30 Settembre 1995
Via Dogana n. 23

Si può fare

Maria Bucci

funzionaria FP-CGIL, Pescara

Come sindacalista mi occupo degli enti locali a Pescara. Non tutto il lavoro delle impiegate e impiegati nel pubblico impiego può essere classificato come parassitario. Che la Pubblica Amministrazione risponda per lo piú a logiche interne burocratiche corrisponde al vero, ma è anche vero che la buona volontà dei singoli, quel piú di impegno, di competenza e a volte di creatività che alcuni/e mettono in gioco, evitano il collasso dei servizi pubblici.
La Pubblica Amministrazione ha modelli generali, standards a cui tutti devono uniformarsi a priori. 1 lavoratori e le lavoratrici sanno che la realtà è diversa, che pur rimanendo nella legalità, gli ambiti di discrezionalità sono ampi, si possono superare le inutili tortuosità burocratiche usando la propria competenza come strumento per prendere iniziative. E’ esemplare l’esperienza di una donna che lavora alla Procura di Pescara: grazie al suo lavoro di ricerca e di approfondimento con il magistrato, ha costruito una rete di contatti e di collaborazione con colleghi dei Comuni che ha modificato il ruolo stesso della Procura da puro organo di controllo a vera e propria consulenza. Il di piú che alcuni/e mettono in gioco nel rapporto con il lavoro non trova sempre riconoscimento, sfocia spesso nella gratificazione personale o copre mancanze e responsabilità dei pubblici amministratori. Ma se si fa del lavorare bene una misura e un giudizio di ciò che non funziona, si passa dall’adempimento burocratico formale alla produzione di un servizio. Si coglie il risultato del rintracciare in ciò che si fa utilità e senso.
Il sindacato è promotore di leggi per la Pubblica Amministrazione caricandosi di un ruolo e una responsabilità che non gli sono propri. Ha fatto propria la logica burocratica della Pubblica Amministrazione: basta la legge che sancisce diritti e doveri. Si è autoregolamentato per il diritto di sciopero e ha preteso che divenisse legge, ha autoregolamentato la propria rappresentanza e rivendica che diventi legge. Chiede la deregolamentazione ed è esso stesso produttore di nuove leggi. Il sindacato pretende di combattere le inefficienze della pubblica amministrazione con la privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici e contrattando negli enti pubblici il salario finalizzato al miglioramento qualitativo dei servizi.
Non è vero che a piú salario corrisponde piú qualità e viceversa. Non è quantificabile e monetizzabile ciò che le lavoratrici e i lavoratori producono in termini di relazioni, tessuto sociale e risultati. Quando ho cercato di far sí che l’organizzazione su questo riflettesse, ho trovato un muro. Tutti i tentativi producevano reazioni feroci, ricorsi ai garanti per violazioni statutarie, denigrazioni, ecc… senza entrare mai nei contenuti. L’obiettivo, anzi, era quello di evitare accuratamente il merito. Da queste reazioni ho capito che non erano in gioco differenti punti di vista ma differenti pratiche sindacali e che il mio giudizio sull’azione sindacale era destabilizzante. Mi sono detta: se la relazione con un’altra donna mi ha messa in movimento, restituendomi il desiderio di fare politica, e mi ha tolta dalla miseria e dall’impotenza, può funzionare anche per altre/i. Allora ho messo in atto questa modalità con chi era interessato/a a interrogarsi sullo stare nel sindacato. Sentivo che questa volta il giudizio sulla pratica sindacale della mia categoria avrebbe avuto dei rimandi, non sarebbe caduto nel vuoto. Cosí io e altre/i ci siamo autoconvocati a partire dalle nostre necessità, perché avevamo delle cose importanti da dire e volevamo dirle nei luoghi per noi rilevanti, quali sono i posti di lavoro, chiamando le iscritte e gli iscritti a esprimersi. L’assemblea autoconvocata ha deciso di chiedere il congresso straordinario della funzione pubblica di Pescara che può tenersi per statuto con le firme del dieci per cento degli iscritti. Nulla sarebbe stato piú come prima, non tanto per la richiesta in sé ma per il percorso che metteva in moto. Era chiaro per noi che il congresso era un momento e non
