1 Dicembre 1993
Via Dogana n. 13

Ritratto di operaie con psicologa

Nedda Bonaretti

Negli ultimi due anni ho avuto modo di vivere un’esperienza con alcune centinaia di donne operaie appartenenti a grandi aziende milanesi.
Il lavoro mirava a far acquistare ad ogni lavoratrice maggior consapevolezza delle proprie capacità e potenzialità personali, affinché ognuna potesse riorganizzare il proprio progetto di vita in modo a sé conveniente. L’obiettivo era di utilizzare positivamente un momento di crisi e di cambiamento, provocato dalla mobilità interna ed esterna che le aziende avevano messo in atto per esubero di personale.
All’interno del personale in mobilità le operaie costituivano la grande maggioranza ed erano le piú colpite, perché quasi tutte, essendo collocate a livelli piú bassi degli uomini, avevano qualifiche sempre meno richieste dal mercato.
Che cosa pensano e sentono queste donne, assai poco gratificate dal contesto sociale, l’abbiamo saputo attraverso molte risposte, osservazioni, emozioni, sospiri e lacrime, alcune volte sussurrando le parole o smorzando il tono, ma sempre nella direzione di ciò che ritenevano vero e valutavano giusto.
In una delle aziende dove lo sfruttamento era al limite della sopportazione, le partecipanti, nonostante la sofferenza, la rabbia e a volte anche la resa per troppa stanchezza, quando si sentirono piú forti perché protette dalla privatezza del gruppo e gratificate per avere contribuito alla riflessione su se stesse e sul contesto, cominciarono col dire: “sono contenta di essere qui”, “ho capito meglio chi sono, Prima non mi conoscevo”, “abbiamo tanto sofferto, che almeno potessimo servire a qualcosa di buono”, “sono contenta di aver capito che fra noi donne abbiamo tante cose in comune”, “stare insieme aiuta noi donne ma anche gli altri, se volessero ascoltare”, “sono contenta perché qui abbiamo potuto dire la verità. La menzogna ci uccide”. E poi: “siamo qui per fare, anche noi abbiamo delle idee”, “non buttiamo via quello che è stato fatto!”.

Dire la verità

In un’azienda è stata eclatante la capacità delle operaie di individuare i valori dell’organizzazione. Hanno saputo evidenziare tutti i punti forti che possono far grande e funzionale un sistema di produzione, gli stessi punti indicati da illustri esperti internazionali di management e organizzazione – ad esempio Edvin Deming, Chester Bernard, Rosabeth Moss Kanter, Chris Argjris, Luciano Gallino – che hanno ampiamente scritto sul modo di poter far sopravvivere un’unità produttiva nella complessità sociale e commerciale odierna.
Confrontando i punti forti proposti dagli esperti e quelli dichiarati dalle operaie; possiamo schematizzare qualche esempio di correlazione:

Esperti

Al cliente vanno date risposte anticipatorie e di qualità (Deming).

Le risorse umane oggi sono considerate poten- ziali fonti di valore (MossKanter).

La qualità dei prodotto è correlata alla qualità del lavoro e questa è tantopiú alta quanto piú ampio è lo spazio delle decisioni che il lavoratore assume in proprio e contribuisce personalmente a formulare (Gallino).

Il futuro dell’organizzazione sta nello sviluppo potenziale individuale di tutti I dipendenti secondo un modello partecipativo.(Argjris).

Lavoratrici

Bisogna contentare i clienti, non bidonarli.
Siamo numeri’ e, non persone, le macchine ricevono maggior rispetto.

Bisognerebbe lavorare con piú testa e piú qua lità. Sono costretta a fare del lavoro di bassa qualità perché qui quello che conta è la quantità.

Vorrei fare meglio, lavorare bene, dare piú contributo. Il senso di responsabilità vuol dire fare il lavoro bene.

Come spiegare una sintonìa cosí precisa fra l’interpretazione della realtà aziendale descritta dalle donne, che vivono in prima persona l’organizzazione stessa ma non hanno uso e familiarità con analisi teoriche, e le proposte degli esperti, che invece misurano i fenomeni attraverso sofisticatissimi sistemi astratti?
Un secondo interrogativo sta nel perché le considerazioni delle lavoratrici assumono immediatezza, verità e forza con la chiarezza dell’ovvio, solo quando queste donne vivono la condizione del privato, della fiducia di non essere giudicate. Perché dunque tanta forza nel descrivere ciò che può dare funzionalità alle cose, e tanta debolezza nel pretendere che ciò avvenga davvero?

