20 Ottobre 2009

Immagina che il lavoro

Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano
IMMAGINA CHE IL LAVORO
un manifesto del lavoro delle donne e degli uomini
scritto da donne e rivolto a tutte e a tutti
perché il discorso della parità fa acqua da tutte le parti
e il femminismo non ci basta più
Sabato 24 ottobre 2009, Casa della Cultura, via Borgogna 3, Milano

Abbiamo messo in mano il manifesto a donne e uomini, sollecitando pareri e reazioni.
Quelli che seguono sono alcuni dei commenti che abbiamo raccolto.
Fulvia Bandoli, politica ambientalista
Chiara Bisconti, responsabile risorse umane Sanpellegrino
Loretta Borrelli, movimento studenti dell’Onda
Susanna Camusso, segretaria confederale CGIL
Pat Carra, fumettista
Luciana Castellina, giornalista e scrittrice
Arianna Censi, segreteria provinciale PD, Milano
Giuliana Chiaretti, sociologa, Università di Venezia
Franca Chiaromonte, senatrice, giornalista
Don Raffaello Ciccone, responsabile per la vita sociale e il lavoro, Arcidiocesi di Milano
Roberta Cocco, responsabile marketing Microsoft Italia
Marco Deriu, sociologo, Università di Parma
Silvana Gallizioli, lettrice
Giulia Ghelfi, ricercatrice di marketing
Sabina Guancia, presidente Associazione famiglia Acli/Cisl
Giovanni Invitto, docente di filosofia teoretica, Università del Salento
Paolo Lazzaretto, artista
Alberto Leiss, giornalista e scrittore, DeA
Paola Liberace, giornalista e blogger, Il Sole 24 ore
Linda Liguori, consulente marketing
Mimma Marotta, lettrice
Lea Melandri, saggista e scrittrice, Libera Università delle Donne di Milano
Laura Mora Cabello de Alba, docente di diritto del lavoro, Universidad de Castilla-La Mancha (E)
Giorgia Morera, educatrice Comunità Giambellino, Milano
Letizia Paolozzi, giornalista e scrittrice, DeA
Laura Pennacchi, economista e politica, Fondazione Basso
Marina Piazza, sociologa
Marcella Pogatsching, filosofa, Università di Pavia
Liliana Rampello, docente di estetica, Università di Bologna
Rosanna Santonocito, giornalista e blogger, Il Sole 24 ore
Anna Soru, presidente Acta, associazione consulenti terziario avanzato
Aldo Tortorella, giornalista e politico, presidente ARS
Alain Touraine, sociologo, École des hautes études en sciences sociales, Paris
Chiara Valentini, giornalista, L’espresso

Fulvia Bandoli, politica ambientalista
Da un po’ di anni quando leggo un testo politico so che non devo aspettarmi grandi emozioni. Il vostro ultimo Sottosopra invece mi ha spiazzata, si legge bene da cima a fondo, ha forza e me l’ha trasmessa. Io mi occupo di ecologia, anzi è più corretto dire che l’ecologia si occupa di me e di noi (come del mondo) anche se gran parte degli economisti ancora non se ne rende conto e non la calcola, come molte altre cose, nel Pil. La parola che ho usato di più in questi vent’anni per spiegare quel che vedevo cambiare intorno a me, nel lavoro e nella vita, è stata proprio “manutenzione”. Manutenzione più che produzione di troppe merci o case, manutenzione dell’assetto idrogeologico del territorio, delle città, del patrimonio edilizio e dei trasporti, delle reti di ogni genere prima tra tutte quella dell’acqua. E mi son trovata a sostenere tante volte che non di opere grandi e di
operai e operaie per costruirle avremo più bisogno ma di manutentrici e manutentori di ciò che già c’è, di quell’esistente in natura ma al contempo limitato. Meno merci, più servizi e più relazioni (come quella, intensa, che mia madre e la donna che si prende cura di lei hanno iniziato da qualche mese, e che per quella donna è anche un lavoro che le dà da vivere).
Dunque potete immaginare quanto mi sembrino reali e vere le cose che avete scritto e quanto possa essere fecondo definire un bel pezzo di lavoro futuro “arte della manutenzione dell’esistenza”.
Spero che il vostro testo parli forte come ha parlato a me, a tanti e a tante, a destra ma purtroppo anche in altri perimetri, che il lavoro non sanno più in quale posto metterlo e quale ruolo abbia, e non trovano le parole per definirlo e valorizzarlo. Avevate scritto nel vostro quaderno Il doppio sì che “il lavoro che fanno oggi le donne è più basicamente lavoro: intreccia produzione di cose e di simboli e riproduzione della vita propria e altrui.” Con l’ultimo Sottosopra vi spingete oltre, come a dire che “tutto” il lavoro che fanno oggi le donne (e il loro modo di interpretarlo, di piegarlo e contrattarlo negli orari e nei modi) è la strada per ridare un senso al lavoro di tutti e di tutte e soprattutto una critica forte agli indirizzi dello sviluppo e al mercato come finora li abbiamo conosciuti.

Chiara Bisconti, responsabile risorse umane Sanpellegrino
Ho letto con grandissima commozione la parte “Doppio sì” del manifesto. È bellissima.
In generale mi piace molto la vostra idea, è attuale e necessaria in questo momento.
In più mi piace molto lo stile anticonformista e femminile che usate (mi piacciono queste parole in libertà e l’idea che ci sia più intuito che razionalità nel presentarlo).
Insomma, bel lavoro, state facendo quello che è necessario, nel momento giusto e con il modo giusto.

Loretta Borrelli, movimento studenti dell’Onda
Ho letto il Sottosopra e lo trovo molto interessante, soprattutto per quello che riguarda l’analisi del lavoro gratuito e la possibilità di un’organizzazione diversa del lavoro. Io purtroppo però non ho una famiglia e non sono caricata da alcun lavoro di cura, per questo alcune sfumature forse mi sfuggono. Non so se nel mio futuro sarà prevista questa opzione perché, come dite anche voi, siamo diventati soggetti abbastanza liberi da escludere dal campo delle possibilità la maternità o la famiglia, facendo riferimento a una costellazione di altre relazioni, ma mai dire mai. Tuttavia nel mio lavoro trovo che sia centrale l’analisi del lavoro prestato gratuitamente. Mi occupo di applicazioni internet e analizzo spesso quelli che vengono chiamati social network. Si tratta di interi
sistemi basati sullo sfruttamento delle proprie vite narrate a titolo gratuito e assolutamente volontario dagli utenti. Sono strutture che producono davvero tanta ricchezza, e che trovano il loro punto di forza proprio nel processo di automazione e astrazione delle relazioni umane: questo naturalmente non ha un effetto positivo sulle relazioni fisiche. Penso però che un processo di trasformazione dei rapporti che non faccia esclusivamente riferimento al lavoro salariato possa essere una chiave interessante per l’analisi di una economia che sta prendendo sempre più piede.

Susanna Camusso, segretaria confederale CGIL
Ho letto con molto piacere Sottosopra-Immagina che il lavoro, perché da tempo sentivo il “bisogno” che illavoro diventasse tema della riflessione delle donne. Penso, infatti, anche a costo di essere eretica, che il femminismo si sia fermato alla soglia del lavoro; sento la mancanza di un pensiero collettivo sul lavoro, che lo affronti non solo come necessità, come salario aggiuntivo in “famiglia”, ma lo legga anche come desiderio, progetto, realizzazione, scelta, libertà. Come sempre, il pensiero in verità c’è, attraverso molte riflessioni, nel vostro lavoro lo si ordina e propone: non ho condiviso tutto, molto va pensato e non solo letto in acrobazie di tempo; vi invio qualche prima riflessione,
intravedendo non un pensiero che si conclude, ma una ricerca che si apre.
L’organizzazione del lavoro, anche quella meglio contrattata e condivisa, è a misura di uomo. L’organizzazione del lavoro è assunta, spesso/sempre, come appiattita, vincolata, determinata dalla tecnica e dagli obiettivi, ed in ragione di quella organizzazione si determina l’orario, la professionalità, l’interazione e nella oggettivazione asettica non si considerano le relazioni, né quelle fra, né quelle con, non l’interno, non l’esterno.
Eppure, anche quando molte lavoratrici si descrivevano come lavoratrici per necessità, anche allora nel loro lavoro c’era la relazione. La qualità delle relazioni era di per sé tratto distintivo del loro lavoro, ignorato nelle valutazioni, nei manuali, nei riconoscimenti.
Un modo diverso di stare nel lavoro, anche una lettura del luogo di lavoro, come un fuori, un posto dove cambiava il rapporto tra i tanti lavori e quello retribuito, nello stesso tempo una ricerca di come tradurre quello che abbiamo titolato in tanti modi ma continua a racchiudersi nel concetto di discriminazione. Discriminazione che ha tanti volti, tante pratiche ed una ragione di fondo, la contesa del campo maschile, dello spazio, del potere che dal lavoro (e dalla sua gerarchia) deriva. La parità è parsa per lungo tempo la risposta, la strada per superare la discriminazione. Aveva tra gli altri il limite di assumere quell’organizzazione come unico modello a cui pretendere di appartenere, omologando i
comportamenti, ed un secondo straordinario limite: accettare di essere categoria che doveva conquistare la condizione di soggetto, un essere “fragile” da proteggere per diventare forte. Se la guardiamo oggi, parità sempre più spesso dice di una sommatoria di diversità, sommatoria di esclusi o di potenziali esclusi dal modello maschile, ma anche di uomo bianco ed eterosessuale, magari di mezz’età. Parità, pari o meno, ha segnato un periodo, ma oggi offre prevalentemente la conservazione di un modello, e non ha ridotto la discriminazione: ha cambiato forme, pratiche, ma resta profonda.
La discriminazione si concentra in gran parte sulla maternità, ma non solo, tutto ciò che parla di libertà si scontra con la discriminazione, con la negazione.
Un misto di forme di difesa (del territorio), di paura dell’ignoto.
Non si cambia solo a partire da noi, dalla differenza, si cambia con, è uno dei fili di Sottosopra.
Penso che la discriminazione, quella che reputo più forte, tagliente, la maternità, si cambia solo superando l’idea di qualche permesso per conciliare; ovvero se la condivisione da privata, irrompe sulla scena pubblica, se costringe a non essere più il “costo del lavoro” di un genere ma un costo collettivo.

Tradotto: con la “paternità obbligatoria”, per togliere l’alibi del chi guadagna di più, per smitizzare l’assenza di un periodo come ragione del cambio di prospettiva di qualificazione, o di carriera. Il cambiamento qualche volta va forzato, perché non deve apparire un ignoto da allontanare, ma quotidianità. Maternità – che non è ovviamente solo il periodo di congedo, non lo è nel nostro vissuto, lo è molto nelle logiche
aziendali – la maternità, dicevo, propone molti altri passaggi di lettura e rilettura del rapporto con il lavoro, della qualità e tenuta delle relazioni, anche la modifica delle aspettative che trovano equilibri diversi.
Non per tutte è uguale, ma non per tutte il tema ruota intorno alla scelta di maternità.
Molte volte mi sono interrogata su quale era l’elemento trasversale, il filo da tirare per parlare e valorizzare il lavoro retribuito delle donne, per intervenire sulle discriminazioni di qualità del lavoro, di riconoscimento professionale, di carriera.
Molte volte mi sono interrogata perché le donne, e in particolare le donne giovani, parlano di merito, lo rivendicano come criterio senza quel disvalore al termine che ha caratterizzato la cultura politica della mia generazione e senza cogliere le modalità con cui il merito è letto nelle aziende e nella cultura organizzativa dominante.
