8 Aprile 2011

Per ripensare il lavoro e la politica

 

Giordana Masotto
intervento in occasione del convegno ARS “Vite al lavoro. Donne e uomini nella crisi: letture e proposte del femminismo italiano”, Camera del lavoro

Vorrei riportare l’attenzione su alcuni punti che sono emersi nelle relazioni introduttive* e che mi sembrano fondamentali se vogliamo trarre un po’ di materia vera dal problema posto da questo incontro. Quale problema si vuole porre qui?
Secondo me, non solo ripensare il lavoro, ma metterlo al centro del nostro bisogno di politica. Voglio dire che non si tratta solamente di mettere a confronto le strutture teoriche di interpretazione del lavoro.
È vero che di pensiero ne è stato prodotto tanto. E questo punto va ribadito.
A questo proposito mi colpisce – e lo giudico un grave errore politico – che si continui a dire, come fa Susanna Camusso, che il femminismo non ha fatto elaborazione teorica sul lavoro. Gliel’ho sentito dire in più occasioni, avrà i suoi motivi per negare questo fatto evidente, ma è un’affermazione che scompensa, che non tiene conto di ciò che è avvenuto e non vede il grande valore politico che invece avrebbe – come cerchiamo di fare qui – ripartire dalle analisi già fatte. Del lavoro sappiamo moltissimo. Perché il femminismo ha fatto elaborazione sia sul lavoro delle donne sia sul lavoro in generale visto a partire dall’esperienza che ne hanno le donne e della femminilizzazione del lavoro. È un dato di realtà che sarebbe bene non censurare. È vero, come dice Camusso, che il pensiero delle donne si è fermato alle soglie del sindacato. Ecco, bisognerebbe vedere chi ha chiuso la porta. Però negare che ci sia un pensiero delle donne, parole che hanno gambe e che camminano, negarlo, io lo definisco un grave errore politico di cui mi piacerebbe poter chiedere conto.
Dunque elaborazione ce n’è, ce n’è tanta, magari va in filoni diversi, come è stato sottolineato da qualcuna, ma non mi interessa qui fare i distinguo. Il punto qui è un altro. Siamo qui perché vogliamo che accadano cose. Come facciamo per aprire dei conflitti efficaci, come diceva Maria Luisa Boccia? Come si fa a connettere tutto questo lavoro teorico, in modo che accadano cose sul piano politico? Che il lavoro torni al centro della scena pubblica, non solo perché ci siamo costretti dalla crisi, ma perché c’è un progetto politico.
Per ripensare oggi il lavoro e metterlo al centro del nostro bisogno di politica, bisogna guardare a tre cuori del discorso.
Il primo riguarda “l’idea di lavoro”, che cosa è lavoro.
Il secondo riguarda i soggetti: quale posto gli attribuiamo nel nostro agire politico.
Il terzo riguarda la pratica politica: quanto riteniamo necessario e urgente cambiarla.

