4 Settembre 2007

Sulla Storia vivente – Lettera a Via Dogana, n°82

di Luciana Tavernini


Care amiche della Redazione,

credo che nelle nostre vite sia nascosto un tesoro da scoprire. Penso che ora sia il tempo-kairòs, l’occasione storica per farlo.

Con l’autocoscienza abbiamo imparato che la nostra esperienza poteva essere narrata, che aveva senso il nostro disagio e che potevamo sperimentare pratiche e rapporti nuovi perché esisteva una società femminile che li accettava. Nelle “relazioni senza fine” con un’altra donna abbiamo trovato la capacità di vedere e inventare strade per realizzare i nostri desideri, abbiamo avuto la forza per creare imprese visibili che hanno trasformato il mondo (ad esempio la famiglia, la scuola, il lavoro). In incontri politici più ampi abbiamo messo in gioco parole che significavano questi cambiamenti. Ne abbiamo parlato, scritto ed è visibile in molte forme artistiche la differenza femminile.

Ma circola il desiderio di andare più a fondo e diversi interventi degli ultimi due numeri lo testimoniano: Marina Terragni, per evitare l’omologazione delle donne ai modelli maschili, sottolineava la necessità di portare alla luce elementi del simbolico femminile attraverso un ritorno a una sorta di pratica dell’inconscio; Emma Schiavon chiedeva di cominciare a diffondere i nostri racconti; Antonietta Lelario, pur infastidita dalle richieste “di dar parola a ciò che noi donne abbiamo fatto in questi anni”, sottolineava poi l’importanza “di chi è consapevole dello iato tra parole e cose e lavora perché le esperienze siano nominabili”.

Credo proprio che vi sia ancora molto da scoprire e da dire su ciò che permette a tante, sempre più, donne di vivere libere e anche su ciò che ci è di ostacolo.

Nella Comunità di pratica e riflessione pedagogica e di ricerca storica da vent’anni abbiamo sentito la necessità di andare al passato perché riteniamo la storia il controcanto della politica, ciò che può darle profondità e spessore, perché sempre sono esistite donne libere. Dialogando con loro attraverso quello che ci hanno lasciato potevamo da un lato vedere e confrontare le loro pratiche con le nostre e dall’altro rafforzare noi stesse e le giovani donne, creando una genealogia femminile, e sviluppare negli uomini un’attenzione alla differenza, destrutturando la storia dei padri, vero pilastro fallico, piantato nei tempi dei tempi.

Poi Marirì Martinengo, la maestra della nostra Comunità, ha seguito il suo desiderio-bisogno di dar voce alla storia vivente che si annidava in lei e ha trovato la forza per portarla alla luce e, nel farlo, ci ha consegnato un guadagno per il presente. La tormentava da sempre il silenzio che nella sua famiglia circondava la nonna paterna, resa muta, in vita dall’internamento in una casa di cura e poi da morta dal tentativo di cancellarne la memoria. Si riproponeva in lei il dramma di molte donne, ma anche uomini, che, pur non essendo responsabili di violenze, si sentono colpevoli per non riuscire a impedirle, che non vogliono essere complici della congiura del silenzio ma che trovano inadeguata la risposta dell’odio contrapposto verso l’oppressore perché non va alla radice e avvertono quanto non intacchi la possibilità della ripetizione. E allora, a partire dalla carenza, dal vuoto di interpretazioni, Marirì ha scritto La voce del silenzio (ECIG, Genova 2005), indagando la contraddizione e il doloroso conflitto che si apriva in lei e, attraverso il lavoro complesso della costruzione del libro, ha redento se stessa da questo delitto, mostrandoci al contempo una via per riscattarci da episodi storici traumatici, una via dove entra l’amore e la relazione. Lo ha evidenziato María-Milagros Rivera Garretas in due occasioni, a Milano nell’incontro al Circolo della Rosa “Come raccontare vite infinitamente oscure?”, proprio a partire dal libro di Marirì, e successivamente a Roma al XII Symposium Il pensiero dell’esperienza.

Lei faceva l’esempio dell’Olocausto, come di un crimine del passato dal quale vorrebbe assolversi o essere redenta da un’interpretazione storica che faccia simbolico, che non sia ideologica. Rimaneva insoddisfatta, quando ne discuteva nei corsi, nonostante il grande interesse e impegno suscitato, perché sul fondo restava l’odio per il popolo tedesco. E “non c’è redenzione se l’odio prevale. E se non c’è redenzione la storia può ripetersi”. Non aveva saputo “trovare la porta stretta che lasciasse passare l’amore nell’interpretazione della storia” perché non aveva messo in gioco l’esperienza personale di un altro crimine, la Guerra civile spagnola, ereditato concretamente dalla storia di suo padre e sua madre. In Spagna nel 1975 si cercò di sanarlo col “patto dell’oblio” o all’inverso con testi di memorie che seguono schemi interpretativi dati, come quello di vincitori/vinti. Ma dimenticare e ricordare sono operazioni simili, perché non vi è interpretazione libera di sé e non si produce quella modificazione interiore che apre a un altro ordine di relazioni.

Noi stiamo sperimentando una pratica che scavi nei conflitti irrisolti, nei nodi problematici, celati nella storia personale di ciascuno e ciascuna, mostrandoli ad alcune altre a cui ci lega una relazione lunga, forgiata dall’aver realizzato insieme progetti, dall’aver superato conflitti. Non avendo condiviso l’autocoscienza, abbiamo lasciato in ombra il vissuto personale, che ora può essere messo in gioco in modo da far emergere elementi del simbolico che ci guidano. Non si tratta di un’autobiografia e neppure di storia orale perché la garanzia della verità è sentire corrispondenza tra le parole trovate e l’esperienza, in una relazione di affidamento alle altre.

Ci pare che altre si trovino oggi in una situazione simile alla nostra, di donne che si sentono tranquillamente libere, che hanno costruito forti relazioni, che sono per questo in grado di indagare le situazioni che chiedono di essere interpretate in un modo che possa modificarci e quindi modificarle. Il passato, come suggeriva Sandra De Perini nell’incontro di Milano, contrariamente a ciò che si crede comunemente è reversibile in quanto si può cambiare la sua eredità, quell’interpretazione che ci può inchiodare nella ripetizione. Dunque è un invito a cogliere l’occasione presente, suggerendo questa pratica di parola, di relazione, di scavo e significazione.

Luciana Tavernini, a seguito delle discussioni con Marirì Martinengo, Laura Minguzzi, Marina Santini.

Print Friendly, PDF & Email