La mia riflessione ruota intorno al termine “tempo”. Perché tempo è quello dell’ingresso, della maternità, dello studio, dei tanti tempi che ognuna può immaginare per la propria vita, ma tempo è anche il tiranno quotidiano, acrobate del tempo è certamente formula immediatamente comprensibile per tutte. Tempo chiama orario come grande crinale del vincolo o della libertà. Orario in tutte le sue forme. Tempo, però, è anche un metro di misura nel conformismo delle decisioni sulle carriere, misura del merito, misura della tua appartenenza al club dei decisori, dei fidelizzati. Tempo è misura dell’esclusività dei tuoi interessi, tempo è dedizione, fedeltà, finanche asservimento. Se distribuisci il tempo tra tante attività, lavori, scelte, se la quantità di tempo non è l’unica misura delle tue
relazioni, il tuo “merito” sarà meno merito, una pizza con il caporeparto può essere più “utile” di una corsaall’asilo, o di una buona lettura.
Ma il tempo è il grande assillo di un lavoro che attraverso i sistemi di comunicazione può invaderti in ogni momento, la scansione delle giornate, i ritmi dello scorrere delle ore sono ignorati da un cellulare, un computer, un palmare.
Quale libertà, quale non discriminazione se non si ripropone il “governo” del tempo come punto di partenza?
Questa domanda si ricollega alle ragioni della crisi, all’inseguimento della ricchezza per pochi, al consumo come unico scopo, alla riduzione del reddito del lavoro. Fermare la corsa al consumo del mondo, è il tratto delle donne, anche da questa angolatura il “tempo” può essere il filo da prendere.

Pat Carra, fumettista

Luciana Castellina, politica, giornalista e scrittrice
Nell’era dell’emancipazione, che è anagraficamente la mia, sia io che le altre impegnate in lavori pagati, faticavamo molto più degli uomini per il timore di sentirsi dire, per via di un’assenza o di una stanchezza: “si capisce, sei una donna”. Ora, grazie alla nostra indefessa dedizione ce l’abbiamo quasi fatta: siamo entrate alla grande nel mercato del lavoro. Evviva.
Nel frattempo però, avendo capito che la mia smania di mimetismo era senza senso e che non nascono bambini neutri, bensì femmine e maschi, ho bisogno di altro. Quando leggo – nei giorni scorsi su Il sole-24 ore – che nella categoria managers il 95 % dei maschi ha figli mentre ha prole solo il 30% delle femmine (pur ormai assai numerose) mi sembra di poter prevedere per il futuro una crescita zero. Giacché ormai nessuna rinuncerà più a lavorare, sia per necessità che per scelta. Che non è problema delle donne, ma della società nel suo complesso ed è incredibile che nessun maschietto se lo ponga.
Sempre nell’era dell’emancipazione ritenevamo che la questione potesse esser risolta dagli asili nido e dagli elettrodomestici. Che in effetti sono stati e sono importantissimi, ancorché non risolutivi, il lavoro di cura essendo cosa non interamente socializzabile né affidabile alle macchine. Così come non va bene l’altra idea che circolava negli anni ’70, quella del salario alle casalinghe: perché il lavoro di cura non è monetizzabile, resta una
maledetta obbligatoria esclusione delle donne dal gusto di lavorare fuori dalle mura domestiche. Così come il part-time, che condanna alla marginalità su tutti e due i terreni. E allora?
Allora bisogna, per difficile che sia, cambiare il lavoro, i tempi della vita, un’operazione possibile solo se si rende visibile il lavoro non pagato storicamente riservato alle donne. Che non va valutato solo economicamente, ma socialmente e culturalmente. Assunto cioè non solo nella contabilità nazionale (nel Pil) ma nell’economia della vita. Fare questa operazione significa modificare valori, comportamenti, consumi, servizi, bisogni, in definitiva il modello di società.
Ci abbiamo provato: ricordo un bel convegno della sezione femminile del Pci negli anni ‘80 (responsabile era allora Livia Turco), dedicato a “I tempi delle donne”. Non ebbe seguito, né eco adeguata fuori dalle addette ai lavori. Forse anche perché non avrebbe dovuto chiamarsi “I tempi delle donne”, ma “I tempi della vita”.
E comunque non dimentichiamo mai che la qualità del lavoro non è sempre la stessa. Fare bambini e occuparsene è molto più gratificante che fare microprocessori, assai meno che fare ricerca scientifica. Resta per ambedue il piacere di essere economicamente autonoma, ma non basta. Voglio dire che occorre anche cambiare la qualità di ogni lavoro, facendo in modo che quelli ripetitivi siano socializzati fra tutti: un po’ come le vecchie quattro ore di studio e quattro di lavoro che ipotizzammo con il manifesto. Altrimenti non ne usciamo. Oramai anche molti maschi preferirebbero stare a casa, se potessero.

Arianna Censi, segreteria provinciale PD, Milano
Ho letto Sottosopra-Immagina che il lavoro con attenzione e crescente emozione.
Con semplicità voglio dirvi grazie per essere riuscite a comunicare ciò che da tempo sento, che l’esperienza di questi anni ha sempre più confermato.
Trovare le parole, il modo e la giusta misura per parlare di donne e uomini, di economia ma soprattutto di mercato e ancora di relazioni e libertà, così come sapientemente siete riuscite a fare, mi dà speranza e anche un po’ di coraggio.Sono d’accordo su tutto, come dice Laura Pennacchi. Vorrei che la politica, quell’altra per intenderci, trovasse il coraggio e la forza per mettersi in discussione, partendo proprio dal guardare oltre e forzare i confini, trovare vantaggi e far crescere la libertà. Parlerò del manifesto, lo citerò, lo riprenderò nei contenuti in ogni occasione che mi sarà concessa, perché è
questo il tempo. Grazie di cuore.

Giuliana Chiaretti, sociologa, Università di Venezia
1. Le parole e i pensieri che mi convincono e emozionano:
Oggi non trovi una sola donna che si senta “categoria debole.
Mi emoziona sentirlo affermare pubblicamente e nettamente perché mi fa pensare alla storia delle donne, alla mia storia, perché so che posso condividere questa emozione con altre. Oggi non mi sento una persona “debole”, né penso che lo siano o che sentano di esserlo altre donne. So anche che molte donne quando si sentono deboli hanno la capacità di chiedere aiuto, di comunicare le loro difficoltà, con dignità. Non chiedono di essere protette, ma di essere sostenute sì. Non mi interessa, non aspiro a dire la mia parola su tutto, ma quando mi trovo in una situazione pubblica in cui penso di poter “dire la mia” e riesco a farlo, vivo un momento di felicità.
Più che essere pari agli uomini (le figlie e le nipoti) si chiedono piuttosto come diventare pari a se stesse. È una domanda che forse non conosce distinzioni generazionali. La condivido pensando alle figlie e alle nipoti ma anche a me stessa e alla mia generazione. È una domanda che può colpire, attrarre, interrogare, ma anche risuonare allettante e seducente. È un modo più aggressivo che pensare e dire che la vita può essere un percorso in cui si diventa se stesse/stessi? Dietro la vostra domanda ritrovo una lunga storia, forse anche per questo la domanda mi convince. Mi è piaciuto leggere subito dopo il punto 8 – Dire Ascoltare Contrattare – con un solo, ma” (vedi di seguito).
2. Le parole che cambierei:
Manutenzione, perché ha il significato di conservazione o ancor peggio di ripristino dello stato precedente.
È associata al management e riferita alle cose e non alle persone, insomma non è matrix del futuro.
Contrattare Non penso che dobbiamo liberarci a ogni costo del gergo economico e sposare ad esempio quello suggerito dal paradigma del dono ed è anche vero che il senso delle parole deriva dal contesto, che la parola “contrattare” è preferibile a “conciliare”. Ma non mi piace l’idea di dover “contrattare tra me e me”, negoziare forse? E comunque non sempre o ad ogni costo. È anche necessario scegliere.
3. Le parole che toglierei:
Lavoro di cura, inserito in un elenco di parole giudicate astratte, edificanti e deprimenti.
Franca Chiaromonte, senatrice, giornalista Alcune note di una grata lettrice
1. La lettura di questo numero di Sottosopra, innanzitutto, è stata piacevole non solo per i contenuti, sui quali entrerò ora nel merito, quanto per lo stile, vivace, discorsivo e coinvolgente, capace di ritmare temi generali a vita quotidiana e vissuti personali.
2. Anche la grafica risulta bella, forte della sua semplicità, leggibile.
3. Sono molti anni che la Libreria delle donne di Milano si occupa di lavoro, in particolare delle donne, e ancora una volta il gruppo dimostra di poter non solo contribuire alla discussione ma, ancora una volta, di saper capovolgere il punto di vista troppo usuale.
4. Ma ora una critica! Continuo a pensare, e certo i tempi e più in generale la qualità dei servizi nel nostro paese purtroppo mi danno ragione, che il “Doppio Sì” sia, ma questo voi lo dite, molto difficile da vivere e da attuare, e che (e qui vi provoco ridendo) il potere non sia conciliabile con la maternità!
5. Su una cosa, invece, mi pare siamo d’accordo: le donne, ai diversi gradi di lavoro che ricoprono, sviluppano una maggiore potenzialità culturale e relazionale, e arrivano sempre a un maggiore livello di professionalità rispetto agli uomini, qualsiasi siano i luoghi di lavoro.
6. Vent’anni fa una donna che fosse approdata a una riunione femminista rivendicando le virtù dell’agire e dell’arte domestica sarebbe stata trattata come un essere strano! Oggi infine con questo numero di Sottosopra anche queste donne possono tirare un sospiro di sollievo!

Don Raffaello Ciccone, responsabile per la vita sociale e il lavoro, Arcidiocesi di Milano
Debbo particolarmente ringraziare per avermi inviato il documento-manifesto Sottosopra, scritto da donne e rivolto a tutti, donne e uomini del nostro tempo.
Ci si immagina, in genere, che la raggiunta proclamazione della parità abbia concluso ogni itinerario di rivendicazione femminile, ritenendo tutto il resto chiacchiera insignificante. E invece il vostro manifesto denuncia che esiste una mentalità distorta, nella lettura della società e del tempo di lavoro, rilevando in particolare, giustamente, una infinità di problemi che non si possono ignorare.
Mi avete chiesto una riflessione per il fatto, ritengo, che mi occupo della “Pastorale del lavoro” nella Curia di Milano. Vi invio, perciò, alcune impressioni che il vostro scritto mi ha suscitato, chiarendo che sono miei pensieri e non quelli del Cardinale, né quelli della Curia di Milano, ma di un sacerdote che da anni si occupa del mondo del lavoro e che fa parte della Curia di Milano.
Il vostro commento compie un’operazione molto precisa e profonda: non reclama nessuna omologazione, poiché è cosciente delle capacità, della ricchezza e della novità che ciascuno porta e quindi non chiede cartelli di parità che, alla fine, riproducono sempre il modello maschile. Ciò che voi rivendicate è una pluralità di presenze essenziali nel mondo, presenze cariche di novità e di prospettive che possono rendere più bello, più ricco e più fecondo il percorso dell’umanità entro cui ciascuno cammina. Affermate la dignità di un patrimonio particolarmente vostro che comporta una propria sensibilità, attenzione, originalità, e chiedete che ognuno sia rispettato come persona umana. Ed è molto importante che vi rivolgiate a donne e uomini, oltrepassando le contrapposizioni di genere.
Il vostro documento, ovviamente, non vuole trattare tutti i problemi sul tappeto, ma parte da una angolazione molto precisa e concreta del rapporto tra lavoro e vita, chiedendo che il lavoro non prevarichi, con le sue esigenze, sulle persone, e in particolare in questo caso, sulle donne ma, che pur indispensabile, ridimensioni le sue pretese perché più grande del lavoro è la vita stessa. E giustamente.
Non bisogna mai dimenticare il significato della festa del 1° maggio che pone il problema che oggi non è più ovvio sull’orario di lavoro. “Il 1° maggio 1886, infatti, i più grossi centri industriali degli USA furono teatro dell’inizio di uno sciopero generale operaio. I proletari americani rivendicavano una giornata lavorativa di 8 ore ed il miglioramento delle condizioni di lavoro”.
