1 Dicembre 2007

Stiamo tornando al vittimismo?

Introduzione di Luisa Muraro e trascrizione del dibattito

Incontro al Circolo della Rosa di Milano
sabato 1° dicembre 2007
(trascrizione di Clara Jourdan)

 

Introduce Luisa Muraro
Ma alle vittime dobbiamo rendere giustizia, onore e dignità

Il titolo, a parte il fatto che ha un punto di domanda, non vuole essere un giudizio sulla manifestazione di sabato scorso (24 novembre), è stato pensato e deciso prima. È nato, nella conversazione alla ricerca di un tema per la discussione, per effetto della campagna di stampa che ha preceduto e accompagnato la manifestazione (soprattutto preceduto), una campagna che ha teso a una rappresentazione enfatica e a mio giudizio anche un po’ ripetitiva di una condizione umana femminile che è quella della violenza patita e dei maltrattamenti. Ora, questa campagna di stampa aveva un’enfasi su questo aspetto delle cose – quell’enfasi tipica di chi sente che sta dalla parte del giusto, di dire la cosa giusta, bella e vera – e non aveva il contrappeso di un’interrogazione di uomini e di donne sulla società degli uomini, o sulla parte che hanno in tutto questo gli uomini sia come società, qualità di rapporti, sia come sessualità. Un interrogarsi che sembrava logico. Se è così terribile questo tipo di cose, e così diffuso, così esteso, sembrerebbe ovvio che ci si dica “ma allora chi siamo noi uomini, siamo dei mostri, cosa abbiamo dentro, come può essere che ci capiti questo dopo che siamo stati messi al mondo da un donna, trattati convenientemente e amati, cos’è che abbiamo che ci porta o porta una parte di noi non piccola a certe nefandezze?” e via e via… Questa interrogazione non c’è stata, e tutto sembrava essere di nuovo a carico delle donne, la faccenda messa sulle spalle delle donne, sia pure non per attaccarle: come vittime. Questa è la ragione che ha portato al titolo. Senza pregiudizio per quanto riguarda la manifestazione che è la cosa da cui partiremo qui.
Io volevo dire in due parole qual è il problema della questione del vittimismo, dell’enfasi portata sulle donne che sono vittime della prevaricazione, della violenza, del maltrattamento. Dov’è il problema? Ho ragionato su queste cose con Lia ma anche con quelle del sito della Libreria, facendo la selezione dei pezzi per il sito giovedì scorso. Dico l’idea che me ne sono fatta, ma naturalmente è il problema che ci poniamo qui, io porto solo degli elementi di una introduzione, non una impostazione della faccenda. Io vedo che in quel modo di parlare della violenza sulle donne c’è come un piano inclinato che tende – nelle condizioni che dicevo – a immiserire la politica della donne e a vanificare guadagni già ottenuti. A portare indietro verso una condizione umana femminile secondo la rappresentazione miserabilistica. Più o meno intenzionalmente. Quindi eliminando dal paesaggio, non dicendo o riducendo il guadagno di presenza e di protagonismo di donne nella società di oggi, portar via, erodere, corrodere, questo tipo di guadagno. D’altra parte – e questo è il problema – reagire a questo piano inclinato non è così semplice come può sembrare. Per esempio, è arrivato al sito un testo, che abbiamo accettato, di una donna di Roma che diceva “il tema mi interessa moltissimo, vi dò questo contributo,che apparirà su una rivista, Noi Donne, di gennaio prossimo”. Lì si vede bene qual è il rischio. Lei esalta la forza simbolica che si sprigiona dalla donna cosciente di sé, consapevole, protagonista, che non si lascia mettere i piedi in testa, che sa affermarsi, che sa il proprio desiderio, che è fedele al proprio desiderio ecc. e cita come modello la protagonista – Modesta si chiama, ma il nome è ironico – dell’Arte della gioia di Goliarda Sapienza. Questo testo che comincia con una forma che trovavo entusiasmante e accettabile, in una maniera impercettibile finiva quasi per avvicinarsi a quella cosa terribile, terribile, che può venire in mente… – ma proprio ci si arriva vicinissime e non bisogna sottovalutare il pericolo – di chi dice delle donne che sono vittime di violenza e di sopraffazione maschile: “Se l’è cercata”. Con la psicanalisi (da strapazzo) si arriva pure a dire “lo voleva anche”, si arriva perfino a questa perversione di interpretazione. È un piano inclinato che non ha soluzione di continuità, secondo me. Cioè si comincia a dire “una donna deve sapere” e via dicendo, e si arriva a quella cosa là, ed è difficile sapere in che punto fermarsi. Si arriva cioè vicino al disprezzo per le vittime. Il disprezzo per le vittime – qui mi ispiro a quello che insegna Simone Weil – è “naturale”. Metteteci pure le virgolette, ma il disprezzo per le vittime è naturale. Possiamo dire che è la nostra società, io non lo so. Se non sono bambine e bambini – nel qual caso invece ci nasce dentro una terribile indignazione – quando le vittime, i perdenti, le perdenti, le persone schiacciate sono persone adulte, in un certo senso fanno orrore, a me fanno anche un po’ paura, e facilmente si arriva al disprezzo. C’è in un libro interessante, Non più schiave – che vi raccomando anche di leggere, perché è una testimonianza coraggiosissima di lotta contro la prostituzione schiavistica di una suora, Rita Giaretta, che lavora a Caserta, un libro scritto dal vivo di una lotta di lei stessa e di queste donne che si sono tolte dalla strada dello sfruttamento schiavistico, immaginate le difficoltà… – una enfasi che mi dava fastidio. L’attribuivo al linguaggio religioso: in effetti il linguaggio religioso cristiano è pieno di enfasi quando ci sono queste bravissime persone che parlano dei poveri, degli esclusi, degli emarginati… Questa enfasi adesso ho capito che probabilmente è lo sforzo di vincere il disprezzo: nello sforzo si fa una specie di ipercorrettismo e allora si cominciano a dispiegare formule retoriche straordinarie.
Un ultimo pensiero. Si è detto che la lotta delle donne è importante che non vada a cadere sul piano inclinato del vittimismo, però delle vittime ci sono. Ci sono, esistono realmente, sono anche vicine a noi, sono anche tra noi, donne che hanno patito o che patiscono la sopraffazione e la violenza spesso proprio a causa che vogliono bene a qualcuno o hanno voluto bene a qualcuno o hanno cercato di voler bene, cioè per la ragione più nobile che ci possa essere, e che si sono trovate incastrate dentro la mente e i comportamenti e le patologie, e anche dentro una cultura, diciamolo pure. Allora, ragioniamo contro il vittimismo, ma alle vittime dobbiamo giustizia. E intendo giustizia nel senso grande della parola, che vuol dire anche onore e dignità.
Volevo infine ricordare che su questo percorso noi disponiamo già con frutti piuttosto evidenti, positivi e validi, del lavoro che è ormai di dieci e più anni delle case delle donne maltrattate – qui c’è Marisa Guarneri e altre – in Italia, in Europa e in altri paesi. Le case delle donne maltrattate hanno ottenuto finora più di un risultato, ma il grande risultato che io qui registro è che finalmente quello che le donne che lì lavoravano sapevano dal primo giorno è diventato senso comune. Sappiamo che la più parte della violenza patita da donne avviene tra le mura di casa, o comunque ad opera di uomini che sono vicini, con legami; la violenza occasionale, per strada, che è quella che riempie i giornali, esiste, ma la più parte è invece quell’altra forma di violenza, quella che cova nelle situazioni familiari. L’altro merito che io riconosco alle donne che hanno lavorato in quelle situazioni, oltre al coraggio personale, è che loro hanno saputo passo passo trasformare il rapporto di aiuto che c’era inizialmente in una relazione – più o meno, non posso valutare – politica, di pratica politica. E questo è fondamentale, importante perché naturalmente la politica delle donne non consiste nell’aiutare, nel risolvere con leggi ecc. Il lavoro politico delle donne ha come primo fondamentale traguardo la presa di coscienza della donna interessata: che sia lei a prendere la parola, che si esprima una libera soggettività femminile là dove c’era violenza, mutismo, silenzio, vergogna e mura che chiudevano.
Detto questo, si riparte per la riflessione dalla manifestazione che è stata fatta alla vigilia della giornata contro la violenza sulle donne, perché noi riflettiamo alla luce della manifestazione di sabato scorso. Non ignoriamo che c’è stata una grande manifestazione che aveva un certo tipo di discorso, di slogan, che ha avuto un certo tipo di svolgimento e che è stata commentata variamente come sapete.

