12 Aprile 2015
la Repubblica

Quando insegnare ai bambini è un’avventura, basta parlarci

di Sara Ficocelli

21 novembre 2014

 

Non è un saggio per addetti ai lavori, né un libro che propone modelli o ricette per una qualche riforma scolastica. I bambini pensano grande. Cronaca di un’avventura pedagogica (2014, 264 p., Sellerio) del maestro Franco Lorenzoni, propone qualcosa di più prezioso: raccoglie i dialoghi intercorsi negli anni tra maestro e scolari sugli argomenti più disparati, dalla matematica alle scienze, all’arte e alla storia, ripercorrendo l’evolversi della cultura umana. Con l’obiettivo, nascosto in ogni lezione come un tesoro tutto da scoprire, di permettere agli alunni di formulare, intorno a questioni misteriose e complesse, un pensiero originale, tutto proprio.

 

Il libro è il frutto di un meticoloso lavoro di registrazione e trascrizione delle conversazioni fatte in classe con i bambini, e restituisce al lettore, come uno specchio, l’immagine di sé stesso da piccolo, o di sé nella veste di genitore, educatore, o semplicemente la figura di un adulto che guarda al mondo dell’infanzia, così semplice eppure così incomprensibile. È insomma un libro per tutti, che però non tutti potevano scrivere.

 

Lorenzoni infatti è un maestro speciale. Nel 1980 ha fondato con alcuni amici la casa-laboratorio di Cenci ad Amelia, in Umbria, un luogo di ricerca educativa ed artistica che si occupa di ecologia, intercultura e integrazione, da sempre è attivo nel Movimento di Cooperazione Educativa e ha partecipato a progetti di gemellaggio e cooperazione internazionale in Guatemala, Colombia e Brasile. Con Alexander Langer, alla fine degli anni ’80, ha curato la sezione educativa e artistica della Fiera delle Utopie Concrete di Città di Castello e negli anni ’90 ha dato vita, a Palermo, a una ricerca sull’oralità che ha coinvolto decine di scuole, intitolata «Arte del narrare, arte del convivere». Dal 1999 collabora con il Comune di Modena coordinando un gruppo di insegnanti per la diffusione del cerchio narrativo nelle scuole. Insomma, non c’è da meravigliarsi se il libro stupisce e commuove, collocandosi a metà strada tra l’ironico e il filosofico. Proprio come i bambini, che “pensano grande”. Ma cosa significa esattamente questa frase?

 

«Tutti i piccoli – spiega – hanno intuizioni spiazzanti e pensieri profondi perché incontrano molti aspetti del mondo per la prima volta e perché si pongono continuamente, con sincerità, domande aperte. Il problema è che i pensieri dei bambini sono volatili, non tornano mai indietro. Se non c’è qualcuno che li acchiappi, li trattenga e mostri loro quanto sono ricchi e importanti, si disperdono come la nebbia al mattino e non ne resta memoria. Nell’infanzia si ha scarsa consapevolezza del proprio pensare e una bambina o bambino non ascoltato perde fiducia nella propria capacità di pensare. Ed è in questo non ascolto che inizia il primo allontanamento dal desiderio di conoscenza.»

 

Lorenzoni ha iniziato a insegnare 36 anni fa a Roma, alla Magliana, e da subito la cosa che più lo ha appassionato è stata ascoltare il ragionare e “sragionare” dei bambini. «Riconoscevo nelle loro parole dette e scritte – racconta – una libertà e una sincerità che la maggior parte di noi adulti non ha. I bambini mescolano continuamente il percepire e l’immaginare, l’interno con l’esterno. Se noi, insegnanti o genitori, invece di stare tutto il tempo a pensare cosa manca ai bambini e cosa vorremmo insegnare loro, ci fermassimo a guardare con attenzione come giocano e ad ascoltare come riflettono sul mondo, penso si aprirebbe un dialogo molto ricco, perché abbiamo tanto da imparare da loro, molto più di quanto pensiamo. Ma per far tutto ciò dobbiamo smettere di sottrarre tempo all’infanzia, proporre meno cose e farle più lentamente».

L’arte dell’ascolto e del dialogo Lorenzoni l’ha appresa nel Movimento di Cooperazione Educativa, associazione in cui si condividono esperienze tra insegnanti, impegnati a costruire una scuola davvero aperta a tutti. Questa pratica di ricerca tra adulti lo ha così coinvolto da portarlo a fondare in Umbria, ad Amelia, la Casa-laboratorio di Cenci, un luogo di sperimentazione e ricerca educativa che anima e abita da 35 anni.