Accettate questo limite coscientemente; infatti, altrimenti, la problematica si allargherebbe al tema educativo, al rapporto tra generazioni, al diverso influsso della paternità e maternità sui figli, al rapporto di coppia, ai problemi dell’ecologia e della società, della globalizzazione ecc. Tuttavia, per molti versi, la vostra analisi si allarga ai significati dell’esistenza, del lavoro, della relazione, della politica, e molto altro.
Sappiamo, anche, tutti che il contesto che stiamo vivendo, in grande cambiamento, vive una drammatica crisi.
Anzi, potrebbe far credere che si sappia finalmente riflettere su una realtà che ha enfatizzato fortemente il lavoro ed impoverito relazioni ed esigenze umane. Ma se è vero che è crollato il sistema economico, non è crollato il sistema ideologico che ha supportato quel sistema.
Se ci illudiamo che, con la crisi dei mercati finanziari, si possa automaticamente realizzare una trasformazione ampia del nostro mondo, ci sbagliamo perché il principio culturale, che ha convinto milioni di persone della bontà del percorso dell’arricchimento e della pura crescita quantitativa, che voi denunciate attraverso la vostra presa di coscienza, è ancora in piedi.
Questo è il principio che dobbiamo cercare di abbattere, costruendone uno diverso. E il vostro manifesto suggerisce alcune linee che mi sembrano molto interessanti e condivisibili.
1. Prima di tutto “la relazione”: ma già la parola, in particolare in azienda, viene equivocata come rapporto sessuale o dipendenza. La dignità di ciascuno esige di essere considerate persone e responsabili di un’operosità che si gioca in termini di lavoro comune. Perciò la relazione suppone una capacità e una competenza che interagiscano correttamente nel lavoro e coinvolgano la presenza operativa degli altri. Relazione perciò significa rispetto e riconoscimento reciproco delle doti, delle risorse umane e dei limiti, fondamentali per un rapporto comune. Questo vale sia per il rapporto tra uomini e donne che per quelli tra uomini e tra donne.
Più avanti, contrapponendo potere a relazione, ridefinite con chiarezza che la relazione è offrire e ricevere (anche la critica, anche il vero conflitto) per far nascere fiducia, crescere e “guadagnare insieme” in umanità.
2. La vostra esigenza di saper unire vita e lavoro richiama a una grande capacità di sintesi che permette di vedere l’orizzonte, le esigenze, le possibilità di sviluppo e di bisogno che la vita propone.
3. È importante riconoscere l’attitudine delle donne alla casa, alla convivenza, alla preferenza di stare accanto alla vita; e la vita è più importante del lavoro.
E, mentre richiamate spesso l’importanza del piacere di stare con i figli da una parte, dall’altra vi rammaricate che non si tenga conto delle esigenze della maternità, né dell’importanza della presenza costante in alcuni tempi di vita dei figli che crescono.
Nello stesso tempo, però, la nostra società pretende che ci siano nuove leve di giovani capaci, responsabili, intelligenti e, insieme, considera la maternità, un intralcio al lavoro.
E’ anche vero che spesso le conseguenze della maternità portano all’emarginazione e che l’organizzazione lavorativa non ha una legislazione che preveda non solo il reinserimento (e questa è stata, però, una grande conquista, molte volte snobbata, purtroppo), ma anche previsti e opportuni aggiornamenti, attenzioni, ricuperi di competenze.
Sembra, tra l’altro, che non ci sia la preoccupazione di un futuro prossimo, carente di nascite, visto che il tasso di natalità per donna, in Italia, è all’1,3, tra i più bassi del pianeta. La maternità, e tutto ciò che comporta attenzione, rispetto, responsabilità, giustamente,non è solo una questione femminile, ma è problema di tutti. E questo va
ribadito con forza.
4. In due righe, avete sintetizzato il senso del lavoro: nella società il denaro è necessario per il cibo, gli abiti, la casa, ma è anche realizzazione, crescita, invenzione, progetto sociale.
In tutta questa riflessione, mi rendo conto, è sottesa la problematica dell’essere obbligati a lavorare per un reddito, (dato, tra l’altro, il gravoso costo della casa, mutuo o affitto) mentre non c’è la possibilità di ridimensionare il tempo pieno, in caso di bisogno, con un part-time (a cui pure, difficilmente, si acconsente).
Ormai, nella quotidianità, sono necessari due redditi pieni e il monoreddito rischia di porre il nucleo familiare sulla soglia della povertà. In questo contesto il lavoro può addirittura diventare un’ossessione.
5. Quello che passa sotto il nome di flessibilità, potrebbe essere una proposta positiva quando è concordata poiché, contrattando i tempi di lavoro in modo elastico, si può tener meglio conto dei tempi della vita.
Ma aggiungo anche alcune riflessioni molto interessanti sulle discriminazioni striscianti, e drammatiche, proposte dal Gruppo Promozione donna di Milano.
“In questi ultimi tempi poi, la legislazione del lavoro sta assumendo un carattere ulteriormente discriminatorio, quasi punitivo, si potrebbe dire, nei confronti della donna e in particolare della donna-madre. Sono stati approvati i licenziamenti mascherati da dimissioni: al momento dell’assunzione di una donna le si fa ancora firmare una lettera di dimissioni in bianco, senza data, che verrà utilizzata se la dipendente rimarrà incinta.
Altro che valore sociale della maternità!
Sono stati detassati gli straordinari, e quindi se ne farà sempre più ricorso, ma le donne, a causa del carico
familiare, non potranno certo aderire alle richieste in tal senso, perdendo punti sulle pagelle di merito che ormai
vengono contrabbandate come giusto strumento di valutazione del lavoratore o della lavoratrice.
Un’altra legge penalizzante in modo barbaro le lavoratrici-madri è quella dei turni di lavoro notturno, che ora
verranno estesi anche alle donne in gravidanza e a quelle con un/a figlio/a inferiore ad 1 anno, adducendo come
motivo che così potrebbero recuperare quel 20% salariale che in assenza del turno notturno non potevano avere
in busta-paga.
Sicuramente non si può difendere la famiglia e il valore della maternità senza contrastare questa legislazione che
fa arretrare di parecchi anni la vita sociale del nostro paese. Oltre a tutto ci sono forti spinte a livello politico sia
europeo che nazionale, per innalzare l’età pensionabile delle donne a 65 anni come quella degli uomini, senza
tener conto di quanto detto sopra e della scarsità dei servizi sociali nel nostro paese”.
6. Sottolineo ancora una frase che sembrerebbe paradossale per certe mentalità femministe, per altro in via di
superamento, ma è particolarmente interessante e molto indicativa: cioè “stanche di parità”. A mio parere, mette
in evidenza che il vero problema, oggi, è quello delle relazioni, e non solo quello delle rivendicazioni di genere.
7. Interessante anche la riflessione sul “merito”, “smascherandone la presunta oggettività”. È risaputo che solo
pochi, coraggiosi e intelligenti, accettano di avere come collaboratrici anche persone che vedono in modo
diverso problemi ed obiettivi
Mi sembra, però, che l’impostazione del lavoro, oggi, in azienda, giochi molto nel mettere in concorrenza
colleghi dello stesso ambiente e della stessa struttura, supponendo che, in tal modo, verrebbero stimolate le
proprie capacità migliori, vincendo sull’altro. Non ci si rende conto che, in tal modo, si creano l’inferno e
l’individualismo più sconcertante.
8. A questo punto è molto appropriato ciò che voi dite sul concetto di “politica”: trasformare i rapporti di forza in
rapporti liberi, e, dove c’è conformismo, sprigionare ricchezze personali.
La Dottrina sociale della Chiesa, quando imposta con chiarezza il significato politico e l’impegno sociale, fa
sempre riferimento alla centralità di ogni persona umana, di tutti i singoli, rifiutando le emarginazioni e
riconoscendo che ciascuno è portatore di valori e di competenze. E comunque, a ciascuno va riconosciuto il
diritto di ciò che serve per una vita dignitosa all’interno della propria cultura.
Perciò politica è cercare il “bene comune”, cioè lo sviluppo del diritto della vita e della sua dignità in ciascuno.
Non è la sommatoria dei beni di tutti, poiché, in tal caso, si rischia di agire politicamente per statistica o per
preferenze o per lobby, se non addirittura per consensi.
Le scelte dei diritti e dei valori sono più alte dei consensi di ciascuno perché si riferiscono alle scelte
fondamentali dello Stato che si è dotato di alcuni principi fondamentali. E noi, per fortuna, abbiamo un’ottima
Costituzione.
Mi sembra, infine, pur nell’orizzonte limitato di “vita e lavoro”, in cui vi siete coscientemente poste, che non si
intravveda una dimensione fondamentale, o forse non l’ho saputa cogliere: quella del valore del rapporto
familiare di presenza e di continuità che non si gioca solo con i figli, ma anche con il partner per raggiungere un
equilibrio come adulti e garanzia per la crescita dei figli, offrendo loro l’esperienza dell’amore e della presenza.
Il lavoro deve poter lasciare tempo anche alla coppia. Ma capisco che qui si toccano nervi scoperti di diverse
angolazioni di lettura e capisco che non si può cercare, in simili circostanze, se non ciò che unisce.
Grazie per i molti valori e significati di alta e grande umanità che avete raccolto.
Vi auguro una buona continuazione per un buon lavoro ed un cammino liberante.
Roberta Cocco, responsabile marketing Microsoft Italia
Ho letto con interesse il vostro manifesto e non ho potuto non soffermarmi sugli articoli 5 e 6, in quanto
affrontano temi a me particolarmente cari come quelli della conciliazione e degli attuali modelli organizzativi
delle aziende, che faticano a incontrare le esigenze delle donne.
È innegabile infatti che oggi le donne siano chiamate a sostenere un doppio ruolo: da un lato la cura della casa e
della famiglia è ancora di loro esclusiva competenza, dall’altro sempre più donne rivendicano il proprio diritto
all’autonomia e all’autorealizzazione; esigenza, questa, che le porta a considerare la propria carriera come un
9
obiettivo importante, nel quale investire tempo ed energie. Coniugare vita privata e vita lavorativa è un impegno
gravoso, che costringe a grandi sacrifici. Però è una battaglia che si può vincere. Non voglio negare che sia una
strada in salita, ma i segnali positivi non mancano. Nelle aziende più avvertite e attente, ai vecchi modelli
organizzativi stanno rapidamente subentrando pratiche di lavoro flessibili e innovative, che permettono di gestire
il tempo del lavoro con maggiore elasticità e autonomia; gli asili aziendali, che in passato erano considerati un
privilegio per poche fortunate, oggi sono percepiti come un servizio fondamentale per le donne che lavorano in
azienda; la diffusione sempre più capillare della tecnologia permette di raggiungere risultati – in termini di
conciliazione tra vita priva e professionale – inimmaginabili solo fino a pochi anni fa.
La conciliazione è possibile: io stessa ne sono un esempio. Ho 3 bambini piccoli – Andrea, Anna e Tommaso – e
un marito, eppure ho ruolo di responsabilità in Microsoft Italia, in cui ho la fortuna di lavorare da ormai 18 anni
e che mi ha sempre dato la possibilità di mettermi alla prova e di crescere.
Microsoft per esempio considera la flessibilità un valore e ormai da diversi anni ha creato le condizioni per
garantire ai propri dipendenti la possibilità di gestire in autonomia il proprio tempo: è un approccio innovativo e
lungimirante che mi auguro trovi presto un’applicazione concreta e diventi una buona prassi in tutte le aziende
del nostro Paese. E questo non solo perché credo possa rappresentare una risposta forte al problema
dell’abbandono del lavoro da parte delle donne dopo la maternità o a quello della conciliazione tra vita
professionale e personale, ma anche perché sono convinta che proponga modelli organizzativi efficaci e
all’avanguardia, suscettibili di aumentare la produttività e l’efficienza delle persone. In questo scenario i nuovi
strumenti tecnologici sono la chiave di volta. Avere a disposizione PC portatile o smartphone, per esempio,
permette di realizzare concretamente pratiche di lavoro che consentono di raggiungere gli obiettivi senza essere
intrappolati in strette modalità. Collegarsi alla mail aziendale anche da casa ci dà la possibilità di essere sempre
connessi e disponibili e questo significa che, pur non trovandoci fisicamente in ufficio, possiamo interagire con i
nostri collaboratori e svolgere le nostre mansioni e contemporaneamente non sottrarre tempo e attenzioni alla
nostra famiglia.
