28 Luglio 1994
Via Dogana n. 17/18

Il sindacato secondo Maria

Maria Marangelli FIOM di Milano

“Mettere al centro della politica la politica delle donne-, idea lanciata dalle pagine di Via Dogana, corrisponde alla necessità di essere intera nel luogo in cui ho scelto di stare e di lavorare: il sindacato alla Fiom di Milano. Questo vale anche per altre donne con le quali condivido la necessità di significare la differenza sessuale in questo luogo popolato e governato in maggioranza dagli uomini e dalle loro regole.
Altre scelgono di stare tra donne: un luogo protetto, di agio, di identificazione in altre come reazione all’estraneità alla politica degli uomini. Dove, tutto sommato, ci si sente presso di sé e dove rimangono fuori le ritualità maschili insopportabili. Nulla da dire sul fatto che sia giusto e naturale, ma non di politica si tratta quanto di una modalità di sussistenza.
Questa pratica risulta dannosa quando per dirsi, per essere compresa usa il linguaggio omologabile della rappresentanza di sesso e muove un agire sindacale femminile basato sul paradigma dell’oppressione/sfruttamento/discriminazione/ tutela. E’ dannosa per donne che hanno capacità e volontà di protagonismo e che non vogliono essere viste come discriminate o da porre sotto tutela (e queste donne giustamente la ignorano). E’ dannosa per la confusione simbolica che produce ostacolando un processo di presa di coscienza sul senso della differenza sessuale.
Il mio sapere di donna mi dice che alla base di qualsiasi contrattazione sta l’interrogazione dei propri desideri, la coscienza di sé per capire l’altro/l’altra. Essere sindacato si sostanzia nella contrattazione e nella comprensione di quali desideri, bisogni, necessità entrano in gioco e si confrontano. Fare sindacato è quindi dare voce all’esperienza del lavoro di donne e uomini. Tutto ciò appare scontato ma difficilmente si rintraccia negli uomini un nesso tra queste parole e la loro pratica. L’essere organizzazione prevale rispetto all’essere sindacato. Le parole prendono un corso indipendente- dalle’cose e dalla pratica. Nel giudizio di valore conta piú la fedeltà ad uno schieramento e alle tessere che consegni che la pratica e la qualità delle relazioni, dello scambio, dei percorsi di presa di coscienza individuale e del radicamento di capacità contrattuale collettiva nei luoghi di lavoro.
Si è chiamate/i dalle Segreterie a corrispondere alle decisioni che calano nelle zone come “ordini di servizio”: distribuire materiali e documentazione, fare le assemblee sugli accordi nazionali, sul contratto nazionale, fare le Rsu (Rappresentanze sindacali unitarie) nel piú breve tempo possibile. Il tutto vissuto dai sindacalisti ormai come incombenze sulle quali le Segreterie attendono il risultato finale, il voto. Non conta tutto ciò che c’è prima: gli umori, i vissuti, i bisogni espressi, i silenzi, le critiche, l’indifferenza a certi ragionamenti che rispondono piú al bisogno delle organizzazioni che ai bisogni della gente, l’esperienza di tutti i giomi di contrattazione individuale e collettiva. Tutto ciò appartiene ad una dimensione non indagata, non detta, non interpretata. E l’atteggiamento diffuso tra i sindacalisti è appunto quello di corrispondere unicamente ai risultati attesi. Non leggo nei miei colleghi nessuna curiosità, nessuna necessità di scambio sulle cose che avvengono nei luoghi di lavoro (in questo non c’è distinzione tra un socialista e un rifondatore, appartenenza che pure conta in misura determinante nella contrattazione dei posti di lavoro nella struttura sindacale).
La cosa che piú appassiona i sindacalisti maschi è la formazione dei e gli avvicendamenti nei gruppi dirigenti, il rispetto e il riprodursi a pioggia dal nazionale alla zona (fortunatamente non sono interessate le fabbriche) degli “equilibri congressuali” nei vari organismi dirigenti (leggasi equilibri tra diversi centri di potere), anche se poi molti di quegli organismi non si convocano mai o suscitano scarso interesse, a vedere dalle presenze.
Non c’è percezione che il progressivo indebolimento della capacità contrattuale della classe operaia e lavoratrice è sí prodotto dalle pesanti ristrutturazioni in atto nell’industria e dal posto di lavoro a rischio, ma è anche e soprattutto simbolico. L’incapacità di interrogare e interpretare i processi reali in corso, ì cambiamenti nel senso comune di pensare il lavoro e il sindacato, si traduce in un linguaggio ,lontano dalla realtà.
