1 Marzo 1998
Via Dogana n. 37

Più narrazione, meno rappresentanza

Intervento del Gruppo Lavoro di Milano al convegno Luhmi 1997

Moltissimi lavoratori, anche dipendenti, soffrono di una realtà fatta di solitudine, di difficoltà di relazione con chi svolge lo stesso tipo di lavoro.
Il convegno di Luhmi del 1997 ha inoltre messo in luce che i lavoratori autonomi in molti casi si trovano in concorrenza tra di loro. Tutto ciò è causa di una debole capacità contrattuale e di una diffusa condizione di subalternità e di sfruttamento, soprattutto nel caso dei lavoratori autonomi di seconda generazione, ovvero i lavoratori che hanno prevalentemente un unico committente.
Il nostro è un gruppo di lavoratrici autonome e non che riflette sul lavoro che cambia e sulla sua femminilizzazione. Nei nostri incontri siamo arrivate alla conclusione che la discussione sulle forme associative deve partire dalla distinzione tra lavoro autonomo scelto, con i vantaggi e rischi che comporta, e lavoro autonomo subìto. Piccoli imprenditori e artigiani da una parte, e lavoratori parasubordinati dall’altra, per citare i due estremi, a nostro avviso non hanno molto in comune. Bisogna tenere assolutamente conto di questa diversità. Perché non solo tali lavoratori fanno lavori diversissimi fra di loro, ma hanno anche un atteggiamento mentale e una cultura del lavoro molto diversa. Il grado di diversità è stabilito dalla quantità di decisioni autonome che essi possono prendere. Al fine di creare una cultura del lavoro autonomo, è indispensabile una riflessione di ciascuno/a su che cosa si vuole essere: lavoratrice autonoma a tutti gli effetti, oppure parasubordinata. Perché solo da questa riflessione può dipendere una scelta rigorosa delle forme di coalizione.
Quindi: quali forme di aggregazione e coalizione il lavoro autonomo, sia quello scelto che quello parasubordinato, può creare?
La nostra convinzione è che si deve puntare sulla autotutela. Perciò bisogna che la forza nella contrattazione provenga da te stessa/o e dalla qualità delle relazioni associative che si riesce a stabilire – cioè il contrario della delega di tipo sindacale che prevede un gran numero di iscritti all’organizzazione e pochi dirigenti che trattano a loro nome. Ciò significa che se si vuole pensare a forme di autotutela del lavoro autonomo, questo va fatto al di fuori della logica della rappresentanza. Questa impostazione, a nostro parere, vale anche per il lavoro autonomo parasubordinato.
La rappresentanza, infatti, è ormai in crisi anche per il suo beneficiario tradizionale – il lavoro dipendente – e la crisi della rappresentanza sindacale sta nel fatto che si continua a pensare agli operai come a una realtà sociale omogenea, quasi seriale, mentre questo non è più vero da tempo. In secondo luogo, se mai è stato vero per gli operai, non lo è sicuramente – anzi la cosa non è nemmeno pensabile – per il lavoro autonomo.
Questo perché il lavoro autonomo, non essendo riconducibile a un tutto omogeneo, non è riducibile a quantità e non ha necessità di rappresentanza (in politica le cose di cui non c’è necessità non camminano e cammina solo il potere). Il sindacato inoltre ha la pretesa di essere l’unico rappresentante del lavoro. Non vorremmo prevalessero delle organizzazioni del lavoro autonomo parasubordinato strutturate come i sindacati di categoria o appoggiati ad essi. L’associazionismo del lavoro autonomo in parte è già plurale e sperimentale, e tale deve restare nei suoi sviluppi futuri.
Si può intervenire finalmente con la nostra esperienza di aggregazioni femminili non basate sulla rappresentanza, né sulla organizzazione rigida del movimento operaio tradizionale.
Possiamo dire, grazie alla politica delle donne, che si può andare oltre la rappresentanza, senza sentire la necessità di salvarla – le ragioni di questa crisi sono tali da non invitarci a farlo. Molte situazioni nei campi più diversi, dall’università all’esperienza di lavoratrici autonome associate, testimoniano già questa possibilità di andare oltre la rappresentanza, aumentando la propria forza.
Anche le donne prima di diventare un movimento, erano sole, molto diverse per età, ceto sociale, luoghi di provenienza e, spesso, anche rivali. Ma ciò che le ha spinte ad aggregarsi e a modificare le forme della politica, è stato il bisogno e il desiderio di incontrarsi, di raccontarsi le proprie esperienze più profonde, mai narrate prima di allora, liberamente, in piccoli gruppi. Certo in comune c’era l’oppressione patriarcale, ma la forza che si acquisiva e che si è acquisita da questo entrare in relazione l’una con l’altra, è stata quella della scoperta della propria singolarità e l’uscita dall’anonimato della propria singolarità. Non c’è stato bisogno di organizzazioni unitarie e partiti delle donne, né di una pratica di rivendicazione nei confronti del potere politico. C’è stata invece e soprattutto presa di coscienza e modificazione soggettiva nel rapporto con la realtà, modificazione della realtà stessa attraverso la migliore qualità delle relazioni scambio, necessarie per acquisire forza e valore. La intensificazione degli scambi modifica gli individui nel senso di renderli più consapevoli di sé, quindi più forti nel rapporto con il mondo. Cresce, quindi, anche la loro forza contrattuale.
Occorre perciò più narrazione e più rappresentazione, piuttosto che rappresentanza. È questa la politica del simbolico, che non conta sul fatto numerico, ma sulla qualità delle relazioni e sulla presa di coscienza di sé, dei propri desideri e dei propri problemi. È dalla conquista di un linguaggio originale, non più preso a prestito dal lavoro dipendente con la sua storia peculiare. Il confronto tra capitale e lavoro, se accettiamo questo linguaggio, domanda da parte del lavoro, non solo forza per resistere, ma anche creatività sociale, nel senso di nuove differenze, nuovi linguaggi e nuove forme di coscienza, nella maniera più spregiudicata.
Le donne hanno tenacemente voluto conservare nel tempo la formula politica vincente del partire da sé e dal mettersi in relazione con l’altra/o. Gli effetti sul piano della libertà femminile sono sotto gli occhi di tutti/e. Quelli che insistono con le quote e con altro per rimpolpare la presenza femminile nelle strutture della rappresentanza non capiscono che c’è un’indisponibilità di fondo delle donne a rinunciare alla propria singolarità e alla qualità delle proprie relazioni di scambio in nome della serialità della rappresentanza. La stessa indisponibilità delle donne alla organizzazione e alla rappresentanza si riscontra anche tra i lavoratori autonomi, specialmente tra i più giovani. La cosa non sorprende pensando a questo tipo di società di cui si dice che sia malata di individualismo, ma di cui forse dovremmo riconoscere il valore della singolarità personale, risorsa personale che non esclude la dimensione collettiva, basti pensare allo sviluppo della cooperazione e della mutualità.

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