INTERVENTI

Francesca Zambelli: Il giorno della manifestazione ero a casa e ho acceso la televisione su La7 che trasmetteva quello che andava succedendo a Roma, per cui ho visto tutto quello che ha suscitato i commenti più accesi. Parlo in particolare del fatto che alcune donne sono state costrette a lasciare la manifestazione e alcune altre sono state allontanate da una postazione televisiva. Alla fine del programma, ho sentito un senso di enorme gratitudine nei confronti di quelle donne che avevano fatto “saltare il banco”, cioè avevano impedito alle Pollastrini, alle ministre un po’ di destra un po’ di sinistra, di prendersi un immeritato protagonismo. Io so cosa vuol dire organizzare una manifestazione, so che chi la organizza fa tutte le sue mediazioni. Lì c’erano circa quattrocento soggetti politici – le case delle donne maltrattate, i collettivi dell’università, i collettivi femministi, i movimenti, l’Arcilesbica… – si era discusso fino a morire, uomini sì, uomini no, uomini in coda, uomini a destra, uomini a sinistra, alla fine la manifestazione aveva tre pregiudiziali: primo, nessun inciucio con chi ha voluto il family day e cioè quel movimento che dimentica, non sa, rimuove che la violenza maggiore le donne e i bambini la subiscono in famiglia, che si è connotata per una omofobia pazzesca e che ha voluto una legge indecente come la legge 40. Secondo: sulla pelle delle donne si sta chiedendo un pacchetto sicurezza vergognoso, perché parla degli immigrati contro le donne, e quindi si chiede un giro di vite su questa cosa. Terza e ultima pregiudiziale, non ci sarebbero state tribune offerte a relatrici, parlatrici, e la manifestazione avrebbe parlato da sé. Bene, alla fine – il clou della manifestazione si svolgeva in una certa piazza – c’era una postazione di La7 e si alternavano al microfono Barbara Pollastrini, Livia Turco e la Giovanna Melandri che era lì a parlare della violenza negli stadi (l’ho sentita io) e che ovviamente è stata costretta ad andare via. Io sono molto felice di questo, nel senso che dietro l’atteggiamento da cerbiatta di Giovanna Melandri è spuntato tutto l’armamentario politico-linguistico di un cinghiale… Che la Prestigiacomo, con o senza guardia del corpo, sia stata invitata ad andare da un’altra parte, mi sembra elementare.

Liliana Sacchi: Io non sono contenta che due donne che manifestavano a titolo personale, anche se con facce politicamente note, siano state espulse da una manifestazione delle donne per le donne. Io sono orgogliosamente di sinistra, ma ritengo che una donna di destra sulla quale si usi violenza abbia diritto come una donna di sinistra o di centro, non è meno grave. In quella manifestazione secondo me di tutte le donne, di qualsiasi schieramento – non è stato detto che era una manifestazione delle donne di sinistra – è stato fatto un atto che io non condivido assolutamente.
(Voci che protestano: partecipare al corteo è un conto, salire sul palco un altro.)

Marisa Guarneri: Io sono molto d’accordo con l’impostazione di Luisa e vorrei andare anche più a fondo. Quello che è successo prima della manifestazione a me interessa molto di più di quello che è successo dopo, perché questo è una logica conseguenza dell’impostazione politica che c’era dentro la manifestazione. Si doveva sapere, perché era scritto a chiarissime lettere: una manifestazione antirazzista, contro la violenza maschile, antifascista ecc., le parole d’ordine erano abbastanza chiare. Quello che ho visto venire avanti, che mi ha veramente preoccupato – e poi entrerò nel merito della rete dei centri – era intanto questo scandalo sui giornali, come se se ne fossero accorti adesso, il 23 novembre, che questi sono i numeri della violenza contro le donne. L’Istat è del 2006, quando sono usciti i dati non è successo niente, e comunque sono dati che noi diamo da vent’anni. D’accordo che l’Istat ha un’accoglienza sui media diversa, però sono dati che riconfermano cose dette da tantissimo tempo. Una dice: meno male… Ma questa cosa della violenza maschile… Io sono vent’anni che dico, insieme alle altre: violenza degli uomini contro le donne. Perché mi dà così fastidio questa sintesi che viene fuori? È vero che è violenza maschile, ma sentivo qualcosa che mi dava veramente fastidio, perché dividere un’altra volta in due, le donne vittime da una parte e tutti gli uomini violenti dall’altra, è una semplificazione che fa scomparire il soggetto che subisce violenza. Nel senso che non importa più se ha ragione, se ha torto, come sono andate le cose, che cosa si può fare per modificare la realtà, ma: di chi è la colpa. Questa cosa noi l’abbiamo incontrata nel 1986: tutto era visto in senso criminologico, le vittime da una parte, la legge dall’altra, in mezzo non c’era niente. Noi in mezzo ci abbiamo messo la relazione, e la pratica di relazione fra donne. Per cui questa semplificazione è una trappola, in cui sono caduti anche molti centri antiviolenza, e non è un caso, secondo me. Perché se non c’è pratica di relazione e alla fine è solo relazione d’aiuto, questo accade. Se la relazione d’aiuto è tra chi pensa di essere un gradino sopra e elargisce un aiuto, punto, e chi ne ha bisogno, è facile che la donna venga vista come soggetto debole, come complice. Mi ricordo il dibattito che abbiamo fatto qui, mesi fa, quando Luisa mi chiese: “Com’è che avete risolto il problema della complicità?” e io sono rimasta un po’ lì, sono andata sul tecnico… Poi pensandoci, però, effettivamente è questa la questione: se la violenza viene vista come fenomeno e non come esperienza di una vita, e gli uomini vengono visti in blocco come responsabili, come dire?, chi se frega dei cambiamenti, ci siamo risolti il problema. E questa secondo me è la cosa che proprio mi ha dato fastidio, anche perché nel nostro dibattito, non solo nel femminismo ma anche nella rete dei centri, siamo andate molto ma molto più avanti, sia rispetto a cosa vivono le donne quando si trovano in una situazione di violenza sia a come si possono accogliere sia a quali prospettive ci sono per uscire da questo. Allora, poter dire che ci sono e che sono importanti figure maschili positive nel percorso di uscita dalla violenza, non è un passaggio semplice. Anche se lo ritengo acquisito, perché stiamo vedendo che accade, che molti uomini vengono in associazione a chiedere aiuto per le persone a loro care e che anche da parte nostra non c’è più la preoccupazione che il luogo sia asetticamente solo femminile. È necessario ancora che il primo impatto dell’accoglienza sia fra donne e che il percorso venga vissuto fra donne, ma non in un luogo asettico, neutro, di separatismo totale. La cosa più semplice è dire che per i bambini che assistono alla violenza avere figure maschili positive è salvifico, perché se no l’unico modello maschile è quello negativo. Ma anche per le donne, perché comunque si articola la questione.
Un’acquisizione dell’oggi su cui mi vorrei confrontare. A me sembra di avere trovato una sorta di via d’uscita in questo senso: noi stiamo lavorando – abbiamo anche cambiato il modo di fare i colloqui con le donne – sulla percezione del rischio. Quindi non soltanto accogliere il sentimento, l’emotività, la sofferenza, e fare un progetto insieme per uscirne, ma dare strumenti perché le donne si rendano conto di quando la situazione effettivamente arriva a un momento di rischio. E questo lo facciamo con una tecnica, una specie di questionario, domande che facciamo insieme con le donne in maniera ovviamente empatica ma che apre tante strade, perché mette in collegamento tante cose che accadono che viste singolarmente non danno la sensazione del problema, viste insieme – quindi ricollegate in un sistema – danno la sensazione dell’insieme, e quindi danno a chi è in difficoltà anche il senso di quello che si potrebbe fare, che lei potrebbe fare per evitare questa cosa. Questo mi sta piacendo molto, perché chiarisce, tantissimo, a me e alle altre che facciamo l’accoglienza, cosa dobbiamo fare. Ripulendo la questione da tutta una serie di cose: quelle che dici tu, che ti avevano dato fastidio nel libro della religiosa, tutto quel mix di “io ti aiuto però io sono come te…”, tutto un casino emotivo, intellettuale, di pratica politica ecc. È come una cosa che diventa limpida.