Personalmente sono convinta che la differenza di genere sia una risorsa e un patrimonio da valorizzare: una
maggiore presenza delle donne nei diversi ambiti professionali rappresenta un valore aggiunto e contribuisce a
una cultura aziendale realmente aperta.
Marco Deriu, sociologo, Università di Parma
Cura e servizio tra manutenzione e reciprocità
Fin da piccolo ho dato molto valore al lavoro di “manutenzione” dell’esistenza. Probabilmente perché nella
storia della mia famiglia – attraversata da molte malattie e da molti lutti – l’esistenza nostra o degli altri non è mai
stata data per scontata. Così i temi proposti nel Sottosopra-Immagina che il lavoro intrecciano il mio pensiero e
le mie pratiche quotidiane contemporaneamente su due versanti: il lavoro retribuito all’Università e il lavoro
domestico. Nel mio modo di stare nell’università cerco di essere fedele a piccole grandi scelte che mi fanno
sentire meglio con me e con gli altri. Cerco di tener conto delle esigenze degli studenti e delle studentesse per
definire modi e tempi dell’attività accademica. Incentivo la ricerca personale e do il più possibile spazio alle loro
passioni nel definire i programmi di studio. Considero gli esami un’occasione reale di incontro e di ascolto e non
una mera valutazione impersonale. Non ho mai accettato di far parte di alleanze accademiche anche quando
questo mi era proposto per opportunità di carriera.
In casa il mio impegno di cura e manutenzione non è minore di quello di mia moglie. Riordinare, pulire, lavare
la casa, far andare la lavatrice, stendere, stirare, far la spesa, far da mangiare, lavare i piatti, rammendare,
riaggiustare le cose rotte, condividere entrate e spese ecc. Nulla è mai delegato unilateralmente all’altro/a. Certo
ciascuno sa di avere qualche capacità o inclinazione particolare da offrire. Ma allo stesso tempo ognuno lotta
contro la tentazione della pigrizia anche verso le cose che non ama fare. Il confine tra giovarsi della cura degli
altri e il farsi servire in effetti è sottile e non può essere tracciato su una base quantitativa. Il confine sta nella
postura esistenziale: sentirsi in una dimensione di reciprocità continua oppure no. Quando si cura o si è curati,
quando si aiuta o si è aiutati, quando si consola o si è consolati, quando si insegna o si impara, quando si dona o
si riceve, bisogna ricordare che in questi momenti non si scambiano solo gesti, beni o conoscenze; ci si scambia
soprattutto di posizione. So che nella manutenzione e rigenerazione della vita ho bisogno dell’altra o dell’altro
tanto quanto l’altra o l’altro hanno bisogno di me. Non è un fatto di parità ma di reciprocità.
E questo valorizza le differenze perché ciascuno dà, chiede e riceve sulla base dei propri talenti e tesori, della
propria storia, delle proprie fragilità.
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Silvana Gallizioli, lettrice
Il discorso sulla parità fa acqua anche perché molte donne, in particolare coloro che hanno abbracciato la
filosofia della differenza, non hanno riconosciuto quelle donne che attraverso le pari opporunità affermavano
parità e valore della differenza. Ciò non toglie che io sia molto grata alla teoria della differenza sessuale. Sono
invece molto delusa da chi l’ha praticata!
Giulia Ghelfi, ricercatrice di marketing
Ho grandemente apprezzato le parole appassionate di chi guarda all’ordine sociale con spirito giustamente
critico, senza timore di affermare la femminilità come valore.
Condivido appieno le istanze di definitivo superamento di modelli culturali maschili ancora troppo radicati nelle
realtà aziendali dove – velato da mille ipocrisie – vige il primato della competitività estrema, dell’individualismo
e del bisogno di affermazione di sé a oltranza, che portano inevitabilmente ad atteggiamenti belligeranti e
coercitivi. Senza considerare che oggi la crescita del lavoro instabile e precario determina ansie, paure,
incertezze, che alla lunga riducono la capacità del lavoro stesso di creare legami sociali duraturi dentro e fuori
l’ambiente professionale.
Noi donne ben conosciamo il disagio creato dalla “atomizzazione” delle esperienze e delle relazioni sociali,
nonchè dalla domesticità come isolamento; e il nostro desiderio di superamento di ogni frammentazione
dell’esistenza e di quella insopportabile separazione del lavoro dalla vita mette in discussione in primo luogo
l’orientamento prevalente e pervasivo al successo economico come valore assoluto.
Sono convinta che per raggiungere modelli simmetrici di organizzazione dei ruoli occorrano modi nuovi di
relazionarsi – nella coppia, nella famiglia, nel lavoro, nei contesti sociali del quotidiano -, che contemplino la
messa in discussione dell’assetto dei rapporti e della gestione delle risorse, attraverso il confronto sistematico, la
negoziazione, la reciprocità, la condivisione, lo scambio di idee…
Certo, la tensione è ineliminabile, perchè fa intrinsecamente parte della relazione umana, ma è con il ricorso alla
creatività che si può tornare in equilibrio, senza dimenticare che l’ironia gentile è parte preziosa del corredo della
“signoria femminile” per affrontare le sfide della quotidianità.
Sabina Guancia, presidente Associazione famiglia Acli/Cisl
La lettura è piacevole sia per i contenuti che per la forma, ovviamente alcune analisi mi trovano pienamente
d’accordo altre un po’ meno. Mi permetto di porre l’attenzione sul tema della crisi e le donne forse perché lo
ritengo un problema serissimo. Nelle famiglie se l’uomo va in cassa integrazione le donne si trovano a gestire
una situazione pesantissima: si riducono le entrate e paradossalmente aumenta il lavoro di cura perché si deve
accudire anche il compagno depresso. Per quanto riguarda il proprio lavoro si accetta tutto, si diventa più
remissive, meno critiche. In sintesi penso che la crisi porti paura e la paura non favorisce il cambiamento. Questa
fase almeno va analizzata nel medio e lungo periodo e lavorare per soluzioni a breve e proposte strategiche
(interessante sarebbe un gruppo di lavoro specifico).
“Il doppio sì” mi sembra un percorso vincente e possibile perché le donne anche in una situazione economica
difficile non vogliono tornare a casa anzi sono più decise a tenere insieme lavoro, maternità, affetti, relazioni.
C’è bisogno di un modello che tenga insieme bene senza rigidità e soprattutto c’è bisogno di parlare anche alle
imprese sia piccole che grandi, perché riscontro una maggiore rigidità ad affrontare anche piccolissime richieste
di flessibilità. Qualsiasi proposta viene respinta e le dimissioni delle donne con bambini piccoli aumentano.
Stiamo facendo passi indietro anche dal punto di vista contrattuale: è difficile trovare negli accordi recenti
soluzioni ai bisogni di conciliazione. È questa una grande criticità anche se l’argomento sembra vecchio: per me
è di grande attualità.
Giovanni Invitto, docente di filosofia teoretica, Università del Salento
E… abbiamo vissuto male col rimpianto / di non essere state col coraggio in mano… / Ma ora è tempo d’essere
ciò che non fummo/ … prima che discolori il giorno. / Nel rischiare c’è sempre quel tormento che attanaglia/ …
e serra in un intrico di sbarre senza un esito. / Ma se voi non ci state andrò sola allo sbaraglio / bisogna pur
incominciare per un nuovo cammino della vita. / Spesso alziamo muri barriere limiti ai nostri sogni. / Noi donne
abbiamo orizzonti di fantasia / che si allargano a dismisura. / Noi mettiamo il grigio mantello del lamento. /
Vestiamoci di allegri pensieri per salvarci dalla routine più dura./ Lo spazio è proprio al di là delle nostre
amate comodità.
Nietta Rochira, Echi di Mare, La Valliva, Bari 1987
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Piccole storie e rifless ioni sul documento “Immagina che i l lavoro”
Quale lavoro?
Scena A. Sono docente universitario da quarant’anni di un ateneo meridionale, in un facoltà (prima
Magistero, oggi Scienze della Formazione) che dovrebbe aprire le porte all’insegnamento. Popolazione
studentesca in gran parte (l’80% credo) femminile di origine salentina. Quando ho il primo colloquio con lo
studente chiedo quale sia il lavoro del padre, e lì la risposta è: professionista, artigiano, pensionato ecc.
Quando chiedo il lavoro della madre, la risposta è: insegnante, ha un negozio… oppure: “Non lavora”.
Mangio la foglia e rilancio: “Perché non lavora?”. Risposta: “È casalinga”. La casalinga “non lavora”…
Lavoro, nella loro percezione, è solo il lavoro extrafamigliare, retribuito.
Il problema oggi, e non è solo della condizione femminile, è che, prima della qualità del lavoro, ci vuole il
lavoro. Nella mia esperienza, donne e uomini di quarant’anni due lauree, abilitazione, dottorato non trovano
lavoro. Due casi. M. L. 41 anni, divorziata a 19 anni su sua decisone, assessore della sinistra – senza compenso –
in un piccolo comune salentino, ieri ha avuto per la prima volta nella sua vita una chiamata a Vicenza per otto
ore “di sostegno” a scuola. Era felicissima per il suo primo “lavoro” pubblico. Lascia al suo paese i due genitori
anziani e l’uomo con cui si dovrebbe sposare.
P. 37 anni, divorziata, con una bambina di 8 anni, laurea, dottorato, per la prima volta ha avuto una supplenza
nella provincia di Como. Si sono trasferite lì.
Ma è la prima volta nella loro vita che “lavorano”? o hanno fatto un lavoro di “servizio/di cura” non retribuito né
riconosciuto come lavoro sociale?
1967. Ero, nella mia brevissima parentesi politica, vicesindaco della mia città. Mi si affidò il progetto Urban per
la bonifica-rivitalizzazione del centro storico e la finalizzazione di edifici a funzioni sociali. Io proposi che il
vecchio Convento, destinato a fine Settecento a “ospizio delle nobili decadute” tornasse ad essere luogo delle
donne. Il restauro e recupero funzionale dell’ex-Conservatorio S. Anna, così si chiamava quell’edificio, era per
destinarlo a Centro per le pari opportunità, come casa delle donne, anche per l’informazione e la qualificazione
del “lavoro di cura”. Feci presentare il progetto, a Lecce, da Luce Irigaray. Il progetto fu elogiato e finanziato
dall’U. E. Si realizzò. La successiva sindaca ne ha fatto solo un luogo per incontri culturali e per i matrimoni
civili.
E la politica?
Leggo nel documento in questione: “La caduta della politica: qualunquismo”. È l’Italia. In un romanzo di un
anno fa, si parlava degli anni di piombo, della complicità tra terrorismo rosso e strategia del terrore della destra.
Tornava il discorso sull’Italia fascista. Il padre, a suo tempo fascista, del protagonista br afferma: “Il fascismo di
Mussolini era un’ingenuità moderna. In fondo, e guardi che questo l’ho sempre pensato, il duce ha rovinato tutto.
Ha messo su una dittatura quando non ne aveva bisogno. Lo avrebbero votato in massa anche con elezioni libere,
no?” (Roberto Cotroneo, Il vento dell’odio). Dice niente dell’Italia 2009?
Vita e lavoro femminile
Dal documento: “Primum vivere è possibile purché si riesca a portare sempre più uomini ad agire nella
quotidianità della vita”. È il problema di fondo.
