19 Aprile 2013
DWF La pratica della storia vivente

Quando la storia ha strade impreviste.

di Serena Fuart

«Credo che partire proprio da quelle situazioni che in noi hanno suscitato sentimenti negativi, o perlomeno contraddittori, sia un buon inizio perché essi costituiscono un sintomo, una spia che le interpretazioni dominanti, quelle del sistema patriarcale e capitalistico, non riescono a dire, qualcosa che la nostra esperienza viva ci fa sentire e che tuttavia non ha ancora parole. È un lavoro di scavo possibile ma difficile da fare tutto da sole e la costituzione di una comunità di ricerca aiuta a continui aggiustamenti per avvicinarci sempre di più a una verità che non è solo interiore ma offerta a tutte e tutti.» Così scrive Luciana Tavernini, una delle autrici del numero di DWF La pratica della storia vivente.

 

C’è un altro modo di fare storia. Un  modo imprevisto, fuori dallo schema patriarcale, una storia che si annida nei nodi irrisolti della vita delle storiche e che emergono con questa pratica.

Un modo che, da quando l’ho scoperto, ha cambiato il mio modo di intendere la storia.

Milagros Rivera Garretas, nel suo saggio sulle novità storiografiche dovute al taglio della differenza, scrive: «Le autrici di quelle opere, così come le loro lettrici e lettori sanno che la storia, come il suo possibile e anche il suo impossibile, sono molto di più che il racconto delle guerre, delle lotte sociali o delle diseguaglianze di genere. E sanno che in questo ‘molto di più’ ci sono oggi e ci sono state nel passato più donne che uomini: donne che hanno scelto di esserlo, cioè donne che tengono in conto il senso libero della sessuazione del loro corpo – della loro differenza sessuale – quando scrivono e quando leggono o spiegano storia».

E più avanti continua: «La storia vivente riesce a muoversi e a scrivere nel luogo rischioso in cui il reale e l’irreale si accostano. In questo luogo c’è l’esperienza che fonda la sua vocazione per la storia e che reclama di essere detta e letta o ascoltata nel presente perché la storiografia non decada o muoia, perché finalmente si consumi la crisi in cui la storiografia è sprofondata dalla caduta del muro di Berlino nel 1989».

Mi ha affascinato il numero di DWF dedicato appunto a questo modo dirompente e nuovo di raccontare la storia.

 

Scrive ancora Luciana Tavernini in Sintesi dell’intervento Riscattare e redimere il presente, in cui viene riassunto l’intervento presentato da María-Milagros Rivera y Garretas al XII Simposio dell’Associazione internazionale della Filosofe (IAPh), tenutosi a Roma dal 31 agosto al 6 settembre 2006, (on line sul sito della Libreria delle donne):

«Nel 2006 molti convegni e testi reclamano memoria storica ma, restando legati allo schema della contrapposizione, fanno sì che ‘dimenticare e ricordare’ siano la ‘medesima operazione’ in quanto ‘non c’ è interpretazione libera di sé’, ma ripetizione meccanica di uno schema (vincitori/vinti o “riconciliazione nazionale” per la Spagna e “legge del Punto finale” per l’Argentina). Occorre invece un nuovo ‘inizio, che generi realtà, che faccia ordine e significhi la forza politica dell’esperienza nel luogo in cui l’esperienza è oggi’, un’interpretazione che dia senso e produca modificazione interiore che apra ‘a un altro ordine di rapporti’ in cui ‘l’amore abbia un posto, per quanto piccolo, tra i sentimenti di colpa e i desideri di vendetta lasciati dietro di sé dagli episodi traumatici della storia’.

María-Milagros cita alcuni traumi del passato come la Guerra civile spagnola, l’Olocausto, la scomparsa di donne e uomini nelle dittature, gli stupri commessi dai soldati, compresi quelli dell’ONU, che richiedono un’interpretazione che ci redima e si chiede: “Come evitare la vendetta o la paralisi politica, conservando viva la memoria storica?”

Propone che le storiche cerchino un movimento personale, imprevisto e necessario, che ci permetta di “scoprire il senso dei conflitti che sfociarono in tragedia quando non fu più possibile praticare la parola, la relazione, il conflitto relazionale”.

 

Le autrici del numero di DWF riflettono a partire dai loro nodi problematici e irrisolti che diventano storia, storia vivente appunto.

 

Ognuna parte da un suo nodo irrisolto.