Ma in cosa il suo metodo educativo e pedagogico si distingue da quelli tradizionali? «Mi piacerebbe che imparassimo a guardare la scuola con un approccio antropologico – spiega – non dando nulla per scontato. Cosa succede lì dentro? Quali culture si confrontano? Quali energie mettono in campo i ragazzi e gli adulti che la abitano? Io penso che tra le tante culture che esistono al mondo ci sia anche la cultura infantile. Una cultura preziosa, vicina all’origine delle cose e capace di continuo stupore. È provvisoria, naturalmente, perché riguarda solo i primi anni della vita, ma rimane sopita in parti nascoste di noi per sempre, come ben sanno gli artisti che vi attingono di continuo. I bambini credono nei giochi che fanno e sanno credere e non credere a una cosa al tempo stesso, come accade per anni con la storia di Babbo Natale. Sono dunque maestri nella sospensione dell’incredulità, una delle attitudini che caratterizza noi umani, che è alla base dell’arte e della possibilità di godere dell’arte. I bambini sono, insomma, maestri troppe volte inascoltati. Il paradosso sta nel fatto che la sensibilità infantile viene spesso trattata con grande superficialità e poi, quando si è adulti e si sta male, la si vuol ritrovare sul lettino dello psicoanalista. Non sarebbe meglio dare spazio e respiro, attenzione e cura ai bambini… quando sono ancora bambini?»

Agli insegnanti di oggi Lorenzoni chiede uno sforzo per garantire una scuola abitata da adulti colti, curiosi, vogliosi di cercare e confrontarsi su ciò che accade nel mondo e riguardo a come vivono e pensano i più giovani. «Bambini e ragazzi – continua – hanno il diritto di incontrare docenti aperti, in ricerca, persuasi di ciò che fanno e capaci di mettersi in gioco, perché educare è un mestiere difficile, un mestiere artigiano che si affina con la pratica e si impara attraverso una collaborazione e una cooperazione continua tra insegnanti. Un mestiere che si fonda su poche risposte certe e molte domande aperte. Per questo penso che le scuole, per funzionare bene, dovrebbero essere anche luoghi di ricerca adulta, in cui, tra noi che insegniamo, sia possibile scambiare materiali, suggerimenti, suggestioni, metodi: i ferri del mestiere necessari per chi è chiamato ad affrontare ogni giorno sfide complesse. Se la scuola non ha l’ambizione di essere un po’ meglio della società che la circonda, cosa ci sta a fare?».

Lorenzoni ha l’abitudine, da sempre, di trascrivere le parole e le conversazioni che si svolgono in classe, per poi restituirle ai bambini. Si parla tanto, negli ultimi anni, di valutazione: un elemento importante dell’insegnare, che però sta diventando una vera e propria ossessione. Si ragiona invece poco intorno alla “restituzione”, elemento chiave nella relazione educativa. «Solo se noi insegnanti abbiamo la capacità di valorizzare ciò che fanno i bambini – spiega – e restituire la bellezza di ciò che scoprono, possiamo dar senso al percorso fatto insieme e riuscire ad appassionare e appassionarci tutti. Non è facile, ma è essenziale. Per questo cerco sempre di raccogliere le parole e scoperte dei bambini, realizzando di volta in volta piccoli libri autoprodotti».