Vita e lavoro. Scena B. Sono nonno. Ieri mio nipote, di 5 anni, è rimasto solo con me: mi sentivo un elargitore
“di grazia” perché mia figlia, la madre, era al lavoro, mia moglie doveva andare a trovare la madre anziana e una
zia in ospedale. Mi sono offerto – per la prima volta – di pensare da solo al bambino. Ad un certo punto mi ha
chiesto della frutta, l’ho sbucciata e gliel’ho data. Poi ha detto: “Nonno mi fai una torta?”. La mia risposta,
sincera, è stata: “Non la so fare”. Dopo un poco: “Nonno, mi fai il bagnetto?”. Terrorizzato, ho risposto: “lo farai
ora che torneranno la nonna o la mamma e te lo faranno loro”.
La rassegnazione femminile
Non ci sono i tempi del lavoro femminile, perché esso coincide, nella famiglie medio-basse con la totalità del
tempo. Ricordo che qualche anno fa era di moda pensare alla “banca del tempo”: donne che si scambiavano ore
di lavoro, quando si sovrapponevano altri impegni.
Il lavoro di cura è, nel documento in questione, inserito tra il “lavoro indicibile”: quello che è necessario per la
vita. Il peggio è che anche tra il “lavoro invisibile”, è come se fosse trasparente o scontato come il giorno e la
notte, i muri di casa che non guardiamo più se non quando hanno delle crepe. È vero: la donna è sola e il lavoro è
lontano dalla vita reale.
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Il “Che fare?”
Leggo nel documento: “Ci sono tanti livelli di risposta, secondo i contesti della vita personale e collettiva, con
una costante: non adottare la logica del potere (rivalità, uso strumentale delle persone) ma della relazione: offrire
e ricevere (anche critica e vero conflitto) far nascere fiducia, guadagnare insieme. Si può fare a tutti i livelli,
anche nei partiti e nei giornali, in famiglia e nelle tv, perfino in carcere (Mandela)”
Da soli? Con iniziative personali? È un fatto di modello etico-culturale o politico-sociale?
Non ho risposte risolutive.
Paolo Lazzaretto, artista
Ho appena ricevuto e letto il vostro manifesto Immagina che il lavoro. L’ho trovato bello, chiaro, importante e
gioioso. Costringe a pensare alla vita in termini di consapevolezza e pienezza (primum vivere). E, con
intelligenza di vita tutta femminile, entrando ad analizzare concretamente il presente e la quotidianità di uomini e
donne, sa immaginare di cosa è fatto un futuro desiderabile da tutti. Mi è piaciuto perchè sa volare alto, ma
guardando in basso, dove ci arrabattiamo tutti senza prenderci il tempo di pensare al senso delle cose, perchè non
c’è tempo, non c’è tempo… Grazie.
Alberto Leiss, giornalista e scrittore, DeA
Sì, immagino che gli uomini comincino a essere stanchi di “ribadire la loro consunta identità e di giocare alla
guerra in tutte le sue forme”. C’è anche la forma del “gioco” maschile che resta tale, che si arresta di fronte alla
violenza (o almeno asserisce di volerlo fare), ma svuota comunque il senso della politica.
Lo immagino perché conosco alcuni uomini che cercano – come cerco anch’io – di liberarsi dalla violenza e da
un gioco fine a se stesso, il gioco di un potere fine a se stesso.
Ripartire dal lavoro che non è più qualcosa di artificiosamente separato dalla vita delle donne e degli uomini può
riaprire la via di una politica del desiderio e della libertà. La dignità sorretta dall’identità nel lavoro per il mondo
operaio e subalterno è stata una grande storia ma non la libertà per tutti e tutte.
Il momento di questa nuova libertà è ora.
I testi dei Sottosopra del 1996 – È accaduto non per caso – e di questo del 2009 – Immagina che il lavoro –
offrono parole rivelatrici e utili per cercarla. Sono parole che noi uomini dobbiamo imparare a comprendere e a
usare se vogliamo una nuova politica legata alla realtà e capace di cambiarla.
Paola Liberace, giornalista e blogger, Il Sole24ore
Leggo il manifesto Immagina che il lavoro, e rifletto. Qualche mese fa, senza conoscere la vostra iniziativa, ho
scritto un libro pensando ai bambini, anzi ai neonati: quelli che la nozione comune vorrebbe serenamente
socializzanti, a tre mesi o poco più, in tanti piccoli nidi-alveare mentre i loro genitori-api si danno da fare,
altrettanto serenamente, per produrre miele a circolo continuo. La realtà è diversa: la realtà dei neonati, sui quali
non riusciamo ancora a immaginare i riflessi di una separazione dalla madre e dal padre sempre più precoce,
sempre più prolungata, eppure sempre più indiscutibile. La realtà dei genitori, incastrati in modalità lavorative
ormai obsolete, che nuociono alla vita, prima ancora che alla famiglia.
E soprattutto la realtà delle madri, ingannate (ingannatesi) sull’appetibilità e sull’indiscutibilità di un modello
professionale che ha radici estranee non solo alla maternità, ma alla stessa femminilità. Invece di dare corpo e
forza alla loro energia, alla loro inventiva, alle loro passioni, invece di scansare il presenzialismo, il verticismo,
l’efficientismo, le donne si sono adattate ai desideri altrui; finendo inquadrate – tutte, a prescindere da livello e
mansioni – in un esercito di volenterose impiegate. Il modello impiegatizio ci circonda, ci sovrasta, impregnando
ormai di sé settori diversi, professioni diverse, esperienze diverse. Intanto, le esigenze personali e familiari delle
donne sono totalmente sacrificate, prima che alle loro ambizioni, a questo modello superato dai fatti. Per quanto
possa suonare inverosimile, in un ventunesimo secolo invaso di gadget materiali e immateriali per la
comunicazione a distanza, lavoriamo ancora nelle modalità che un comico come Villaggio aveva avuto facile
gioco a ridicolizzare con il suo Fantozzi più di trent’anni fa. A suggerire un cambio di passo, si rischia
immediatamente di essere bollate come le fautrici di un “ritorno al passato”.
E qui si annida un equivoco non facile da chiarire: un equivoco che vive di altri equivoci, come l’identificazione
tra telelavoro e lavoro a domicilio, tra part-time e fannullonismo, tra contributo professionale e visibilità
mondana, tra congedi di maternità e dimenticatoio. Temuto e osteggiato dove non ce n’è traccia, il famoso
“passato” si annida più spesso in piena evidenza, dove meno lo si cercherebbe. Mentre le donne si preoccupano
del ritorno dell’oppressione patriarcale, che le aveva segregate in casa, non battono ciglio di fronte alla
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segregazione impiegatizia, che la veloce evoluzione delle tecnologie rende ancora più obsoleta della prima – e
che per giunta le ha obbligate a disfarsi dei figli.
Immaginare un modo diverso di lavorare, di vivere, di stare in famiglia e in società, non è solo possibile: è
necessario. Non solo per imprimere una svolta alle politiche di conciliazione, ancora oggi ingessate nella delega
incondizionata della dimensione privata in vantaggio di quella pubblica. Non solo per salvaguardare la
genitorialità, invece della mera natalità. Non solo per una politica più liberale, per una legislazione più
innovativa, per uno Stato meno invasivo – tutte conseguenze, non premesse.
Ma per recuperare l’occasione perduta dalle donne di indicare la strada a partire da se stesse, invece di accodarsi
a chi spacciava i vicoli ciechi a senso unico per l’unica via possibile.
Linda Liguori, consulente marketing
Non avevo mai riflettuto bene sulla questione del doppio sì, del doppio lavoro, di quanto una famiglia e una casa
siano un impegno e un compito, e di quanto questo non sia riconosciuto. Lo sto sperimentando persino in questi
giorni, in cui mi devo occupare pesantemente di una zia che non è più tanto in grado di badare a se stessa: tutto
lavoro, impegno, tempo dedicato (mi veniva da scrivere “investito”, ma credo che se si tratta di una persona
anziana, malata, un po’ terminale, crudamente, questo tempo diventa “a fondo perduto”, per rimanere nella
metafora della finanza). Insomma, se all’inizio della lettura del manifesto, ho trovato un po’ pesanti, retoriche e
lontane alcune affermazioni, ed anche alcune definizioni, man mano nella lettura, ho preso familiarità, e
purtroppo mi sono un po’ riconosciuta nella situazione del doppio sì, in uno stadio di pre-conflagrazione, visto
che non ho una situazione lavorativa rigida. Tuttavia, il manifesto mi ha fatto chiarezza su quanto comunque sia
penalizzante anche la mia questione, seppur leggera: ed anche mio marito, che mi ricorda che il tempo non
investito nel lavoro e nel cercare lavoro è tempo che spreco. Insomma, cornuta e mazziata.
Ho trovato non completamente corretto chiamare “lavoro di relazione” quello in cui la donna dà il suo meglio.
Perché definirlo? Perché la relazione è la sua peculiarità? E poi non vorrei essere portata a pensare che una
donna intelligente che si confronta con un uomo per quanto riguarda le sue capacità, i suoi talenti, le sue
competenze debba sentirsi in un paradigma sorpassato.
Lo stile! Dimenticavo lo stile! Il manifesto ha uno stile che… contagioso: all’inizio ti incuriosisce e insieme ti
disturba, ma poi si è presi dalla retorica un po’ aggressiva, forte, determinata… che si dà anche delle arie.
Insomma, io non sono una lettrice preparata, e non ho nessuna sofisticazione su questi temi che raramente ho
affrontato e che si portano dietro un bel casino, tra dimensione sociale, politica, culturale. Per me è difficile non
cadere in contraddizione quando penso o parlo di donna, di femminile, di diritti, di donna e lavoro. È difficile
dire cose ineccepibili. Ma sto parlando di me. Delle donne e delle menti che sono dietro a questo manifesto
apprezzo la determinatezza, la precisione, il credere bene e forte in quello che fanno, la padronanza di tutte
queste dimensioni che a me sfuggono.
E il titolo poi… Immagina che il lavoro….
Un misto di fantasia e concretezza, di sogno e di futuro.
E ora chiedo scusa per questi pensieri erranti, senza capo ma con tanta coda, con un peso specifico basso. Ma la
curiosità avanza, si fa strada.
Mimma Marotta, lettrice
Ho finito in questo momento di leggere il Sottosopra sul lavoro. È stupendo! Sono commossa. Il vostro è stato
un grande lavoro che darà grandi frutti. Grazie
Lea Melandri, saggista e scrittrice, Libera Università delle Donne di Milano
Non mi piacciono i ‘decaloghi’, e nemmeno le semplificazioni accattivanti, soprattutto quando si parla di
esperienze dalle implicazioni profonde, complesse e contraddittorie, come la maternità. Del Quaderno di Via
Dogana, Il doppio sì, e del Sottosopra – Immagina che il lavoro, condivido l’idea che si debba tornare a far
parlare le vite, partendo dalla propria – un principio che nei vostri documenti mi sembra trascurato -, ho
condiviso i dubbi e gli interrogativi che ogni tanto si affacciano dietro una predominante assertività, tesa a
definire ‘valori’ e ‘identità’ del femminile, un ‘genere’ per intendersi, più che la singolarità dei vissuti; mi trova
in totale disaccordo, come potete leggere negli stralci dell’articolo che vi mando (pubblicato il 24/10/2009 sul
quotidiano Gli Altri), l’idea che si possa parlare di maternità e lavoro, prescindendo dal conflitto uomo-donna, e
cioè dalla divisione patriarcale tra produzione e riproduzione, e da quello con un’organizzazione del lavoro che
ha al centro, come sappiamo, il profitto, e non certo la qualità della vita.
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Detto questo, mi fa piacere che riprenda tra le diverse voci del femminismo un confronto, sia pure aspro e senza
peli sulla lingua. Il conflitto non è la guerra, con cui materialmente o simbolicamente, si cancella l’altro.