Antonella Nappi: Le manifestazioni mi sorprendono sempre, io non le voglio, non ci penso, poi quando fanno delle manifestazioni in strada le donne rimango colpita in positivo. Perché evidentemente ogni tanto una grande manifestazione anche molto semplice nella sua affermazione ti fa sentire in rapporto con gli altri, ti dà il senso della visibilità… cose che a me sembra che un pochino contino. Allora questa manifestazione mi ha detto – come diceva la prima che ha parlato dopo Luisa – che le donne si sono molto arrabbiate del pacchetto sicurezza contro i rom. E questo mi è sembrato una cosa enorme, magnifica. E poi hanno detto che chi viene eletta non ci rappresenta, non rappresenta nessuno, rappresenta solo destra/sinistra, meno peggio, è gente che obbligatoriamente noi dobbiamo pagare perché governi – queste sono le elezioni – e dunque vedremo cosa fanno, se governano bene, male ecc. Il mandarle via dal palco è geniale, è meraviglioso, è dire: tu fa le tue cose, noi ascoltaci! Che è il contrario di quello che i politici e le politiche fanno d’abitudine: non sentono nessuno e ti vogliono parlare, in una forma quasi di pazzia, siccome sono stati eletti si sentono in dovere di parlare di qualsiasi cosa agli altri. Questa pazzia deve essere smascherata e curata.
Poi che la Prestigiacomo fosse nel corteo… Diciamo che se una donna è molto in vista e per di più di destra, può essere sgradita a quelle che ha vicino, provi a cambiare posto. Però se poi dava l’impressione che avrebbe parlato… Comunque a me della Prestigiacomo importa poco, direi che è come quelle che si mettono in mostra per raccogliere… però lì non c’ero.
Lo scandalo dei giornali, altra cosa ottima: che ci sia un’occasione in cui di nuovo si sentono quei numeri lì. Appunto perché la stampa dà poche informazioni intelligenti, è stata una buona occasione.
Su quello che diceva Luisa, che la donna maltrattata è lei che deve prendere la parola, è difficile, infatti la casa delle donne maltrattate ha trovato delle tecniche. È difficile, e lo dico per me, che sono anni che qui dico che sul lavoro sono una vittima – probabilmente non è poi così vero e anch’io ci ho messo del mio, ma rispetto alla competizione o ad esempio alle tradizioni accademiche, che sono di legarsi a qualcuno, di chinare la testa e di chiedere aiuto, io non ce l’ho fatta, non ce la faccio, e dunque ho perso la competizione. Io ho una difficoltà terribile a essere competitiva, cioè ad avere quella violenza lì, che hanno appunto gli uomini, e quindi penso che si debba essere aiutate, dalle relazioni con donne sì, ma il problema esiste.

Lilli Rampello: Io credo che siamo di fronte – per come ce l’ha presentata Luisa – a una discussione molto sottile, molto difficile, perché è fatta di tante cose. E ho sentito questa difficoltà ancora più chiara di fronte a me quando ho sentito l’intervento di Marisa. Che forse non ho capito del tutto. Perché credo che sia giustissimo quanto lei dice del lavoro svolto da loro, delle pratiche che sono state messe in atto – ti ho letto sempre con attenzione, ti ho ascoltato sempre con attenzione. Ma credo che nella messa in scena complessiva, quale si dà in una manifestazione di piazza, succeda qualcosa anche di diverso da quello che può essere fatto poi in contesti più piccoli, in contesti in cui precipita però, di fatto, il tema e la questione che quella manifestazione vuole affrontare. Allora, io sulla questione del vittimismo faccio un po’ fatica. Infatti ritengo giusta l’espressione di Luisa “siamo su un piano inclinato”. Forse io non arrivo a vedere tutti i pericoli così come li vede Luisa perché ho visto in questa manifestazione intanto di nuovo una presa di parola molto netta sull’indisponibilità del corpo femminile: di fronte a questo sono sempre molto contenta, e penso che non sia riassumibile nello schema vittima-stupratore, non c’era solo quello. Poi ha ragione Luisa a dirci: attenzione, le vittime ci sono davvero. Perché se no si rischia di capovolgere la questione, di dire che non sta succedendo niente. No, le cose succedono, e quello a cui io invece tengo molto – però probabilmente sono schematica – è il fatto che la violenza di un uomo su una donna sia un primum, nel senso che così come ritengo che la differenza sessuale sia la prima differenza che organizza le altre, ritengo che quella cosa che è violenza dell’uomo sul corpo della donna sia un primum, che organizza e fa ordine per gli uomini rispetto ad altre violenze. A questo sono molto “legata”, perché mi è proprio maestra la Woolf: il fascismo nasce in famiglia. Sono tutte cose che sappiamo benissimo: come si declinano oggi? Come si declinano quando si ha voglia di dirlo? Questa voglia di dirlo io l’ho vista ad esempio in generazioni diverse dalla mia, in donne lontanissime da me, e quindi la mia attenzione è stata tesa a capire che cosa stavano dicendo. Ho fatto una discussione molto aspra con una mia carissima amica, via e-mail, su un appello che lei aveva fatto pubblicare sul manifesto. Cioè, ci sono in moto molte idee, e molto scambio. Io vorrei capire se questa particolare violenza può essere intesa come ordinatrice, nella società costruita dagli uomini, delle altre violenze, o se invece – perché questo io non lo vorrei – si scioglie (passatemi il termine) fra le mille altre diverse violenze che ci sono, che sono di tutti i tipi. Come si tiene la barra su questa questione, evitando il vittimismo, ma come la si tiene? Allora, questa manifestazione ha detto molte cose, non è riassumibile in una sola cosa.