1. Che cosa è lavoro
Su questo punto di elaborazione ce n’è tanta, fatta da tante donne. Al cuore di queste elaborazioni c’è un punto di vista che a me pare unico: ed è il desiderio di connettere pezzi diversi di lavoro e di vita.
Questo punto di vista che connette parti diverse è basico nella vita di ogni essere umano, è tutto meno che elitario, è esperienza quotidiana nei corpi, nei sentimenti, nei pensieri. Non c’è un prima e un poi, nella vita di ognuno, donna o uomo che sia, è tutto connesso. Su questo sono state dette cose chiarissime e non sto a ripeterle. Ci sono dei rischi teorici: spesso questa semplice radicalità di pensiero viene raccolta e apprezzata, ma poi scivola via, viene “sussunta” nei discorsi (sussumiamo anche noi come il capitalismo), digerita, amalgamata e sostanzialmente resa inefficace.
Si obietta che il neoliberismo, o il finanzcapitalismo – comunque lo vogliamo chiamare – hanno colonizzato e messo a frutto tutto, tutto il tempo, tutto il sapere. Che nel frattempo il lavoro è cambiato, non è più garantito neppure con un contratto a tempo indeterminato e che la precarietà non è più una condizione transitoria. Ma questo paradossalmente conferma la necessità di chiudere definitivamente con analisi che hanno lo sguardo rivolto all’indietro.
Connettere, tenere insieme, arrischiarsi a transitare continuamente, tra alienazione e libertà, tra vivere e filosofare.
Tutto questo è il “lavoro bene comune” e va sempre tenuto presente. Altrimenti da una parte corriamo il rischio, pur con le migliori intenzioni, di “sussumere”, come ho detto, la differenza sessuale nelle analisi sul lavoro che cambia, cancellandone di fatto la portata politica. Dall’altra, pur professando condivisione in teoria, ci si attesta nella pratica nel binario noto/morto della discriminazione delle donne, come riconosce anche Susanna Camusso.

2. I soggetti
Anche su questo è bene fare chiarezza. Cerco di farla a partire da una parola che continuo a considerare illuminante sulla questione dei soggetti, anzi sempre di più, benché carica di fraintendimenti. Partire dalla soggettività di chi lavora vuol dire partire dal desiderio.
Desiderio è la pulsione radicale di ogni essere umano all’affermazione di sé, alla propria libertà. Come donne noi abbiamo fatto un duro esercizio di libertà proprio smarcandoci da quella cancellazione del desiderio che era il ruolo femminile imposto.
Noi l’abbiamo imparato lì che si parte dal desiderio. Perché era proprio il desiderio delle donne che era negato dal ruolo femminile. Da lì le donne sono nate come soggetto politico in movimento. Abbiamo scoperto che il desiderio bisogna autorizzarselo, che non è una cosa facile. Mi pare che le donne continuino a farlo, per gli uomini forse c’è qualche problema.
Vero è che oggi è più difficile di ieri, per donne e uomini. Ci hanno confuso le idee spacciandoci per desiderio lo shopping. Cioè un processo di erotizzazione che trasforma tutto in consumo: il formaggino, il detersivo, la vacanza, il proprio corpo, la propria vita, il proprio lavoro. Sono d’accordo con chi dice che bisogna deerotizzare il lavoro. Nel senso appunto che il lavoro non è un consumo. Nel mondo dei consumi le cose finiscono e infatti le dobbiamo ricomprare. Ma non abbiamo un’altra vita da comprare, un altro corpo.
Il desiderio al contrario non si consuma mai, è progetto di sé, è una pulsione irriducibile che trova il suo limite, la sua misura nella relazione con l’altro e con la realtà. E in questo senso è anche conflittuale. O creiamo dei luoghi in cui quella forza progettuale di sé che è connaturata in ogni essere umano, può riprendere corpo e parola, oppure continueremo a fare bellissime analisi, ma non accadrà nulla, perché gli esseri umani non trovano il modo di riconnettersi a questa pulsione che si verifica, si struttura senza fine, irriducibilmente, dentro le relazioni.
Questo è il nucleo del discorso politico. Creiamo luoghi in cui questa progettualità di sé possa riprendere vita, riprendere corpo, oppure non succederà nulla.

Partire dalla soggettività di chi lavora pone un problema che si chiama rappresentanza. Questo è un problema politico. Creare luoghi in cui si coniuga la libertà del singolo soggetto con la possibilità di agire come soggetto plurale (c’è chi dice collettivo, io preferisco plurale, perché i soggetti collettivi uniformi sono finiti). Questo è il problema e si vede nella crisi della rappresentanza (partiti, sindacati). Forse la libertà dei soggetti metterebbe meno in crisi la rappresentanza se si tornasse a intendere la rappresentanza non come delega data una volta per tutte, questo alla fin fine è alla base del populismo, ma come relazione continua attiva e condivisa, uno scambio che non si interrompe mai, ma questa relazione a me pare disseccata.