Amore e lavoro: i nessi che non si vogliono vedere
(…) Le battaglie delle donne del secolo scorso hanno ricalcato quasi sempre il binomio ‘uguaglianza-differenza’:
omologazione al modello maschile o valorizzazione delle ‘doti femminili’, le “virtù domestiche” da impegnare,
come diceva Maria Montessori, nella vita sociale, per opere di assistenza e prevenzione. Oggi, pur restando
ancora predominante nei servizi alla persona, la presenza femminile ha guadagnato terreno: a richiedere
‘competenze’ femminili, capacità relazionale, flessibilità, è il sistema produttivo stesso, la nuova economia
incentrata sul lavoro cognitivo, immateriale. Alla ‘differenza’ femminile si aprono territori inaspettati, ma ancora
una volta può fare la sua comparsa solo come ‘risorsa’, ‘merce preziosa’, ‘valore aggiunto’ e complementare di
un ‘intero’ che non cambia volto, mentre potenzia, nella riunificazione dei due rami della specie umana, le sue
capacità (…). Il corpo femminile, nella sua duplice valenza – erotica e materna – entra prepotentemente
nell’economia e nella politica, dalla televisione al mercato pubblicitario, dai Palazzi del potere alla produzione
industriale. Con un’unica differenza: mentre il corpo nudo della donna-immagine, della escort o della ‘velina’,
provocano sussulti di indignazione, non accade altrettanto per l’uso, a costo zero, che il potere aziendale fa delle
‘doti materne’ – cura dei rapporti interpersonali, fluidificazione dei contrasti, dispensa di affetti e di attenzione.
Contratti atipici, part-time, assunzioni personalizzate, sembrano oggi venire incontro sia alle necessità del
sistema produttivo che al desiderio di molte donne di conciliare maternità e lavoro, il “doppio sì” di cui parla il
Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano nel Quaderno di Via Dogana 2008. La ‘cura’, che le donne
prodigano gratuitamente all’interno delle case, svalutata per la contaminazione col corpo e con la dipendenza,
con i bisogni essenziali della persona, cambia segno, diventa, nell’analisi della Libreria delle donne di Milano, il
valore sulla base del quale rivendicare il part-time come “gesto di libertà femminile”, “autodeterminazione dei
tempi di lavoro (…). Allo sforzo di somigliare all’uomo si sostituisce una strada più facile e più rapida,
incoraggiata a quanto sembra da entrambi i sessi: valorizzazione delle attrattive che l’uomo ha visto nel corpo
femminile e che, cadute alcune barriere di controllo patriarcale e di pudore, possono essere oggi impugnate dalle
donne stesse come ‘rivalsa’ e come ‘capitale’ da far fruttare sul mercato del denaro e del successo.
Lo scambio sessuo-economico, venuto alla ribalta con le vicende berlusconiane, è solo l’aspetto più vistoso di un
processo che vede il corpo, la sessualità, ma anche la maternità, emanciparsi in quanto tali. La donna celebra il
suo ingresso nella polis come ‘genere’ portatore di ‘valori’ divenuti indispensabili, ma pur sempre ‘aggiuntivi’.
Indigna il corpo ‘prostituito’ delle ‘veline’e delle ‘escort’, mentre passa come felice uscita dalla minorità l’elogio
che ogni giorno la stampa più vicina alla Confindustria e le ricercatrici dell’Università Bocconi, fanno del
‘valore D’, del management che si tinge di rosa. Il bisogno di migliorare i profitti si viene a sposare con quel
desiderio di maternità, “inscritto -si legge in Sottosopra, Immagina che il lavoro- nel corpo e nella mente delle
donne”. L’ondata di critiche e di appelli, che giustamente si sono alzati contro il sessismo di Stato e contro la
misoginia diffusa nei media, rischia dunque di far passare in ombra una ‘conciliazione’ senza conflitti tra la forza
lavoro femminile e un sistema produttivo che, pur nel declino, non ha perso i tratti del potere patriarcale e
capitalistico. Amore e lavoro, riunificati nello spazio pubblico, possono far calare di nuovo sulle coscienze il
“lungo sonno” che ha impedito fino alle soglie della modernità di sottrarre alla ‘natura’ il dominio di un sesso
sull’altro.
Riportare alla maternità, come tempo da dedicare a un figlio, piacere di vederlo crescere, la mole di lavoro senza
sosta che comporta la quotidiana vita famigliare, fatta di bambini, ma anche di anziani, malati e adulti
perfettamente sani ma avvezzi ad avere chi si preoccupa del loro buon vivere, vuol dire, di fatto, lasciare che
continui a pesare essenzialmente sulle donne la responsabilità delle condizioni indispensabili per la continuità
della vita, confermare la ‘natura’ salvifica delle donne e la loro complementarietà rispetto a un modello
dominante maschile a cui si chiede solo di farsi più attento ai desideri dell’altro sesso. Tornare a nominare, come
è stato fatto da alcuni gruppi femministi negli anni ’70, la divisione tra lavoro produttivo e riproduttivo, la
quantità di lavoro non pagato e spesso non riconosciuto come tale dalle donne stesse, sembra un anacronismo,
nel momento in cui le case si riempiono di collaboratrici domestiche e di ‘badanti’ straniere. Ma se si prende in
mano un volantino di quegli anni, ci si può accorgere facilmente che la monetizzazione, là dove lo consentono le
condizioni sociali, di una parte di lavoro domestico, non ha sciolto né l’intreccio di lavoro e di affetti, né la
svalutazione che porta ad assegnare la ‘cura’ alla parte svantaggiata della popolazione, né la convenienza per il
capitalismo di avere una riserva indefinita e gratuita di servizi confinati nella sfera privata, contro l’evidenza che
li vorrebbe al centro dell’etica pubblica e della responsabilità politica (…).
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Laura Mora Cabello de Alba, docente di diritto del lavoro, Universidad de Castilla-La Mancha (España)
Acabo apenas de leer el manifesto – que me ha hecho llegar Lola Santos, profesora del derecho del trabajo de la
Universidad de Siena – y estoy muy emocionada. Es una maravilla: claro, eficaz, contundente, sabio.
Mil gracias por vuestro trabajo que nunca podremos agradecer lo suficiente tantas mujeres.
Un fuerte abrazo para todas las mujeres del Gruppo lavoro.
Giorgia Morera, educatrice Comunità Giambellino, Milano
Ho appena finito di leggere “il manifesto per il lavoro” e sento il bisogno di scrivere di getto i pensieri e i
sentimenti che mi ha smosso dentro.
Parlo di sentimenti perché ho sentito proprio, dall’uso del linguaggio, dalla scelta delle parole e dei contenuti che
è un documento scritto con la testa ma anche e soprattutto con il cuore.
Infatti mi ha emozionato, provocato. Mi ha appassionato e mi ha dato una speranza nuova.
È un po’ come se l’incontro con questa lettura abbia incrociato proprio il tratto di strada che stavo percorrendo
(provando a percorrere…) come madre, come lavoratrice, come donna.
Il manifesto rispecchia molto da vicino la mia sensibilità ed è un po’ come se avesse dato voce e nome ai miei
pensieri e al mio sentire confuso. Sì, confuso. Anche il nome del documento mi rispecchia: Sottosopra. Come mi
sento io, anche rispetto alla mia identità di donna a cavallo tra famiglia e lavoro.
A volte Sotto, a volte Sopra.
Credo sia un problema (problema?) di tutte, soprattutto delle donne della mia generazione. Diciamolo, una
generazione un po’ sfigata, poco consapevole.
Anche per questo mi ha fatto molto piacere leggere questo documento. Perché parrà strano, ma spesso faccio
fatica a parlare e a confrontarmi con le donne della mia età.
Però non mi dispiace questo essere sottosopra che è soprattutto ricerca, apertura, confronto.
In questo mi sono molto ritrovata: nella necessità e nella possibilità di dare spazio ai propri desideri e allo stesso
tempo di ascoltare e dialogare, con tutte/i abbattendo gli steccati del pregiudizio, del potere e della strenua difesa
di sé.
Mi ritrovo pienamente nell’idea di politica che vede al centro la relazione, l’esperienza personale, la conoscenza
reciproca.
Credo che Sottosopra e Immaginare il lavoro voglia dire come donne non pretendere di essere coerenti nelle
nostre scelte tra lavoro e famiglia. Ma piuttosto stare nelle nostre contraddizioni e nelle nostre fatiche senza
subirle e far nascere da questa “confusione creativa” spazi di libertà e di espressione di sé.
Sottosopra è pensare la diversità come una ricchezza: se hai un’identità da difendere a tutti costi prima o poi la
perdi, se “la lasci andare” la trovi. Costruendola insieme alle altre e agli altri.
Grazie di cuore per avermi regalato questa opportunità (non Pari eh?!)
Avete fatto un lavoro bellissimo.
Letizia Paolozzi, giornalista e scrittrice, DeA
Nel lavoro, le donne sono capaci di “immaginare il futuro”. Per sé e per gli uomini. Per i bambini; per chi vuole
invecchiargli accanto. Tutto questo grazie alle relazioni che sanno tessere, facendone il collante della società.
Sono le donne alle quali si riferisce il manifesto di Sottosopra. Mostrano un’arte particolare, quella della
“manutenzione” dell’esistenza. Ci mettono linfa, passione e cuore. Un modo sapiente di giocarsi la differenza,
nella creatività, nell’ascolto, nella serietà professionale. Dunque, “manutenzione” al posto della competizione;
competenza per rintuzzare la cosiddetta “supremazia maschile”. Che è cosa buona o giusta. Una sorta di scuola
delle donne dove non si insegna più il determinismo biologico (“Tu sei forte, io sono debole”) e non si accettano
più a occhi chiusi i codici della costruzione sociale (“Tu fai l’infermiera, io il chirurgo”). Pare che con la crisi
che rimescola le carte, le donne se la cavino meglio. Certo, quelle che io conosco e che nel manifesto del
Sottosopra hanno narrato di sé nel lavoro, mi sembrano attente a costruire nuove relazioni tra conoscenza e
comunicazione. Il problema è sempre quello: se ne rendono conto gli uomini, i sindacalisti, i politici, gli
economisti di quest’arte della “manutenzione” dell’esistenza?
Laura Pennacchi, economista e politica, Fondazione Basso
Bellissimo. Sono d’accordo su tutto. Molto convincente l’idea che: a) il lavoro sia molto di più che attività
materiale remunerata, essendo in primo luogo processo di autonomizzazione simbolica e di autorealizzazione; b)
la rivendicazione debba essere non quella della parità fra uomini e donne nell’accesso a un modello economico e
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lavorativo mantenuto inalterato, ma quella della trasformazione per tutti, uomini e donne, di un modello da
rivoluzionare. Infine, mi pare che la vostra riflessione sottenda una critica al “reddito di cittadinanza”, a cui
andrebbe preferita la prospettiva del “lavoro di cittadinanza”.
Marina Piazza, sociologa
Le donne sanno che si nasce dipendenti e si muore dipendenti
Le donne sanno che cosa significa la cura di sè, degli altri, del mondo (eventualmente dovrebbero imparare un
po’ di più a prendersi cura di sè). Le donne sanno che il concetto di cura dovrebbe essere alla base dell’etica
della cittadinanza. La cura come pratica relazionale, la cui essenza è fondata sulla ricettività, sulla responsabilità
di sè e dell’altro, sul rispetto, sull’empatia, sull’attenzione e anche sull’immaginazione.
Adesso che il lavoro l’abbiamo conosciuto
Poiché è da più di trent’anni che le donne “ci sono”, la loro abilità a destreggiarsi tra i due campi viene
facilmente riconosciuta, anche dagli uomini. Acrobate, funambole, equilibriste, giocoliere: sono termini
ricorrenti. Con due stili interpretativi: di benevola compassione (ma come fanno?) oppure con cinica
ammirazione (hanno una marcia in più, che potrebbe essere funzionale nel mondo del lavoro). Credo che uno
dei punti centrali del vostro discorso – con cui mi trovo in assoluta concordanza – sia proprio il ribaltamento
dello sguardo. Non più il mercato, la società che guarda le donne, ma le donne che guardano il mercato e la
società. Partendo da loro guardiamo il mondo del lavoro, con le sue leggi scritte e non scritte e ne denunciamo
l’ottusità, l’inutile rigidità e guardiamo l’intera società, che mentre si proclama familista, mentre lamenta il
futuro incerto che si prospetta per un paese sempre più abitato da vecchi e spopolato di bambini, si permette di
dimenticarsi di politiche lavorative, sociali e familiari degne di questo nome.