Manuela Ulivi: Io lavoro con Marisa, Tiziana e tante altre alla Casa delle donne. Sono qui stasera perché mi ha interessato proprio la parola “vittimismo”, che tu adesso richiamavi. Perché dall’esperienza da cui sempre mi ha insegnato Marisa a partire, quindi da me stessa, da quello che faccio e dalle donne che vedo, la parola vittimismo dentro a questa manifestazione, a come l’hanno segnata i giornali e l’hanno voluta forse anche i giornali, mi stava stretta, non mi è mai piaciuta, e però penso che sia stata utilizzata non solo dai giornali ma anche dalle donne che sono state dentro la manifestazione. Mi spiego: io trovo che la violenza che oggi noi viviamo, delle donne che si rivolgono a noi, è una violenza che viene da un rapporto non di vittima, ma da un rapporto nel quale l’uomo molto spesso non accetta di essere secondo, cioè non accetta di avere un lavoro magari meno importante della donna, di avere un’istruzione inferiore… Quindi è molto spesso una violenza che vedo esercitata su donne che sanno, non su donne che sono vittime di per sé, cioè su donne che sono anche donne forti, fuori nella vita, nel mondo del lavoro. Questo mi fa ancora più specie, perché dentro alla situazione famiglia tutto questo si scioglie in una cosa diversa, dove comunque quel primum che tu dicevi è proprio “tu sei donna e devi stare in una certa situazione”. Noi facciamo con le donne i nostri percorsi, quando arriviamo però alla politica – nel senso che la politica la facciamo tutti i giorni però poi c’è la politica delle leggi, le donne con cui anche ci relazioniamo, che sono politiche, con cui discutiamo della legge sullo stalking, ad esempio, che noi abbiamo ritenuto che dovesse essere cercata e approvata – c’è uno scarto. Perché qualcuno cerca di mettere sempre il cappello a tutto quando stiamo facendo. Ho avuto l’impressione che la manifestazione fosse proprio questo tentativo: siccome oggi di violenza si parla molto, se ne parla dappertutto, allora fa comodo prendere questo argomento e cominciare a cavalcarlo, quindi farci anche una manifestazione. Ragione per cui la manifestazione come si è espressa, anche con aspetti molto interessanti, poi ha scemato su argomenti che non c’entravano molto con quello che si voleva dire. Perché è nata sul fatto che fosse imminente la giornata della lotta alla violenza contro le donne, il 25 novembre, e quindi da lì è montato tutto questo: facciamoci sentire. Dove però le protagoniste, quelle che – se mi permettete di dirlo – sanno, perché da tanti anni si occupano proprio di questo specifico, non sono state minimamente sentite.

donna: Forse perché non sono abituata a leggere i giornali chiacchieroni, non mi risulta il vittimismo di cui state parlando. Invece ho molto vivi i ricordi della manifestazione, dei suoi momenti e di come queste ragazze – che sono la generazione successiva alla nostra che abbiamo cinquanta-sessant’anni, perché sono nate quando avevamo trent’anni, sono come le nostre figlie – sono state autonome, consapevoli, di come hanno gestito il loro speakeraggio, si sono guidati i loro camion, scelti gli slogan, suonato la musica, di come si sono mosse, si sono fatte ritrarre sullo schermo che abbiamo visto in Piazza Navona… Insomma, per me è stata una gran bella giornata, e quando hanno parlato di violenza c’è stato un momento in cui mi sono sentita col filo sospeso perché pensavo che si potesse cadere nel vittimismo, ma la loro precisione nel rifiutare la violenza contro la donna per approdare alla convinzione di volere una società diversa, ha liberato dal concetto di vittimismo che poteva nascondersi dietro l’angolo e ci ha recuperato la libertà. E allora grazie a questa nuova generazione.

Luisa Muraro: Sento l’esigenza di ripetere un’idea che ho espresso in apertura. E cioè che il tema del vittimismo è stato scelto indipendentemente e prima della manifestazione e in rapporto a denunce che facevano i giornali.

Vita Cosentino: Anch’io non vorrei legare il vittimismo alla manifestazione. Vorrei considerare che oggi le manifestazioni – ricordo anche quella del gennaio dell’anno scorso – hanno cambiato natura rispetto agli anni settanta. Quando Ida Dominijanni, riferendosi alle ministre, ha parlato di monopolio della politica, ci ho trovato un’idea molto interessante, nel senso che le manifestazioni sono diventate in alcuni momenti, a mio modo di vedere, il modo in cui si può prendere la parola in una situazione in cui effettivamente c’è un monopolio della politica nelle mani di chi la fa di professione. E quindi le considero parte di quella sfera pubblica più generale in cui ci sono le donne. Anche se ho qualche retropensiero, perché il fatto di stare una volta all’anno in piazza, o una volta al mese, obbedisce anche a un’altra cosa che io non considero buona dell’epoca in cui viviamo, che è la logica della vita come evento. Lo diceva Ina Praetorius al Simposio delle filosofe: si fa il grande evento, si è sulla scena quel giorno in grande, e tutto è lì. A me sembra che questo oscuri quell’idea di politica che a me è molto cara: si cambiano i contesti in cui si è, si fa politica tutti i giorni con le relazioni. Quindi anch’io vedo che dei problemi ci sono, e c’è come un bilico. Però devo dire che anch’io sono stata soddisfatta, perché ero rimasta veramente disgustata di come i giornali avevano trattato la questione dell’uccisione di Giovanna e come il governo ne aveva approfittato per il pacchetto sicurezza. Ero rimasta disgustata e anche non sapevo come fare qualcosa, e quindi che sia entrato potentemente come molla anche di questa manifestazione mi è sembrato importante. Anche perché lì – e ritorniamo al monopolio della politica – si era giocato, da quel poco che ho potuto sapere leggendo i giornali, un conflitto tra i sessi enorme, che nessuno ha messo in evidenza: la madre di Giovanna ha detto “poteva essere un italiano”, nel senso di dire “è un uomo”; Emilia, la donna che l’ha denunciato, una rom come lui, pure lei ha detto “è un uomo e io lo denuncio”. Che le donne coinvolte nella tragedia si siano comportate da donne ben consapevoli di questo conflitto tra i sessi, non si è letto da nessuna parte. Sono cose pazzesche di un mondo in cui avere parola, prendere parola è diventato molto molto ma molto complicato. E nel corteo, l’apertura di tutte quelle ragazzine, anche di dodici anni, rom – c’era la foto sul Manifesto – che dicevano “noi siamo con Emilia”, mi ha dato una grande soddisfazione.
Anche l’altra questione, delle donne di destra, la vorrei legare al problema del monopolio della politica. Mi piacerebbe che Radio Popolare facesse un microfono aperto sulla domanda: “C’erano donne di destra?”. Secondo me sì, perché se non è questione di famiglie benestanti o non benestanti, colte o non colte…, la questione diventa la parlamentare di destra che approfitta ancora una volta della vetrina, perché quando si capisce che sono 150 mila è un’ottima vetrina. Cioè è sempre lo stesso discorso, che secondo me dobbiamo anche un po’ smontare, perché si tratta di stare a quello che chiedono, prendere sul serio le organizzatrici. Gli uomini in questa circostanza lo hanno fatto. È stato detto “no uomini” e loro hanno cominciato a interloquire. Ho sentito a Radio Popolare e letto sui giornali chi diceva “noi rispettiamo questa decisione”, chi invece diceva “io ci voglio andare lo stesso e accetto di mettermi in coda” ecc.: hanno interloquito. Quando è stato detto “non vogliamo donne del family day”, qualcuna ha preso una penna, un microfono, per dire “perché non volete…” e cominciare a parlare? Questo è il fatto, ed è questo che a me dà fastidio, perché io penso che invece tra quella folla di donne ci fossero donne di destra, mi piacerebbe saperlo con certezza e non lo posso sapere. Però si è aperto un conflitto tra donne, non su destra-sinistra, perché hanno cacciato via dal palco pure quelle…, ma secondo me da una parte sul monopolio della politica, e dall’altra sullo stare o non stare davvero alle parole, all’impostazione di chi quella cosa la sta facendo.