Marirì Martinengo, l’iniziatrice di questo modo di fare storia, scrive nel suo libro La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone – Donna “sottratta” (ECGI, Genova 2005), di cui nel numero viene presentata una selezione:

«C’è una storia vivente annidata in ciascuna/o di  noi, costituita di memorie, di affetti, di segni dell’inconscio; non penso che abbia valore storico solo quello che sta fuori di noi, che qualcun altro ha certificato, la famosa storia oggettiva. Io racconto una storia vivente che non respinge l’immaginazione, un’immaginazione che affonda le sue radici nell’esperienza personale, storia più vera perché non cancella le ragioni dell’amore, non respinge le relazioni del suo processo cognitivo». Nel libro Marirì ha raccontato la sua storia in relazione con quella di Lei, Lei a cui è stata data voce dopo anni e anni di silenzio. «È andata così – scrive – per tutta la vita; ora ho sessantasette anni ma da quando ho dato all’inquietudine un volto, il suo, e una voce, la sua, essa si è quasi placata, perché è stata riconosciuta, e, senza più trasposizioni o vie di fuga, ha avuto attenzione, tempo, spazio di scrittura».

Marirì ha dato voce a sua nonna, costretta per anni nel silenzio di una vicenda dolorosa e il narrare di Lei l’ha riscattata dal senso di malessere e inquietudine che l’accompagnavano negli anni della sua vita.

Laura Minguzzi affronta la sofferenza, il dolore per sua madre morta suicida per il rifiuto di abbandonare la sua amata campagna. Sono gli anni sessanta, anni cruciali per la storia italiana in cui assistiamo a una trasformazione violenta dell’economia. Raccontare ha permesso a Laura di dare un senso al silenzio che avvolgeva questa vicenda dolorosa. E su di lei scrive: «Da piccola la guardavo ammirata mungere le mucche, fare i formaggi. Comunicava con chi non aveva un logos, una parola, infatti non amava molto parlare, si esprimeva facendo crescere piante e animali».

Luciana Tavernini affronta il tema del «legame tra parola e verità, in particolare rispetto alla scoperta della relazione vita-sessualità e funzione materna, e quello tra fiducia nella propria capacità di giudicare e abuso sessuale, in particolare se l’abusatore è stimato dalla madre». E dà senso alla vicenda oscura che è avvenuta nella sua vita quand’era ragazza.

Marina Santini affronta un tema che mi ha colpito molto: la preferenza. Secondo lei è positiva nel momento in cui si esce da un’ottica di uguaglianza. Siamo diverse e diversi e la preferenza è una leva che sprona a far meglio e ad essere sicure di sé e camminare baldanzose nel mondo. E narra della sua esperienza di “preferita” nella scuola.

«La preferenza, un guadagno teorico del pensiero del movimento delle donne, è stata valorizzata proprio per scalfire il discorso dell’uguaglianza, partendo dall’evidenza che non tutte siamo uguali. Ma la “preferenza” che fa crescere, non quella che toglie alle altre.»

Nel numero troviamo anche due saggi che evidenziano le diversità tra questa pratica e altre modalità di fare storia.

Marirì Martinengo analizza la storia personale, proprio a partire da un altro suo libro, La signora del monte. Vecchie storie a Monforte d’Alba (Neos edizioni, Torino 2011), proponendo una riflessione sulla memoria.

Graziella Bernabò esamina la sua esperienza di scrittura di due biogafie, una, Per troppa vita che ho nel sangue. Antonia Pozzi  e la sua poesia (Viennepierre, Milano 2004- Ancora, Milano 2012) e l’altra La fiaba estrema. Elsa Morante tra vita e scrittura (Carocci, Roma 2012) e ne trae indicazioni su come narrare l’esistenza delle donne.

«Occorreva interrogarle – ci dice – da altre vie rispetto a quelle tradizionali, rintracciando i segni che comunque nel passato esse ci avevano fatto giungere, e che attendevano solo di essere colti, con un superamento di pregiudizi e  luoghi comuni.»

 

Il testo mi ha illuminato, nutrito di pensiero dirompente, innovativo che ha stravolto il mio modo di fare storia, improntato su schemi patriarcali. Ho capito che la storia parte da me, dai miei nodi irrisolti che rivedo con occhi nuovi,  narro e a cui do un significato diverso, nutrito dal senso libero del mio essere donna.

Le autrici le conosco e dopo la lettura di questi testi la mia relazione con loro si è arricchita di pensiero e ricchezza simbolica.

E concludo con alcuni passaggi di una delle filosofe che ammiro di più in assoluto: Maria Zambrano. Gli stralci di pensiero che riporto sono citati da Marirì Martinengo nel saggio sulla storia personale.

«Senza dubbio all’origine della memoria c’è la ricerca di qualcosa di perduto […] qualcosa che esige di essere nuovamente guardato […] Vedersi ciò che si vive e il vissuto, vedersi vivendo […] ricordare, vedere di nuovo […] tornare a vedere esseri e cose afferrati sempre a metà […]. […] la Memoria si presenta così, come arte e sapienza del tempo, la memoria che nella sua servitù, custodisce, come in un’antica misteriosa arca, la libertà […].»

(María Zambrano. Il metodo in filosofia o le tre forme della visione, aut aut, n.279/1997, p.71)

 

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