Si riesca a portare sempre più uomini ad agire nella quotidianità della vita
Oggi anche i giovani uomini cominciano a svelare segni di stanchezza sull’imperativo di continuare a giocare la
parte in commedia, nel ruolo di quelli che vivono da una parte sola, nell’ambito lavorativo, di quelli che per
essere breadwinner si sono trasformati in rottweiler, senza anima e compassione. Ma non è e non sarà facile,
perché quello che è mancato e manca agli uomini è stata una rete di relazioni maschili che potesse produrre
parola. Che rispondesse al bisogno di mettere in discussione se stessi come uomini, insomma l’urgenza di
ripensare l’identità maschile,a partire da un disagio interno al genere. Se questo non avviene, è la violenza dei
rapporti che emerge e c’è un nesso tra questa violenza e la pretesa di universalità maschile, perchè non si
riconosce all’altro lo statuto di soggetto. Come scrive Stefano Ciccone, “la differenza maschile è rimasta
invisibile perché occultata dalla presunta neutralità e perchè priva di pratiche e saperi maschili in grado di
rappresentarla.”
Conciliare
Non è così semplice liquidarlo come un discorso di ottusa semplificazione. Certo, se lo si intende come una
somma di misure a valle per fare entrare tutto nelle ventiquattro ore della giornata di una donna appare come un
discorso rozzo e persino pericoloso, ma se lo si intende, come io lo intendo, come una delle questioni più
intricate della contemporaneità, come qualcosa che riguarda donne e uomini (e sopattutto uomini ), come il
tentativo di farne il tema-perno attorno al quale ridisegnare la mappa del welfare (mettendo al centro il concetto
di cura), allora non è poi così lontano dalla vostra immaginazione del futuro.
PS. Come vedete, ho sottolineato alcune parole/passi del Manifesto che entrano in risonanza con quello che
anch’io penso e su cui lavoro. Ce ne sarebbero altre. Eventualmente più avanti. Però vorrei dire che quello che
mi ha messo un po’ a disagio è stato, da una parte, una liquidazione un po’ affrettata di tutte quelle che cercano
di muoversi anche nelle pieghe delle istituzioni, senza nessun potere certamente, ma con la volontà di
denunciarne le irritanti pratiche discorsive e il tentativo di mettere in luce concretamente diverse possibili
strategie. E dall’altra, il tono “profetico”, quasi di affermazione di una libertà già raggiunta. Sono d’accordo nel
sottolineare i passi compiuti, non amo le lamentazioni e il vittimismo, ma vorrei che fosse più presente la
consapevolezza delle grandi contraddizioni – come se continuassimo a muoverci tra momenti alti e forti e
voragini – e delle difficoltà delle donne di muoversi in un contesto segnato da volgarità generalizzata, dallo
scambio sesso/potere/denaro che connota il degrado della cosa pubblica, che fa intravedere una nuova
configurazione del conflitto tra i sessi.
Marcella Pogatsching, filosofa, Università di Pavia
Scrivere anche un piccolo commento a un documento frutto di molte discussioni e ascolti, che mira con
“baldanza” coraggiosa a rimettere in discussione i concetti cardine di lavoro e di vita e insieme implica un punto
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di svolta del pensiero femminista, rischia di cadere, fuori da un contesto di dialogo e quindi di chiarimenti e
autocorrezioni, nella posizione del grillo parlante – o almeno io sento così. Perché le questioni sono grandi e
difficili e alcuni assunti dati per certi, es fine del patriarcalismo, forse tali non sono, avrei bisogno di tempo e
pause di ripensamento. Rispondo allora a caldo e vado sull’onda di pensieri sparsi.
Mi trova pienamente concorde la centralità della relazione. Il soggetto è relazione, l’identità di ognuno è
costituita dal rapporto di altri, nella generazione, e con gli altri. E la relazione non è solo dipendenza, essere fatti
da altri, ma anche centro di apertura, prospettiva per, futuro. Non c’è io, alla faccia di tanti filosofi, che non sia
figlia/o, madre o padre, amante o compagna, zia/o, amica/o , collega ecc di un altro, a meno di parlare di un
soggetto dimidiato o settoriale. Il che significa affetti legami gesti sguardi. E condivisione. Non ci sono tesori da
scoprire da soli, la felicità è in comune. Anche il mistico partecipa. E la relazione è certamente lavoro, come
ogni gesto di vita. La mossa dell’alfiere: così mi verrebbe da definire la strategia di centrare il discorso su
vita/lavoro. Un passo a lato, uno scarto rispetto al pantano dell’attualità imposta, per guardare più avanti.
Teoricamente mi pare ineccepibile.
La presenza delle donne nel mondo del lavoro, e la loro parziale valorizzazione nel campo, le ha portate in un cul
de sac: militarizzazione della vita privata, scandita da ritmi e orari da piccola caserma. Il progetto tayloristico di
modellare la vita privata sulla vita e i tempi di fabbrica si è realizzato compiutamente sulle donne. Tanti soldatini
in fila e di corsa. Non a caso il tono da sergente di molte giovani donne impegnate sul lavoro e in famiglia.
Partire dalla relazione, punto centrale di identità e di vita, per rompere questa linea di tendenza, a cui corrisponde
direi simmetricamente l’anonimia della frammentazione e dell’esclusione, mi sembra una buona indicazione: ha
la chiarezza della scelta e la difficoltà della pratica. Per non farsi rapporto confusivo, generica disponibilità forse
si devono cercare anche altre parole: amica di chi? amica per cosa? affetto da chi non mi conosce? (mi riferisco
all’indirizzo del documento). Eppure c’è bisogno di molta forza. Per quanti è possibile “dare credito alla propria
esperienza”, radicarlo nel proprio vissuto, sia materiale-economico sia interno-psichico?
Liliana Rampello, docente di estetica, Università di Bologna
Immagina che il lavoro è il titolo strepitoso del nuovo Sottosopra, un foglio pubblicato dalla Libreria delle donne
di Milano (in questo caso dal Gruppo lavoro), ogni tanto, quando c’è davvero qualcosa di essenziale da dire, su
cui ragionare e discutere. Sono molti i Sottosopra, qualcuno è stato davvero scrittura in anticipo di un
cambiamento già avvenuto, che nessuno vedeva (ricordo solo Più donne che uomini, 1983, e È accaduto non per
caso, 1996, sulla fine del patriarcato, ineludibili per tantissime donne).
Visto il titolo, passiamo al sottotitolo: “un manifesto del lavoro delle donne e degli uomini scritto da donne e
rivolto a tutte e tutti perché il discorso della parità fa acqua da tutte le parti e il femminismo non ci basta più”, e
con questo siamo già un bel passo avanti rispetto a vecchie e abusate contrapposizioni. Si volta pagina, si dà una
scossa all’esperienza, si saltano a piè pari tutte le scemenze sul silenzio delle donne. Siamo in un altro spazio
mentale, liberato da un doppio e deprimente senso di impotenza che viene dalla solitudine di un individualismo
seminato a man bassa e dalle grandi parole, teorie, discorsi che, colpevoli o meno, coprono la realtà delle nostre
esistenze.
Il testo è ambizioso, duro e sorridente, non lo racconto, ne accenno solo qualche elemento, perché vorrei fosse
letto, divorato, gustato, ripensato – fatto risuonare insomma in ciascuna/o di noi, e poi condiviso, in accordo o
disaccordo, ma sempre tenendolo sul piano di quella vita che esplode nelle sue righe. Sì, la vita, una parola che
torna finalmente a prendere tutto un altro senso, il senso di qualcosa che ci appartiene da vicino, e vicino a cui
reimpariamo a stare e pensare.
Sono otto le donne che lo hanno scritto, lavorando in gruppo per anni, ascoltando molte altre, rifilando il
pensiero su quanto concretamente sta capitando, per arrivare infine a interrogarsi e a interrogarci con quella
semplicità (nessun semplicismo, nessuna semplificazione) che è il frutto di una pratica politica e non una scelta
stilistica. Il desiderio di aprire una comunicazione autentica attraversa tutti i pezzi, che sono il luogo in cui
stanno insieme obiezione e proposta, chiamandoci ad altre obiezioni e altre proposte, perché possa circolare tra
noi il senso di tutto quanto d’altro è possibile, se diamo credito a ciò che siamo e alle relazioni che abbiamo.
Lavoro, maternità, “manutenzione” dell’esistenza, parità, conflitto, desiderio… conosciamo le parole, ma qui il
discorso su vita e lavoro è centrato sulla relazione, affidato all’esperienza che ne facciamo lì dove siamo, e
l’orizzonte si apre. Immagina che… immaginare, non fantasticare, cosa è e può essere la nostra realtà, se tutti i
lavori (produzione e riproduzione, e tutti gli altri con nomi “indicibili, astratti e deprimenti”) che teniamo
magistralmente in equilibrio e non più solo per condanna naturale, ma piuttosto perché sono il “bello della vita”,
fossero conteggiati nel Pil, negli indicatori di benessere; se con nuove responsabilità ci prendiamo davvero
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nuove libertà; se schiviamo quella “guerra tra donne” che tanto “eccita gli uomini”, se mettiamo in discussione il
lavoro, l’economia, la politica, come l’hanno già pensata, a partire dal nostro desiderio, trasformando il mondo
perché donne e uomini “si parlano, nella ricerca teorica come nell’agire”. C’è molto altro in questo Sottosopra,
leggiamolo tutto per imparare l’ironia con cui si mostra sempre la vera intelligenza.
Rosanna Santonocito, giornalista e blogger, Il Sole 24 ore
Mi chiedete di scrivere a partire dal vostro documento, così ricco, complesso e compresso nella sua brevità (e
questo, ve lo voglio dire, è un valore!). La richiesta è di individuare in questi testi così variegati i richiami, gli
echi degli eventi e delle sensazioni che incontro anch’io nel mio lavoro. Il mio lavoro è quello di raccontare il
lavoro degli altri. Anche quello delle donne.
Molto spesso, anzi, quello delle donne, perché è vero che, soprattutto negli ultimi anni, siamo state noi a captare,
anticipandole, le tendenze e il sentire del mondo del lavoro intero, quello popolato dagli uomini e dalle donne,
ma governato solo dai primi. Oppure le abbiamo sperimentate, queste prassi del lavoro, facendo da laboratorio
involontario: perché ce le ritroviamo, o perché ce le impongono.
Parlo della conciliazione tra tempi di vita e di lavoro, e del personale che è ritornato politico, ultimamente, solo
per fare due esempi positivi o abbastanza neutri.
Ma parlo anche della flessibilità che diventa precarietà senza uscita e del disagio del lavoro e delle relazioni sul
lavoro (a cui voi pure vi riferite più volte). Quello che con i modelli esasperati e tutti maschili del nuovo lavoro,
diventa stress diffuso. Quello che adesso uccide soprattutto gli uomini e con bilanci di vite perdute a due cifre
nel caso di France Telecom. E quello che a questo punto e di colpo interessa tutti.
Soprattutto i giornali
Scrivendo sui giornali e su Internet, ho verificato come le donne, che sono sempre più presenti, e in modo
qualificato, nel mondo del lavoro, siano particolarmente “impacciate” in queste relazioni di lavoro e nei mondi
aziendali. Impacciate dal contesto organizzativo e da se stesse allo stesso tempo. Non hanno voce nelle aziende,
come donne, né individualmente né collettivamente.
Non hanno ascolto, perché le rappresentanze sindacali sono poco o nulla sensibili alle questioni organizzative e
concernenti i diritti, se vengono poste dal punto di vista delle donne. Anche la Rete delle consigliere di parità è
stata una presenza ectoplasmica negli anni, ma adesso qualcosa si sta muovendo, pare.