Questa situazione abbisogna urgentemente di mediazioni femminili.
La relazione tra donne, nell’interrogare il senso dell’agire, ha la capacità di mostrare cieche è essenziale, la possibilità e la necessità anche di schierarsi ma pensando ed agendo al di fuori della logica degli schieramenti. Il partire da sé è una misura necessaria per tutti, soprattutto per gli uomini che ora non ne percepiscono l’importanza. Lo stesso vale per il nesso tra parole e cose pratiche.
Questa è la misura che io uso nel giudizio che esprimo su uomini e donne e nei percorsi che indico ai delegati. La ricerca di misura è necessaria ogni giorno e su ogni avvenimento di una certa importanza. lo mi ritrovo a confrontare il mio punto di vista o con Mary che lavora alla Fiom di Bergamo o con Maia che è Segretaria della Fiom Regionale o con Dora che sta a Varese.
Questa pratica di relazione visibile ad alcuni uomini e ad alcune donne nel sindacato non è riconosciuta dai piú.
Qualcuno ama definirci: suore, assistenti sociali, praticone. Un segretario mi ha chiamata Madre priora. Altri vedono nella relazione tra me e Maia una congiura contro l’autonomia della Fiom di Milano essendo lei al regionale.
Impegnamo molta della nostra energia a modificare il contesto nell’ambito delle relazioni che abbiamo in un dato luogo, sottovalutando che i cambiamenti veri avvengono sul piano del simbolico. Siamo quindi riconosciute da quelle donne e quegli uomini che sanno vedere nella nostra pratica una risposta alle loro domande, ma non abbiamo ancora prodotto un cambiamento leggibile in tutto il sindacato.
Altro aspetto del problema sta nel considerare che, se gli uomini attingono ad un sapere femminile, questo sia di per sé un risultato importante perché si sarebbe riuscite a permeare la politica maschile. C’è il rischio di scivolare da “La politica delle donne è la politica”, a quel che pare il suo sinonimo ma non lo è: “la politica delle donne è la politica”, e cioè la politica delle donne si dà nella politica a tutto campo, il che ci porta ad essere delle brave sindacaliste alla pari di pochi altri bravi sindacalisti ma senza esercitare competenza simbolica. Succede sempre di più man mano che la realtà porta a galla le verità, che gli uomini si ritrovino a dire cose elaborate dal movimento delle donne senza che provino però la necessità di mostrarne l’origine e quindi appropriandosene senza capacità di govemarle proprio perché non hanno sulle questioni la competenza necessaria. Faccio tre esempi. Il tema della riduzione degli orari: ricorrono parole come “necessità di riconoscere la sfera degli affetti/dei sentimenti, ricomposizione di pubblico e privato, la cura, il tempo per sé” ecc. Qualità totale e organizzazione del lavoro: “fanno ostacolo al cambiamento organizzativo delle aziende le loro strutture gerarchiche, le burocrazie, il conflitto di potere e l’ambizione dei capi”. Professionalità e criteri di valutazione di donne e uomini al lavoro: “Da una separazione netta tra mansioni direttive ed esecutive alla necessità di ricomposizione del lavoro e delle mansioni, il senso della responsabilità, la competenza relazionale e comunicativa, l’importanza del processo rispetto alle singole mansioni, la qualità del lavoro”, ecc.
Visti gli esiti contraddittori della nostra pratica politica di donne, c’è quindi una questione sulla quale interrogarsi. Forse diamo per scontato ciò che agli occhi dell’altro non lo è affatto. lo mi penso in maniera diversa da come l’altro pensa me. Per me c’è coincidenza tra il mio agire e il mio essere donna, c’è in maniera consapevole. L’altro interpreta il mio agire e il proprio agire senza attribuire senso al mio essere donna e al suo essere uomo.
L’incapacità di dare valore a parole di donna deriva dunque dall’assenza di autocoscienza maschile. Ma anche dalla debolezza delle mediazioni femminili. Questo perché in fondo la relazione serve a trovare misura per sé e ad andare sole nel mondo, e si sottovaluta la necessità di mostrarne l’origine: il che pur non avendo nulla a che vedere con le quote, potrebbe in ultima istanza essere interpretato, come una politica di accesso al potere.

Print Friendly, PDF & Email