Javiera: Io non parlo molto bene l’italiano, farò del mio meglio. Siamo di Padova, del “fuxia block” che è un collettivo misto, non solo di donne, che lavora sul tema dell’autodeterminazione, libertà di scelta, laicità… e ci è sembrata molto interessante la tematica di mettere in discussione la vittimizzazione. Noi questa stessa discussione l’avevamo ripresa quando è arrivato l’appello per la manifestazione, e abbiamo cominciato a discutere su come ci poniamo. Quello che abbiamo messo in discussione era: 1°) Il concetto di donna, nel senso di dire: sì, noi siamo donne e uomini e siamo coscienti che esistono le discriminazioni sulle donne e c’è una particolarità delle donne, però qualche volta ci sembra che il concetto di donna sia un concetto neutro. Abbiamo fatto per esempio un incontro sul 50e50 dove appariva il discorso “a me non importa se la donna è di destra o di sinistra, ma comunque che ci sia”, come se l’essere donna fosse neutrale, non fosse una categoria attraversata dalla politica. E questa è stata la prima cosa su cui abbiamo detto “facciamo attenzione”, perché non vogliamo cadere nel naturalizzare e non mettere in gioco questa categoria. 2°) Il tema della vittima: io sono pienamente d’accordo che il tema della donna come vittima è un andare indietro. Si era andate avanti, e adesso si torna indietro con un insieme di cose: il tema della sicurezza, il dividere il mondo tra la vittima e l’autore del reato, il prendere questa categoria che è giuridica, criminologica, come soggetto per definire la tua identità o la tua posizione sociale. Ci sembra sbagliato, nel senso che la vittima in sé non ha parola, è parlata. Infatti parlare di vittima mette il conflitto nel sistema del diritto, togliendolo alle persone che direttamente vivono questa situazione: non è la vittima quella che parla, è lo stato che parla per lei. Anche questo ci sembrava una cosa da mettere in discussione. Vogliamo veramente andare con la bandiera che siamo vittime degli uomini, o della società? O vogliamo assumere che c’è qualcosa del fare un atto politico che va oltre l’essere una vittima? Se io sono capace di prendere la parola significa che il ruolo di vittima non è tanto… io ho una coscienza di quello. Alla fine non abbiamo chiarito veramente qual è la nostra posizione, e non siamo andati alla manifestazione. Vogliamo capire cosa succede veramente e come possiamo collaborare e aprire un canale di comunicazione con queste tematiche. Io penso che per parlare della violenza, della vittima, dobbiamo tentare di lasciare indietro questa neutralità, come un assoluto, del parlare de “la donna” – io non so cos’è la donna, cosa significa, penso che siamo le donne… – queste categorie che neutralizzano, che tolgono la politica, quello che c’è di conflittuale. Perché nella violenza non è “l’uomo”, è l’uomo che è padre, figlio… ci sono altre cose che attraversano la violenza contro le donne o nell’ambito familiare. Vogliamo mettere in discussione solo il potere maschile, solo il patriarcato, o anche il modello familiare che risponde a questo, o anche il ruolo che la donna, il figlio, il padre ha dentro la famiglia? Magari non troveremo una risposta, ma è importante mettere in discussione le categorie, e non arrabbiarsi, perché è vero che si può cadere nell’estremo del “io devo essere autocosciente, io devo prendermi la responsabilità e se mi picchiano è colpa mia”, però ammettere che questa tensione esiste, che ci muoviamo in questa tensione, secondo me è da dove possiamo andare avanti, se no si torna alla cosa di noi donne vittime degli uomini, che a me non piace. Tento di allontanarmi il più possibile quando sento quei discorsi perché gli anni Settanta, il femminismo qualcosa ci ha insegnato e dobbiamo andare avanti.

Caterina Peroni: Sono anch’io del “fuxia block” di Padova. Quello che ha detto Javiera è frutto di una discussione comune nel collettivo, volevo aggiungere alcuni elementi prendendo spunto dai diversi interventi – diversi proprio diversi – che ci sono stati qui, sulla questione della vittimizzazione, anche rispetto a quello che diceva Javiera, del ruolo della donna, la famiglia, ma io a questo punto arriverei al nodo cruciale, che secondo me anche dalla manifestazione di Roma non è emerso come un limite veramente strutturale rispetto alla politica. Cioè, a parte i giornali, che sappiamo che strumentalizzano, dicono quello che vogliono, lo hanno fatto sempre e non ci stupiamo, dal punto di vista politico la manifestazione di Roma cosa ci ha detto? Ci sono donne contrarie alla violenza sulla donna, benissimo; ci sono donne di destra e di sinistra contrarie alla violenza, ok; anche uomini, va bene; però c’è il separatismo, con la concessione che gli uomini potessero partecipare alla coda del corteo; sono state espulse le ministre. C’è un pot-pourri di questioni che sono emerse ma secondo me la cosa che non è emersa seriamente è che la violenza sulla donna non è un problema della donna che viene violentata, è un problema che ha a che fare con la società, con il senso che noi abbiamo della società, e soprattutto con un’idea che noi possiamo avere delle relazioni, non solo fra le donne, ma fra le donne e gli uomini. Quando sento dire che la violenza dell’uomo è un primum, può essere benissimo – qui stiamo attraversando diverse discipline, dall’antropologia alla psicologia alla sociologia ecc., molto spesso anche le prospettive sono veramente diverse – però se manteniamo una visione di questo tipo così rigidamente perché descriviamo la realtà, non stiamo facendo una proposta, stiamo descrivendo il fatto che all’oggi c’è la violenza dell’uomo sulla donna: vero, è sempre stato così, vero, la nostra società è organizzata in maniera patriarcale, è gerarchica, è violenta, produce guerre ecc. ecc. Il punto, tornando alla manifestazione e anche alle discussioni, è che non viene fatta una proposta alternativa, cioè non si va oltre, si dice semplicemente, se c’è l’uomo che violenta, e l’uomo è ovvio che è cattivo, è naturalmente predisposto a fare una cosa del genere, la donna storicamente ha subito, ha difficoltà ecc., non si vuole trasformare questa relazione. La relazione è necessariamente fra individui, sessuati o meno, uomini e donne, che vanno coinvolti tutti in una ridiscussione del modello di società. Lo dico perché all’interno del nostro collettivo abbiamo anche degli uomini, che partecipano al nostro lavoro che è un lavoro biopolitico, ha a che fare con tutto ciò che concerne il governo della vita e quindi le leggi del governo della vita e quindi tutto ciò di cui si sta discutendo dal modello familiare in poi, che riguarda anche loro, non soltanto noi. Se c’è una legge sulla fecondazione assistita, riguarda anche gli uomini, riguarda i partner delle donne, riguarda i gay, le lesbiche, riguarda tutti. Questo è fondamentale per superare questa cosa. Allora, perché non diciamo: cominciamo a proporre anche un rovesciamento di prospettiva rispetto, da un lato, ai rapporti fra sessi, che esistono – nessuno nega il fatto della discriminazione di genere, è quasi banale, lo vediamo ogni giorno – ma per rispondere a questo dobbiamo fare un passo in avanti, e vedere che probabilmente questo tipo di discriminazione si rifà a una differenziazione, per certi aspetti, all’interno di ogni differenza, di ogni individualità, di ogni soggettività, che non è per forza solo e necessariamente sessuata, può essere attraversata in diverse maniere. La mancata partecipazione “di massa” degli uomini, il non invito ufficiale degli uomini a quella manifestazione, ha a che fare con la non voglia secondo me di modificare uno stato delle cose. Che evidentemente ha anche a che fare con una mancanza di… cioè non si possono cambiare le cose se non si prova prima a immaginarle, in qualche modo diverse. Durante l’incontro di cui si parlava prima del 50e50 che abbiamo fatto all’Università di Padova a cui hanno partecipato Luisa Muraro e Alisa Del Re è venuto fuori anche questo tema: possiamo immaginarci un modo diverso di interpretare questo tipo di relazioni. “Perché gli uomini non hanno organizzato una loro manifestazione? – diceva Alisa Del Re – Noi dovevamo fare la nostra manifestazione, loro la loro”. Io invece avrei preteso come atto politico che spingeva in avanti il dire: la manifestazione dev’essere di tutte le persone che odiano la violenza sulla donna, che fa parte di una cultura politica e sociale che riguarda tutti, anche gli uomini. Questo può essere uno spunto per rivedere le relazioni, senza neutralizzare la differenza, e anche una prospettiva sia di analisi che di azione politica rispetto a queste cose.