 

Un codice femminile
Il dire delle donne mostra una propria logicità, ricchezza di intonazione morale, intuizioni, che fanno parte di un codice femminile. Nel caso di queste donne, il loro codice si è mosso su cinque contrapposizioni: l’appartenenza contro l’indifferenza, la cura contro lo spreco e l’abbandono, la gratitudine contro l’invidia e, non ultimo, il benessere contro la sofferenza. Questi atteggiamenti li troviamo in molti passi: quando parlano dei genitori, dei figli, dell’amicizia, dei colleghi, dell’azienda e della società in generale.
I valori della relazione sono sentiti fortemente, perché espressi con evidenza, attraverso parole e mimiche intensamente comunicative che marcano bisogni, desideri, sentimenti e volontà di fare; valori differenti dal codice maschile tutto ancorato sulla ragione, come dice Victor J. Seidler nel suo libro Riscoprire la mascolinità (Editori Riuniti 1992). Secondo la tradizione kantiana, riporta l’autore, solo la ragione è affidabile, tanto da negare i bisogni del proprio corpo e i propri desideri per concentrare le proprie energie su obiettivi individuati attraverso l’esercizio indipendente della ragione. Il codice femminile, viceversa, fa gran conto dei suggerimenti che provengono da un profondo senso morale. Invece di affidarsi al sistema dei diritti che, come dice Elisabeth Wolgast (La grammatica della giustizia, Editori Riuniti 1991), semplificando oltre misura il nostro ragionamento può portare a rimedi grotteschi, le donne si sentono responsabili di una giustizia distributiva sostenuta dalla compassione e dalla cura, e sono motivate dal riconoscimento della diversità dei bisogni. Un atteggiamento tanto evidente da far dire a Carol Gilligan (Con voce di donna, Feltrinelli 1987) che il metro della sofferenza con il quale le donne misurano la realtà crea e mantiene in vita la comunità.
Questo è il codice femminile che dà risposta al primo quesito, perché cosí forte nelle donne la sintonia con i bisogni della realtà e l’immediatezza delle risposte-soluzione.

Forza e debolezza
Per il secondo quesito – perché tanta forza di esprimere un proprio codice verso la costruttività, l’aiuto e la riparazione in sedi protette e private, e tanta debolezza nel sostenere il proprio pensiero in sedi pubbliche? – la risposta non mi fu di facile intuizione. Non riuscivo a vedere il rapporto fra l’essere positivo e forte delle donne e il senso che questa forza, tutta raggomitolata in se stessa, aveva. La risposta convincente me l’ha data Luisa Muraro, leggendo il suo libro L’ordine simbolico della madre (Editori Riuniti 1991). La Muraro mi offrì quel tassello che mancava per coniugare essere e senso, o meglio per capire perché oggi non si possono
ancora coniugare nell’agire di queste donne operaie nei confronti del cambiamento.
Dove sta dunque lo iato che non permette all’essere e al senso di coincidere e di mostrarsi insieme? “Abbiamo perso -dice Luisa Muraro – il legame fra il senso dell’essere e l’esperienza di relazione con la matrice della vita: l’avvento della legge del padre che si sovrappone alla positività dell’opera della madre, scinde la logica dall’essere ed è causa del perdere il senso dell’essere”. “Le opposizioni e analogie fra la vita naturale e culturale hanno la conseguenza di mettere fuori gioco quello che fanno di assoluto e non appropriabile le madri, a cominciare dal fatto che esse, oltre a fare ciò per cui l’anagrafe le chiama madri, di solito insegnano anche a parlare e parecchie altre cose che stanno a fondamento della civiltà umana”. Il bisogno simbolico della madre, che ha un luogo fortissimo nell’infanzia, viene automoderato, afferma ancora Luisa Muraro. L’automoderazione fa tacere desideri e paure, e l’autorità delle donne viene in tal modo insabbiata. Esse si sentono, come dicono le partecipanti, “una che non può”.
Queste donne operaie e anche una grande quantità di altre donne, non sanno che il loro forte codice morale proviene da quella madre della quale hanno conservato sí il codice, ma hanno perduto l’ordine simbolico, quell’ordine che ha fornito loro la cultura originaria che viene dopo il caos. Ecco dunque il motivo della spaccatura tra essere e senso.
Ora appare chiaro qual è la fonte culturale comune da cui esperti e operaie, cosí lontani fra loro, hanno attinto per arrivare alle medesime conclusioni. Queste radici comuni le donne le sentono, e hanno anche fatto capire che non desiderano che ci sia chi sta sotto e chi invece sta sopra, affermando che “se vogliamo affrontare la situazione, dobbiamo starle di fronte, non di sotto”.
Qualcuna di loro ha preso consapevolezza della forza del proprio codice e desidererebbe dargli voce pubblica. Anche gli uomini stanno cercando qualche cosa che hanno perduto da tempo. Forse è possibile che ci stiamo avviando verso il recupero di quell’autorità che universalmente la madre ha dato a tutto il genere umano.

Print Friendly, PDF & Email