Da questo problema nascono molti pasticci e confusioni. Per esempio: nella Cgil ci sono molte donne ai livelli apicali, ci sono arrivate perché sono state messe in campo scelte e strategie ad hoc, che hanno funzionato. Possiamo dunque dire che le donne sono rappresentate nel sindacato? Che quelle donne rappresentano gli interessi delle donne? Sono queste le domande corrette? Come si rappresentano delle soggettività? Si può personalizzare la rappresentanza? Abbiamo discusso spesso con sindacaliste e queste sono le domande che si ponevano: come si fa ad affrontare questi problemi in una organizzazione che ha avuto la sua maggiore rilevanza sociale quando rappresentava il lavoratore tipo, l’operaio della catena di montaggio, il dipendente indifferenziato e maschile? Aggiungerei un’altra domanda: qual è una rappresentanza che oggi interessa le lavoratrici e i lavoratori? Mirafiori ha dato qualche risposta e la vittoria politica dei no dice che il coinvolgimento c’è quando c’è la massima attenzione alla libertà e alla complessità dei soggetti, che non c’è solo salario, o solo tempo, un mix complessivo che è la umanità dei soggetti.
Ma ci sono esempi positivi di una natura diversa di rappresentanza, e in parte se n’è anche già parlato.

3. La pratica politica
Che cosa intendiamo oggi per pratica politica? È creare spazi pubblici e aperti, trasversali, che secondo me andrebbero ancorati più al territorio che alle categorie, in cui si realizzi la parola e l’ascolto, la perdita più grave della politica tradizionale. Parola e ascolto e dunque pensiero. Perché che cos’è fare politica? È rimettere al mondo i soggetti. Perché non si nasce con la patente di soggetto politico. Secondo me fare politica è creare le condizioni perché ci sia una creazione continua di soggetti politici, nel conflitto e nel cambiamento. Senza troppi distinguo identitari: luoghi in cui le persone vogliano incontrarsi, esserci, dicano “io ci sono”. E che questo sia un lavoro che continua, un movimento. Su questo le donne oggi dicono qualcosa: non mi chiedo se lo dicono a partire da un’esperienza storica, da una femminilità originaria o secondaria. Non lo so, non importa. Ma di certo le donne oggi dicono per esempio che il conflitto va ripensato.
Non solo nel senso radicale detto prima della irriducibilità del desiderio, ma anche di quella esperienza quotidiana che andrebbe ben affrontata, oscillanti come sono le vite delle donne tra il soccombere, magari negando il proprio desiderio, e l’iperattivismo che cerca di tenere tutto insieme senza chiedere. Insomma le donne come ammortizzatori. Ecco, ripensare il conflitto dal nostro punto di vista, mi pare dovrebbe essere la terza via. Conflitto come processo continuo, che fa la spola tra necessità e libertà. Come donne vediamo che smuove più cose l’autocoscienza del pensiero critico, l’azione più che la reazione, il conflitto relazionale più che la guerra di annientamento del nemico. In questo le donne parlano, dicono. Per questo bisogna creare luoghi in cui queste cose possano avvenire. La chiarezza a priori nessuno ce l’ha.
Per questo a Milano abbiamo pensato a un luogo che rifletta questa idea di pratica politica: l’agorà del lavoro. Per riportare l’esperienza e il discorso su tutto il lavoro necessario per vivere al centro dello spazio pubblico.
Vogliamo inventare uno stabile terreno di incontro sulla materialità e sul senso del lavoro (e dei servizi), che spezzi l’isolamento e l’afasia e faccia nascere soggetti politici.

* Una sintesi dell’ampia relazione di Maria Luisa Boccia sarà pubblicata nel prossimo Pausalavoro, Via Dogana 97. La relazione di Alberto Leiss è su DeA.

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