Luisa Muraro: Insisto (perché l’ho già accennato) con Caterina che la politica non si fa con il quadro giusto delle cose, si fa dove c’è squilibrio anche minimo, facendo un gioco sulle cose squilibrate. Dove l’efficacia è quella che si ha quando si muove un corpo che è in equilibrio instabile, mentre se si fa un disegno che astrattamente è quello sensato non capita niente. Noi lo sappiamo perché la politica del partire da sé – questo tipo di politica che è di coinvolgimento della soggettività – è nata proprio dall’avere creato questo squilibrio. Quando le donne giovani allora hanno lasciato formazioni politiche miste che continuavano a fare i disegni giusti ma non si smuoveva la realtà, che allora era in effetti pesantemente maschilista e patriarcale come adesso non è. Guardate che patriarcale non vuol dire che se ci sono violenze ecc. allora è società patriarcale: società patriarcale è un’altra cosa, è un ordine simbolico. Lo squilibrio ha messo in moto moltissime cose, è stato uno squilibrio dietro l’altro. Bisogna imparare a giocare sulle cose che stanno in equilibrio instabile, e muovere lì, e lo si fa sia con i gesti sia con le parole. Mentre il quadro armonioso, giusto e completo, non è necessariamente una politica, può essere semplicemente – e tanti intellettuali l’hanno fatto – un disegno di quello che si può fare, una utopia, una rappresentazione dell’ordine giusto, che ha senso solo se viene fatta da chi detiene un potere, che deve in effetti immaginare un andamento armonioso, equilibrato delle cose. Questa comunque è una discussione che dovremo fare ancora, e cioè su che cosa vuol dire pensare e agire politicamente, che è non dico antiintellettuale, perché ci vuole anche teoria, ci vuole pensiero, ma non ha le caratteristiche di un discorso ordinato.
Vorrei riprendere quello che ha detto Javiera, perché lei a un certo punto è andata a incrociare in una maniera molto interessante il discorso di Marisa Guarneri, quando ha detto: bisogna sottrarre la vittima al dispositivo del diritto. Non bisogna pensare in termini di vittima, abbiamo un essere umano in carne ed ossa che vive la sua storia, e nella sua storia c’è anche il fatto della violenza, eventualmente. Qui vorrei inserire una notazione dal percorso – per quel poco che ho fatto – insieme alla Casa delle donne maltrattate, specialmente con Marisa. Bisogna ricordarsi che chi subisce torture o altre forme di violenza non vuole più strappare da sé questo avvenimento. L’avvenimento fa parte della sua biografia e della sua economia, deve integrarlo, deve essere parte della sua personalità. Nel momento in cui Javiera ha tirato fuori questo discorso molto interessante sul non accettare l’etichetta di vittima, ho visto che lì la pratica politica molto consistente e lunga di una Marisa va a incrociare un filo di ragionamento diverso (non digiuno di politica neanche questo, perché so che avete pensato a queste cose anche politicamente) e mi pare un elemento su cui attirare l’attenzione perché si guadagna sapere.

Laura Minguzzi: Volevo riprendere il discorso della percezione, parola che ha detto prima Marisa: la percezione del rischio. Io volevo dirla in un altro modo, come la percezione che abbiamo adesso, oggi, della violenza. Che è diverso dal discorso dei dati oggettivi dei fatti violenti. La percezione del reale violento, che tutti sentono, secondo me è aumentata, al di là dei dati. E questo soprattutto riguardo agli uomini. Io lo percepisco per la profonda insicurezza, per l’evidenza della libertà femminile avvenuta: si è come scoperchiata la pentola, tutto è messo a nudo, e non c’è più la consolazione del patriarcato che poteva rassicurare, dare dei puntelli, delle certezze che ormai non hanno più. Quindi questo scatenamento bestiale che a volte vediamo, che è quasi incredibile nei fatti che sentiamo, è anche secondo me un contraccolpo di quello che è successo negli ultimi trent’anni, che le donne sono più visibili, più sicure e più tranquille nel vivere la propria vita, più libere. È connaturato a un sistema simbolico, fa parte del conflitto fra i sessi, e va letto proprio in questi termini, come diceva anche la ragazza del fuxia block di Padova, perché il discorso della vittima è un discorso neutro, non va alla radice politica della questione, il conflitto fra i sessi, ma rischia appunto di essere – dicevano alcuni uomini intervistati durante la manifestazione: “Sì, io sono qui perché è giusto difendere i diritti delle donne” – una versione tranquillizzante; la legge, il diritto, fa sentire più tranquilli, c’è qualcosa di certo, di oggettivo. Diventa però un discorso neutro perché rifugge il discorso del conflitto fra i sessi: l’uomo che diceva così, è chiaro che non vedeva il conflitto fra i sessi, per lui era questione di legge, di giustizia che si fa con le leggi, il partire da sé non lo aveva toccato. E il lavoro che è stato fatto dei cartelli – si vedevano anche scritte originali – mi fa pensare che ci fosse anche il desiderio in alcuni gruppi, forse non generalizzato, di andare alla radice del partire dall’esperienza delle cose che succedono e non di metterla sui diritti.