Negli ultimi anni il maestro ha utilizzato anche una piccola telecamera per registrare attività e conversazioni, tanto che ne è nato un documentario intitolato Elementare, che è stato presentato al Festival del cinema di Roma. «Libri e video sono modi di dare dignità ai loro sforzi e di gioire insieme riguardando le ricerche realizzate. Nella quinta elementare di cui narro nel libro – continua – abbiamo trascorso cinque mesi a provare ad entrare nella Scuola di Atene, il famoso affresco di Raffaello. I bambini hanno scelto ciascuno un personaggio, lo hanno ridisegnato e ci abbiamo anche giocato con il teatro. L’idea chiave che ha guidato la ricerca la devo a Roberta Passoni, mia compagna e maestra anche lei, che negli anni ha elaborato strategie e manovre di avvicinamento per appassionare i bambini alla letteratura. Scambiando lettere con Pitagora, Eratostene, Platone, Archimede, che puntualmente rispondevano loro, i bambini hanno scoperto che potevano calcolare l’altezza del castello di Giove misurando le loro ombre, utilizzando il teorema raccontato per lettera da Talete, e sono arrivati a discutere del mito della caverna, il giorno che Platone lo ha spedito ad Ylenia. Al termine di questo lungo lavoro Marianna ha detto: “Raffaello ha fatto veri per metà tutti quei personaggi che abbiamo scelto, noi li abbiamo fatti veri per l’altra metà”. In questa frase credo ci sia il segreto di ogni relazione viva con la cultura e mi fa tornare alla mente ciò che diceva Montaigne, quando affermava che il discorso è metà di chi lo dice e metà di chi lo ascolta. Noi che insegniamo non dobbiamo mai pensarci padroni della parola, ma assumerci la responsabilità di dare ai ragazzi la possibilità di “fare vera l’altra metà” di ciò che incontrano nello studio. Altrimenti la scuola si trasforma in un museo di mummie, di cui i ragazzi non sanno che farsi. La cultura ha senso se può farci da specchio. Se crea in noi inquietudine e tensione. Arte e scienza, letteratura e matematica diventano nutrimento attraente se ci si può giocare e, in quel gioco, possiamo cercare noi stessi. Parlo di gioco, ma non è una cosa facile, perché conoscere richiede sforzi e fatica. Fatica che tuttavia si affronta se se ne intravede la bellezza, altrimenti si lascia perdere e purtroppo la scuola italiana è caratterizzata dai tassi di abbandono più alti d’Europa. La percentuale degli studenti maschi che si iscrivono all’università è vergognosa per un paese come il nostro e io credo che tutti noi insegnanti, dalla scuola dell’infanzia alle superiori, dovremmo domandarci con schiettezza quali responsabilità abbiamo in quella rinuncia a continuare a studiare.»

Riguardo al rapporto con i genitori Lorenzoni sostiene che coinvolgere le famiglie è molto importante «perché la scuola deve sempre avere l’ambizione di creare comunità. In un tempo caratterizzato da paure e diffidenze reciproche sempre più forti, fare comunità è un compito educativo essenziale e, poiché molto difficile da realizzare, dobbiamo costruire passo passo le condizioni affinché tutti vi possano partecipare. I bambini non sono più buoni di noi adulti. A volte sono capaci di cattiverie e discriminazioni anche violente, ma sono più capaci di “fare pace”, di andare oltre. Anche questo dovremmo imparare da loro.»

Al maestro capita spesso di girare per scuole in diverse regioni ed è colpito dalla quantità di sofferenza che gli insegnanti si trovano ad affrontare. Bambini abbandonati a se stessi, con storie familiari difficilissime, poveri economicamente, culturalmente, affettivamente, costretti a sopportare situazioni di cui non hanno alcuna responsabilità. «La scuola – afferma – se vuol essere “di tutti”, come afferma la Costituzione e ribadiscono con convinzione le Nuove Indicazioni del 2012, deve farsi carico di differenze e sofferenze e far sì che non si trasformino in discriminazione. È un compito difficilissimo. Richiede a noi docenti di esser preparati, non solo ad insegnare ma anche a dialogare e ascoltare, affrontando situazioni difficili con coraggio, con la capacità di cambiare strada e sperimentare territori sconosciuti. Al Ministro dell’Istruzione, se potessi, chiederei formazione, tanta formazione di qualità, a partire dalla valorizzazione di chi nella scuola si spende con impegno per migliorare la didattica e includere tutti. Ci sono tanti insegnanti capaci di prendersi cura e formare nuovi e vecchi docenti attraverso laboratori adulti, in cui si possa riflettere sulle difficoltà del mestiere. Ma bisogna dare alle scuole autonome finanziamenti cospicui. Chiederei poi di rivedere l’assurda proposta governativa di pagare un po’ di più il 66% di insegnanti togliendo gli scatti di anzianità al 33% dei colleghi ritenuti più scarsi. Tale misura trasformerebbe i collegi dei docenti in tante case del grande fratello, dove ci si guarderebbe con sospetto, per paura di essere nominati e poi esclusi dagli aumenti di anzianità. Sono d’accordo a pagare di più chi lavora di più, ma non a premiare il merito a costo zero. Quella proposta è stata concepita da qualcuno che non conosce la scuola e non comprende un dato elementare: solo favorendo la cooperazione tra gli insegnanti e dando strumenti e fondi per sostenere una comunità professionale articolata, capace di ripensare se stessa, con dirigenti formati soprattutto a questo scopo, possiamo sperare di costruire una scuola all’altezza dei difficili compiti che ha».


(la Repubblica, 21/11/2014)

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