6 Gennaio 2013

Carceri irakene e il ruolo di giovani donne coinvolte


Tiziana Plebani
Care amiche,
sono profondamente disgustata dalle realtà emerse dalle carceri irakene, compreso il ruolo di giovani donne coinvolte in queste atrocità (molto belli i due articoli di Dominijanni sul manifesto degli ultimi giorni) e mi chiedevo se era possibile organizzare un atto simbolico di riparazione, di pace e di dialogo con le comunità islamiche, prima di tutto locali. Certo le atrocità non sono fatte da noi, contrari alle guerre e a questa invasione, ma non riesco ad allontanare tutto questo orrore senza assumere una parte di responsabilità da occidentale, oltre che purtroppo, anche se “non in mio nome”, da paese a fianco degli USA.
E’ possibile pensare a un gesto più forte nel senso dell’amore? Chiedere scusa cercando di “disinnescare” la catena di violenza che questi gesti orrendi provocheranno?
Possiamo pensarci insieme?

Mariella Germanotta – Venezia

L’orrore della disumanizzazione nell’inferno di Abu Ghraib è il disprezzo come supremo gesto simbolico dell’annientamento di tutto ciò che fa il senso, il valore, la dignità dell’esistenza. Non è diverso dall’atto terroristico. Primo Levi nella “Tregua” ha coniato un nome efficace per questi fenomeni: “controcreazione”. E’ più che uccidere, ammesso che la nostra mente possa concepire qualcosa oltre l’assassinio. Eppure sì, lo concepisce. Lo concepisce intanto nelle parole che il disprezzo pronuncia prima della violenza fisica, e che la preparano: fin da subito, in parole di sangue, la controcreazione inizia ad agire. Anche questa, si sa, è azione simbolica che produce effetti materiali. Io provo orrore anche ad ascoltare parole, qui da noi, che grondano disprezzo verso gli immigrati, specialmente arabi. E’ alle parole di sangue che dobbiamo prima di tutto saper reagire, e che dobbiamo saper riconoscere con orecchio sicuro, con sensibilità pronta, senza minimizzare. Questo è il primo gesto: non tollerare i pronunciamenti del disprezzo.

Quanto a certe donne che fanno controcreazione, personalmente non vedo di che stupirsi, a meno che non si idealizzi “la donna” (astratta), idealizzazione che non mi offende meno dello svilimento del mio sesso, perché spesso nasconde un alibi o maschera una impotenza inconfessata. No, non mi stupisco che alcune donne siano capaci di controcreazione. Scelgono, e se ne devono assumere la piena responsabilità.

Penso che quanto è accaduto e continua ad accadere in Iraq e altrove sia troppo grave perché delle scuse o un risarcimento come atto riparatore possa bastare, benché necessario come minimo. Qualsiasi grandezza di un gesto “d’amore” sembra essere stata ingoiata essa stessa nel gorgo possente della controcreazione. Sono queste guerre, il terrorismo e i genocidi, le oscenità del nostro tempo che ci svergognano. Ci vorrebbe un gesto di forza pari all’enormità di quelli. “Amore” è parola troppo bella, ma anche troppo vaga e troppo usata. Ci vorrebbe un gesto di creazione, o rigenerazione, da opporre alla controcreazione. Penso che un gesto che vuole avere questa efficacia deve intanto affilare le parole, osservare bene, guardare anche dentro di sé, consapevole delle proprie tentazioni.

Di gesti simili ne vedo molti, granelli di senape ancora, ma concreti, da alimentare e valorizzare. Ciò che manca a questi granelli di senape, nella loro umiltà e piccolezza, è la stessa forza di “scandalo” che possa opporsi subito allo scandalo dell’orrore. Forse è questa la forza che si chiede perché si sente mancante? Il gesto di ri-creazione non fa scandalo, perciò i mass-media non se ne occupano, e quando se ne occupano lo depotenziano. Ci vuole un gesto sufficientemente radicale e scandaloso da essere capace di sottrarsi, in sé, al consumo della commozione consolatoria. Uno scandalo intrinseco, senza clamore. In caso contrario, meglio continuare a coltivare – al riparo dalla visibilità mediatica, dalle versioni “ufficiali” della realtà – i granelli di senape, che un giorno diventeranno alberi.

Su questo mi piacerebbe riflettere: sulla forza possibile.

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