Marisa Guarneri: Stiamo parlando a tanti livelli. C’è un piano, come dire, di tattica politica, e su questo dico solo che è facile buttare le ministre giù dai palchi e meno facile dire “io non accetto la tua adesione”: questo non è stato fatto, tanto per cominciare, perché le adesioni ci sono tutte, sul blog. Quindi interloquire è più difficile. Invece, su quello che diceva Luisa del disequilibrio: la manifestazione sicuramente ha risposto a una sensazione collettiva del non se ne può più che ogni giorno ammazzano una donna, e non se ne può più delle soluzioni. Però sto pensando da un po’ di tempo che io sono preoccupata di questa botta di separatismo, perché è come se di nuovo ci fosse uno schieramento armato contro l’altro, e ricaccia indietro gli uomini che hanno tentato di differenziarsi e di assumere una posizione pedagogica nei confronti degli altri uomini, di sanzionare, dire che quelle cose vengono da dentro e dobbiamo confrontarci. Invece si rischia di dare spazio a quello che sta accadendo, che a fronte di una libertà femminile più forte e più imposta c’è una reazione maschile scomposta. Da una parte c’è una reazione maschile positiva, di chi si mette in discussione, dall’altra c’è una reazione maschile scomposta, e la violenza omicida viene da questa reazione, che non vuole perdere quella supremazia e si ritrova senza modello, nel casino più nero e questa donna non la vuole mollare, meglio morta che lontana. Io non vorrei che questo separatismo, questo ritorno di confronto molto conflittuale, molto forte, di esclusione, invece di andare a favore delle donne che subiscono violenza, vada contro. L’ultima cosa: io non so come si sono sentite loro – lì c’erano anche donne ospiti dei vari centri antiviolenza – però sicuramente questa posizione butta via tutto il pezzo della relazione affettiva, dell’amore, della difficoltà a prendere distanza dalla propria storia.

Lia Cigarini: Io avevo caldeggiato la discussione su questo tema perché veramente i pezzi che venivano fuori dai giornali e la strumentalizzazione che si faceva della questione della violenza sulle donne e anche qualche intervento di donne che diceva “siamo tornate indietro, il patriarcato è ancora vivo” ecc., a me sembrava che non rendessero conto dell’autonomia e della libertà conquistata dalle donne. Che ci fosse come una cancellazione di quanto è stato guadagnato dal movimento delle donne ma da ciascuna di noi, e come sovranità su quello che succede. E quindi sono d’accordo con Luisa che è difficilissimo tenere una posizione che non vuole cancellare con la denuncia della violenza quanto le donne hanno in libertà a seguito di una presa di coscienza e di una invenzione politica che rende conto dell’esperienza femminile come la pratica dell’autocoscienza, e d’altra parte dare giustizia e dignità alle vittime. Sono d’accordo anche con quello che dice Marisa, anche perché ammiro il loro coraggio (io personalmente mi tengo lontana dalle donne che subiscono violenza, dalla prostituzione e da tutte queste cose): loro hanno inventato o applicato la pratica del partire da sé, della relazione, nei luoghi delle donne maltrattate, che quindi non sono luoghi tradizionali di assistenza ma luoghi di pratica politica delle donne. Non sono tanto d’accordo con Marisa e forse anche con Ulivi – che essendo una collega chiamo per cognome – sulla questione manifestazione. Io sono assolutamente contraria alle manifestazioni, e poi se si parla di violenze in famiglia ecc. è chiaro che la manifestazione ha poco senso e invece il lavoro giorno per giorno che fanno questi luoghi ha un grande senso. Tuttavia, mentre come lo presentava la stampa mi sembrava insopportabile, come se le donne fossero ripiombate nel vittimismo, si è articolato un dibattito su alcuni giornali, non quelli che vengono più letti. Sul Manifesto c’è stata la discussione “facciamo una manifestazione solo di donne o invece anche con degli uomini” in cui sono intervenute Marisa per sostenere che è indispensabile la modificazione dell’immaginario maschile e un’interrogazione sulla sessualità maschile che possono fare solo gli uomini (io non so nulla della sessualità maschile se non questi risvolti violenti, quindi non mi sento di teorizzare su questa sessualità che è così differente dalla mia), e quelle di Bologna, Sexyschok si chiamano, e altre. Quindi rispetto alla rappresentazione che ne davano i giornali e purtroppo anche alcune giornaliste donne, c’è stato uno scatto politico. Anche a Roma quando han deciso “solo uomini” – purtroppo sono andate a una votazione a maggioranza (io sono contraria a votare su queste questioni) – c’è stata un’appassionante discussione, e poi si è articolato un ventaglio di posizioni e anche, come dire, una solidità delle pratiche politiche di relazione, dei centri e in tanti luoghi, molto forte, cosicché questa manifestazione secondo me ha detto che un conflitto tra i sessi c’è. Noi lo sappiamo e parliamo anche di un conflitto relazionale, di una relazione di differenza con gli uomini, ma tutte le politiche di parità invece coprono il conflitto tra i sessi. Cioè il senso comune politico mediatico ritiene che le donne aspirino alla parità con gli uomini (l’uomo come misura del mondo) e anche tutte le politiche paritarie tendono a occultare il conflitto tra i sessi, perché se tu vuoi essere al posto di quei signori, non sei in conflitto radicale con la sua costruzione del mondo. Quindi l’elaborazione che si è fatta in questi anni del perché si mantiene l’asimmetria tra i sessi, il conflitto tra i sessi, relazionale, non è emerso, ma è emerso il conflitto tra i sessi, che era coperto dalle politiche paritarie, dal 50/50 al “vogliamo gli stessi posti”. Capisci, Marisa? Quella manifestazione quando ha detto “non ci sono gli uomini” secondo me ha voluto significare il conflitto tra i sessi. Punto e basta. Certo, in una maniera semplice rispetto a quelle che ci riflettono da trent’anni e che si sono rese conto che è possibile una relazione di differenza con gli uomini con uno scambio. Tra l’altro, la separazione per noi è stata inaugurale… Non la chiamo separatismo perché è ideologico, ma un momento di separazione per significare un taglio con l’esistente. Mi diceva Letizia Paolozzi che è andata a queste riunioni romane, che erano le più giovani a volerlo, tolto un gruppo lesbico che a Roma è molto forte: queste giovanissime evidentemente il segno di un taglio lo volevano dare. Voglio capire, ma io sono per il taglio, un taglio che crea autonomia simbolica delle donne. Poi, un’altra cosa che è venuta fuori, che non c’era in altre manifestazioni: ogni tanto qualcuna si alza a parlare delle giovani, che non sarebbe passato il testimone… invece queste si sono proprio richiamate a una genealogia femminile, al femminismo. Naturalmente sono d’accordo con Marisa e Ulivi che senza il lavoro di modificazione della relazione tra i sessi, che non è solo delle donne maltrattate ma di tutte noi, la manifestazione è quello che è. Poi mi ha impressionato che non c’era un obiettivo: io credo che si chiude tutto se c’è un obiettivo. Che il problema non si risolve con un rapporto diretto tra donne e stato ma deve passare attraverso la modificazione della relazione tra donne e tra donne e uomini, è passato: il fatto legislativo queste l’hanno bloccato.

