cura, assistenza, maternità, stai intaccando quella sfera dei diritti che le donne si erano faticosamente conquistate. Non ci può essere l’idea che certi diritti esistono quando l’economia va bene e si restringe quando invece va male. Certi paletti devono rimanere anche in periodi di estrema crisi. E questo manca, ora.

Dirigente CGIL della funzione pubblica e della Fiom

[…]

Nella Cgil ci sono migliaia di compagni che lavorano onestamente e provano a fare una battaglia dentro l’organizzazione- Ma è ormai una battaglia impari, E anche un po’ inutile, perché non consente di andare davanti ai lavoratori esponendo le opzioni di fondo. Le assemblee si svolgono in un’ora, non è stato distribuito il materiale, non si conoscono davvero le diverse posizioni.

E c’è rassegnazione. Quando sono tornata a lavorare nel pubblico, che è ancora un settore un po’ “protetto”, mi sono trovata davanti a un atteggiamento disperante: “a noi sono cinque anni che non ci rinnovano il contratto, ma in fondo noi abbiamo un lavoro”. Questo significa che i padroni hanno vinto culturalmente, “nella testa” della gente. E allora non puoi continuare ad andare avanti così. Bisogna cambiare strada.

 

(contropiano.org – 8 febbraio 2014)

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