il momento di un percorso che stava già nelle cose e che andava assecondato. Ma era anche di piú. Dire la verità sull’organizzazione era necessario ma non sufficiente, bisognava mostraré una strada percorribile e i suoi effetti nel contesto sindacale. L’abbiamo chiamata “la strada del si può fare” assumendoci la responsabilità in prima persona per fare il possibile e farlo subito senza
aspettare che la Cgil si riformi o che si riformi la pubblica amministrazione per impulsi esterni o per un mutato quadro politico. Per chiedere il congresso occorreva stilare un documento, discutere con altre/i perché lo firmassero, scrivere le tesi congressuali, svolgere le assemblee in tutti i posti di lavoro, sancire con un voto finale le linee guida dell’azione sindacale ed eleggere il gruppo dirigente. Il congresso quindi sarebbe stato la massima esposizione per l’organizzazione costretta a misurarsi nei luoghi di lavoro, lí dove massima era la sua debolezza, a reggere il giudizio delle iscritte e degli iscritti. Per noi il congresso avrebbe messo a verifica le relazioni, i rapporti costruiti che ci consentivano di muoverci a tutto campo senza confinarci negli schieramenti o coincidere con le regole.
Gli effetti della nostra pratica erano sotto gli occhi di tutti: la modalità relazionale, il senso del lavoro nella pubblica amministrazione quale “prezioso agire irregolare che è pratica diffusa ma ancora troppo silenziosa, la pratica dell’illegalità responsabile” (come Clara Jourdan dice su Via Dogana n. 12), le alleanze intrecciate con altre/i, il sapere dell’esperienza che conta e produce effetti negli incontri. Le diverse esperienze agivano, erano riconosciute a differenza della prassi dell’organizzazione che nega e neutralizza ciò che non riesce a omologare. Di fatto non esisteva un gruppo ma rapporti che agivano di volta in volta secondo le necessità e il contesto; non c’era pretesa di coinvolgimento allo stesso modo di tutte/i; si andava costruendo una rete di relazioni.
Nelle assemblee congressuali molte/i iscritti/e hanno detto ciò che a loro risultava: un sindacato sradicato dalla vita, incapace di tener testa alle trasformazioni già in atto nel mondo del lavoro; le leggi, i contratti, gli accordi nei quali scompaiono i corpi, i desideri, le necessità di chi lavora sono rimedi peggiori dei mali che si vorrebbero curare. Alcuni/e pur riconoscendosi nel nostro percorso non tolleravano la spaccatura nel sindacato: un sindacato che se pure non piace. rappresenta comunque una sicurezza e una appartenenza.
Il risultato politico delle assemblee andava agito e fatto pesare nel l’organi zzaz ione uscendo dal gioco maggioranza-minoranza, dal pluralismo, dalla cogestione. Per questo ho contrattato con uomini che avevano il potere, un documento congressuale finale unitario che tenesse conto delle proposte venute fuori dalle assemblee di posto di lavoro. Le iscritte e gli iscritti chiedevano di gestire autonomamente parte delle risorse umane e finanziarie e di scegliere direttamente gli uomini e le donne per la contrattazione nei luoghi di lavoro. Sapevo che l’accettazione di questi due punti non avrebbe chiuso il conflitto, perché non basta né un congresso né un documento unitario a modificare la pratica tipica dell’organizzazione, ma l’avrebbe se mai spostato dal congresso all’azione quotidiana. Potevo continuare, con la mia pratica, l’opera di svelamento. Quindi ho votato con un atto di fiducia il nuovo segretario generale perché ho riconosciuto, a quel punto, necessario chiudere lo scontro. Nello stesso tempo ho verificato che sbilanciarsi, squilibrarsi verso uno/a destabilizza il “pluralismo dell’organizzazione”. Non parlare in rappresentanza di… ma a partire da me, mettendo in gioco me stessa e le relazioni, potendo cambiare rende i ndomi imprendibile, manda in tilt gli uomini regolati da ritualismi ferrei che sanno rompere ma non attraversare.
Si può dire oggi, dopo questa esperienza, che il sindacato è cambiato? Posso dire che il sindacato a Pescara è il luogo in cui esiste una pratica che mette in circolo la parola con l’esperienza attraverso la leva della relazione. Il dato politico inconfutabile è che l’esperienza fatta costituisce un precedente politico per l’organizzazione.

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