Antonella Nappi: Mi è arrivata una e-mail delle organizzatrici che si dispiaceva moltissimo che avessero trattato male le parlamentari. Quello che ho colto io della manifestazione, dalle foto, non è quello che ha fatto piacere alle organizzatrici. Quando le incontrerò dirò loro che per me invece il valore era proprio di mandar giù le parlamentari dal palco. Poi volevo dire che ci tengo che quella manifestazione fosse di donne, proprio di donne. Per quanto io sia interessatissima all’interlocuzione con gli uomini, ci tengo che le donne siano autonomamente organizzate e facciano delle cose. Perché le relazioni civili tra donne, le relazioni politiche tra donne, le relazioni intellettuali tra donne sono la grande conquista del femminismo, non possono essere abbandonate. E mi sembrava che le donne in una manifestazione contro la violenza sessuale dicessero comunque, tra le righe, agli uomini di occuparsene. È questo che dicono donne che protestano contro la violenza: la violenza non è più solo nelle case, il mondo è molto violento al momento e quindi la si nota ancora di più. L’ultima cosa a cui volevo accennare è che in questi due anni, partecipando a qualche dibattito con femministe omosessuali, ho avuto la brutta notizia di sentire che il discorso portato in quelle occasioni era: le donne che amano le donne amano le donne anche sessualmente, e le donne che non amano le donne sessualmente non amano le donne amano gli uomini. Questo discorso è orripilante, è gravissimo. Capisco che chi subisce dei problemi nella società, chi deve ancora imporre la sua libertà possa anche dire cose che sente e che io non condivido, ma il femminismo, le donne che fanno politica, io credo lo devono additare questo problema, che le relazione di amore sublimato tra le donne sono la grande conquista del femminismo. Ributtarci sempre da un letto a un altro non mi sembra utile. Insomma – rispetto alla manifestazione, dove non c’ero – mi preoccupo che il movimento delle donne non sia vittimista, veda il bello del farsi presenti, ma non diventi monopolio di chi dice che le donne vanno amate sessualmente o niente… [Risate]

Assunta Sarlo: Volevo stare al tema, cioè al premanifestazione, per darvi una semplice testimonianza, io faccio la giornalista: fino a due anni fa di violenza sulle donne sui giornali non si parlava, praticamente. Ragionare, discutere, dare informazione sulla violenza sulle donne è una cosa che facevano poco, alcuni e solo alcuni giornali, e nel silenzio più assoluto. A me sembra di grande importanza che i giornali abbiano tematizzato con le cifre e non con altri codici – se guardate questi pezzi li scrivono solo le donne, e anche su questo ci sarebbero da fare dei ragionamenti che tralascio. Quello che è successo da due anni a questa parte, per una serie di motivi che non vi sto a dire, in cui naturalmente c’è molto il lavoro dei centri antiviolenza, è che la questione sia stata tematizzata. Anche attraverso dati che possono sembrare “terroristici” oppure dando la sensazione a cui accennava Luisa Muraro di un popolo di donne vittime di violenza. Però quei dati hanno detto una cosa molto importante: hanno tirato fuori dalla sfera privata il problema e l’hanno messo sul piatto della comunicazione, a disposizione di un pubblico che non è questo di stasera, è il pubblico dei lettori, delle lettrici, degli ascoltatori dei telegiornali ecc. La seconda cosa che hanno fatto quei dati è dire che la violenza sulle donne sta dentro la famiglia, cioè dentro la relazione tra gli uomini e le donne. Dire questo è assolutamente eversivo rispetto al discorso tuttora prevalente nei media, che iscrive a questioni di ordine pubblico, di sicurezza e di conseguenza in una chiave di solito velatamente razzista (certe volte neanche velatamente), anche sui media più democratici, la questione della violenza. Nella settimana precedente alla manifestazione – è l’altro pezzo di ragionamento che volevo fare – ho ricevuto quattro telefonate di altrettante giornaliste femmine televisive, che mi chiedevano – non so perché, facendo io lo stesso mestiere – di fornire loro una storia. Cioè di fornire una donna violentata, abusata, maltrattata, che potesse andare a raccontare la sua storia. Io ho detto: rivolgetevi alla casa delle donne maltrattate così vi mandano a quel paese loro… Però questo mi ha fatto riflettere. Sono andata a Bologna il giorno prima della manifestazione invitata a un dibattito che aveva come oggetto “la violenza sulle donne dal fatto alla notizia”, in cui erano invitati a discutere dei giornalisti, e ho posto questa questione. Ho detto due cose: una è che fare informazione sulla violenza contro le donne è molto difficile, la seconda è che il discorso prevalente dei media oscura i contenuti della violenza e la declina come abbiamo detto. La terza cosa è stata dire le quattro telefonate che ho ricevuto. La reazione dei miei colleghi giornalisti è stata estremamente interessante. Ve la banalizzo e semplifico, per farvi capire qual è il livello della discussione e anche del rapporto con i media che bisogna mettere in campo e sul quale secondo me la manifestazione è stata veramente lamentosa e deficitaria: mi hanno detto che c’è un problema di sicurezza, più o meno che i rumeni sono molto cattivi perché vengono da una cultura più cattiva e più incivile della nostra, e che è un problema dei centri antiviolenza non dare le storie perché attraverso le storie si può parlare di violenza. Laddove la mia domanda era: è possibile che non riusciamo a trovare un codice comunicativo meno semplificato e meno ruolizzato di quello che è la vittima della violenza che la racconta? Chiudo dicendo che invece i pezzi più generali che ho avuto occasione di leggere (qualcuno l’ho anche scritto) in materia di violenza prima di questa manifestazione ma anche l’anno scorso, hanno avuto in qualche modo in merito di tirarsi fuori da questo codice comunicativo della storia e di dare conto del lavoro dei centri antiviolenza, che è un lavoro abbastanza oscuro sui media. Poi riguardo la gestione nella manifestazione del rapporto con i media – io mi riconosco abbastanza sia nelle cose che diceva prima Liliana sulla violenza come unicum, io c’ero, ho visto moltissime manifestazioni, non una sola, ho visto una ricchezza che mi voglio anche portare a casa, e ho visto anche alcune semplificazioni della comunicazione che non mi sono piaciute per niente, lì dentro. Nel senso che ci sono una serie di parole, il concetto di vittima ma anche di antirazzismo, di famiglia, di sicurezza ecc. Naturalmente le manifestazioni semplificano, ma lì secondo me abbiamo sfiorato l’eccesso di semplificazione, e abbiamo dato una prova di lamentosità nel rapporto con i media. Rapporto che si può gestire, con patti chiari amicizia lunga, prima; non dimentichiamoci che La7 è stata l’unica televisione che aveva garantito una diretta: quella diretta andava gestita.

Luisa Muraro: Assunta ha posto l’accento sul linguaggio, mi interessa molto. Io penso che tutto quello che riguarda la violenza sulle donne, nelle sue varie forme compresa quella della prostituzione schiavizzata che adesso prevale, metta alla prova estrema quello che è il linguaggio massmediale. Cioè il linguaggio massmediale, per dirla in maniera semplificata, non è all’altezza di poter parlare di queste cose. Non basta “patti chiari amicizia lunga” (mettiamoci d’accordo su come), penso che sia necessario affrontare veramente il rapporto tra quello che è la notizia da diffondere e la realtà vissuta e la esperienza di chi è in prossimità della realtà vissuta, che questa dimensione sia di una delicatezza, profondità, drammaticità e complessità che domanda… È una questione di codici comunicativi che si apre qui, e si apre radicalmente perché non riguarda solo questo ambito, ma anche altre realtà che sono specialmente realtà che interessano le donne e i bambini. Dei bambini sui giornali non si parla quasi più, perché nessuna modalità andava bene, erano tutte sfruttamento ecc. C’è questo problema che lei ha toccato e secondo me va ripreso.
Vi ringrazio, ci ringraziamo a vicenda del lavoro fatto e…. alla prossima occasione!

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