Non fanno se non raramente network, cordate, lobby, detto in senso benevolo, mentre gli uomini, è noto, sono
efficientissimi in questo, detto in senso malevolo… Ma attenzione che la lobby non è necessariamente una
politica di branco…
Persino la sacrosanta questione del corpo delle donne, sollevata dal provvidenziale lavoro di Lorella Zanardo, sta
producendo una inedita e sconcertante guerra al femminile che riscontro nella mia esperienza diretta di blogger e
frequentatrice attiva di social network. In settembre ho rilanciato con le amiche giornaliste Antonella Appiano e
Cristina Tagliabue l’attualità del pensiero anni 80 di Naomi Wolf sul potere della bellezza (la taglia 40 è il nostro
burka? dice adesso Naomi).
Il tema è sentito, e lo è profondamente, ma ha acceso allo stesso tempo una buffa e molto polemica contesa,
giocata su una serie di fraintendimenti sull’utilità e sull’orgoglio del proprio essere o sentirsi forti del proprio
aspetto fisico come delle proprie capacità intellettuali e delle competenze professionali. Con due schieramenti
contrapposti. Io li ho chiamati, scherzando, le “autoproclamantesi belle” e le “brutte felici di esserlo”. Il risultato,
l’ho scritto sul blog, è che gli uomini ci guardano dalle scrivanie del potere a cui noi, belle o brutte, capaci o
furbe, non siederemo comunque. E ridono, tranquilli, per nulla preoccupati.
Nel mondo del lavoro infine, e questo può essere una spiegazione anche per l’ultimo argomento qui sopra, non
abbiamo voce ma non abbiamo nemmeno modelli a cui guardare e continuiamo a non averne soprattutto in Italia.
Voglio chiudere con un allarme: il mondo del management e della grande consulenza , che pure è a corto di
modelli positivi da proporre dopo la crisi finanziaria e i casi di cattivo lavoro à la France Telecom, sta scoprendo
e riproponendo in grande stile, tutto il filone della leadeship femminile e del valore della diversità. Anestetizzato
e ben confezionato in pacchetti formativi e grandi convegni nonché tradotto nella sua lingua bugiarda.
Attenzione che il modello poi non diventi questo, il femminismo riletto e riscritto per i fini aziendali. Che non ci
appartiene. Anzi, che ci hanno scippato.
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Anna Soru, presidente Acta, associazione consulenti terziario avanzato
L’ho trovato molto interessante ed ho davvero apprezzato lo stile, il linguaggio, la capacità di raccontare
situazioni in con cui è facile identificarsi, pensieri e aspirazioni condivisibili, di analizzare le diverse situazioni e
riportare un punto di vista spesso non scontato.
Ciò che, a mio parere, è debole è la parte propositiva; mi sembra che si proponga un metodo (dire, ascoltare,
contrattare), ma non si propongano interventi…
Capisco, d’altra parte, che questo possa non essere un vostro obiettivo.
Aldo Tortorella, giornalista e politico, presidente ARS
Il manifesto del lavoro parla, come è scritto, di un “cambiamento di civiltà”. A partire da una nuova concezione
del lavoro, inteso oltre il suo significato immediatamente produttivo, si inizia a “ridefinire l’economia, la teoria
sociale e politica”. Non ho dubbio che questa ridefinizione sia il compito di oggi e che viviamo non solo una,
ricorrente, crisi economica ma una crisi di civiltà. Siamo al fallimento di un modello di rapporti umani creati
sotto il dominio maschile, segnato dalla competizione e dalla guerra. Ne è nato quel mondo che sta
sprofondando, nonostante tutto il suo straordinario sapere. Ma da questo sapere è nata anche la idea di libertà. E
dunque anche la critica femminile e la consapevolezza che il problema non è l’imitazione di chi ha fallito, ma,
come voi dite, una “libertà nuova”. Vorrei aggiungere che per essere nuova ha certo bisogno che si esprimano
nuovi bisogni e desideri, ma anche nuovi modi di pensarla. La tradizione parla di una “libertà da” – dalle
sopraffazioni pubbliche e private – e di una “libertà di” – di agire e di costruire se stessi. Ma delle diverse
possibili finalità della libertà (che cosa ne faccio della libertà?) non parla come se fosse una contraddizione in
termini. Ma intanto veniamo educati a concepirla e ad usarla come strumento per la gara volta al primato, e al
dominio sull’altra e sull’altro. Per questo la politica è ridotta allo studio dei mezzi per ottenere e mantenere il
potere. Già si pensò, nel passato, a rovesciare questo modo di essere a partire dal lavoro. Ma senza ripensarne le
fondamenta – e ritenendo invece che il problema si riassumesse tutto nella questione proprietaria – il
rovesciamento finì nel suo contrario, e cioè malissimo. La teoria e la pratica che propone il documento – sotto il
suo sereno discorrere – sono difficili, difficilissime. Il potere, c’è, può anche combinare catastrofi. Ma è
importante aver trovato un punto per ricominciare. Che questo nuovo inizio venga dal pensiero femminile è
logico. Ed è essenziale la volontà di coinvolgere gli uomini, per una nuova idea di sé e del mondo. Per ognuno di
noi è una impresa complicata ma necessaria.
Alain Touraine, sociologo, École des hautes études en sciences sociales, Paris
Chères amies,
Permettez-moi cette adresse car votre document m’a donné un sens rare de proximité de nos efforts et de notre
pensée, en opposition à toutes celles et tous ceux qui veulent réduire les femmes à l’état de victime dans toute
leur fonction sociale. Ce qui aboutit non seulement à renforcer cet état de dépendance mais à permettre à des
hommes et à des femmes de donner ainsi une nouvelle vie, moins à une forme de domination masculine qu’à une
auto-critique féminine qui aboutit à ne trouver de sens que dans la domination masculine, les femmes étant
considérées comme incapables d’action; on pourrait même dire inférieures étant donné qu’elles sont dominées et
manipulées dans tous les aspects de leur vie.
Vous avez insisté sur la vie du travail, et vous avez eu bien raison. On a toujours dit que l’accès au travail libérait
la femme, en particulier sur le plan économique et même si des formes d’inégalité existent, on ne peut pas
réduire l’expérience de travail à l’inégalité et au sexe. Vous avez clairement pris une position opposée, celle qui
insiste sur la capacité d’action des femmes en s’appuyant sur ce qu’elles ont déjà fait. Car il est paradoxal
d’insister sur l’infériorité professionnelle des femmes sans montrer d’abord les grands progrès qu’elles ont fait
par leur propre action et aussi par la nécessité pour les ménages de disposer de deux salaires. Il serait bien
étrange que cette arrivée massive au travail, qui en France atteint des pourcentages extrêmement élevés, n’ait pas
des aspects positifs, ne permettent pas des réussites individuelles ou collectives. Je dis cela nettement tout en
ayant moi-même de grands doutes sur l’ampleur des progrès accomplis. Car des secteurs d’emplois conquis par
les femmes sont avant tout ceux qui étaient l’ensemble des services non marchand à la personne et qui
maintenant sont devenus des services marchands: éducation, santé, et même justice. Tout cela amène à être très
prudent. On pourrait presque dire que nous nous en éloignons de plus en plus à mesure que les professions
financières, scientifiques et militaires prennent une importance croissante, alors que les femmes, pour prendre
une expression dangereuse, dominent le problème de la reproduction. Mais en tout cas sur ce point capital dans
votre argumentation et dans la réalité, je crois que nous sommes d’accords.
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Ce qui m’intéresse serait de savoir si vous partagez mon opinion qui est plus éloignée encore de la vulgate de la
victimologie. En me résumant, j’ai pensé que le modèle de développement occidental est un modèle polarisé
avec la concentration des ressources dans une élite masculine, guerrière ou bureaucratique et le reste de la
population – femmes, colonisés, salariés, ouvriers ou autres – est mis dans une situation inférieure et surtout dans
une situation qui crée des adaptations à la domination mais ne peut pas créer des forces de renversement de cette
domination. Or, aujourd’hui la crise de ce système polarisé, qu’on peut aussi bien appeler capitaliste, est
suffisamment profonde pour que se soit formés partout et dans tous les secteurs des mouvements qui veulent
recomposer la société, la dépolariser et par conséquent l’unifier. Les syndicats, les mouvements de libération
anti-coloniaux, etc, ont joué un rôle important mais de loin, à mon avis le plus important, c’est le mouvement des
femmes ou tout au moins un mouvement des femmes qui se développe de plus en plus nettement, à partir du
moment où le féminisme a atteint ses objectifs juridiques, économiques et politiques et on voit des femmes pas
toujours très visibles, mais dont la présence est massive qui cherchent, non pas à défendre le pouvoir des femmes
qui succéderait au pouvoir des hommes mais cherchent à faire triompher une démarche générale de réunification
et je le répète de dépolarisation de la société. Cette tendance est générale, elle atteint les hommes comme les
femmes, mais ce sont les femmes, parce qu’elles ont été le plus personnellement dominées, parce qu’on leur a
interdit avant tout leur subjectivité, on leur a interdit de dire «je», les femmes veulent que tout le monde à la fois
puisse et soit obligé de dire «je» et que la distinction entre hommes et femmes, sur ce point sans disparaître du
tout, soit secondaire. Le livre consacré à une enquête que j’ai faite a été dominée par cette extraordinaire force
avec laquelle toutes les femmes avec qui je travaillais s’affirmaient avant tout comme femmes. Et cela voulait
dire avant tout comme rejetant l’opposition majeure des hommes et des femmes et voulant donner la priorité aux
femmes qui sont des éléments de réintégration de la société; contre les hommes, qui sont des éléments de
division, de hiérarchisation de plus en plus extrême et par conséquent de plus en plus intolérables.
Tout ce qui va dans ce sens là et, même plus largement tout ce qui s’éloigne d’une simple victimologie, me
semble participer à un mouvement de la plus grande importance et qui devrait être reconnu comme tel, même si
aujourd’hui le temps du féminisme est à peu près terminé, il y a un nouveau mouvement des femmes qui
correspond à ce que je viens de décrire très rapidement et dont l’influence devrait être de plus en plus grande
pour éviter l’éclatement de sociétés polarisées qui sont victimes du succès extrême de leur propre polarisation.
Merci donc d’avoir fait un beau document qui a le mérite en tout cas pour moi de prendre un ton intellectuel et
d’analyse au lieu d’être seulement de la dénonciation.
J’espère avoir l’occasion de vous rencontrer lors d’un prochain voyage à Milan.
En attendant je vous assure de mon amicale admiration.
Chiara Valentini, giornalista, L’espresso
Il mio primo lavoro, in nero, è stato al Corriere della Sera alla fine degli anni ’60, due donne su 400 giornalisti,
con il divieto di salire al primo piano perché avremmo disturbato con la nostra presenza il direttore e le grandi
firme. Insomma, sono una di quelle che il lavoro l’ha attraversato nei suoi molti aspetti, occupata a farcela e
ovviamente piena di sensi di colpa, in particolare nei confronti di mia figlia. Oggi al Corriere, come in tante altre
redazioni, e banche e fabbriche, ci si è in qualche modo adattati all’arrivo delle donne. Molto meno a quello dei
loro bambini. «La donna che va in maternità per me è come l’uomo che fa il servizio militare. Quando tornano
l’incidente è chiuso», mi aveva detto in un’intervista il capo del personale di un’azienda emiliana, compiaciuto
del suo spirito paritario. Anche se molti hanno ormai imparato a non dirlo ad alta voce, credo che questo sia
ancora lo stato d’animo prevalente. Ed è il terreno forse più favorevole su cui aprire il conflitto, perché qui sono
particolarmente evidenti le contraddizioni di una società che da un lato si dispera per il calo delle nascite,
dall’altro si rifiuta ancor oggi di prendere atto che lavoro e maternità non sono separabili. Nel vostro “doppio si”,
nell’ambizione non da poco di ricongiungere produzione e riproduzione, vedo un obiettivo che incrocia
efficacemente la quotidianità femminile.

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