30 Novembre 2005
Autogestione e politica prima

…e sia il lavoro atipico. Fu così che nacque il lavoro tipico

Alessio Scolfaro

E’ sabato mattina e Verona ha ancora sonno. Il tempo è soleggiato, poche macchine e qualche turista. Incontro Marco in un bar del centro. L’aroma del caffè. Piattini e tazzine cozzano tra di loro emettendo il tipico tintinnio. Il locale è semivuoto, troviamo facilmente un tavolino in una saletta laterale. Qualche avventore. Il cliente abituale, una risata. Due caffè e un succo all’ananas. C’è poco tempo, qualche convenevole… inizia l’intervista.

 

Come vedi il lavoro atipico? Come vedi l’odierno mondo del lavoro e come lo descriveresti?
Per quanto riguarda la riflessione sull’atipicità e sull’esperienza che i giovani hanno con il mondo del lavoro ci sono molte cose da sottolineare. La prima, è che l’aumento progressivo della scolarizzazione ha fatto sì che la maggior parte dei giovani si confronti con lunghe esperienze scolastiche. Oramai è elevata la percentuale delle persone che completano non solo gli studi obbligatori ma anche quelli superiori, universitari e spesso conseguono anche livelli successivi attraverso master e/o dottorati. Queste sono persone che hanno un’alta formazione ma che, nonostante questo, si trovano paradossalmente in difficoltà con un mondo del lavoro che in questi decenni si è andato trasformando. L’orizzonte è sempre più indefinito e precario. E’ aumentato il periodo che i giovani impegnano per trovare una qualche forma di impiego minimamente stabile, e non sto quindi parlando necessariamente di assunzioni a tempo indeterminato che taluni forse non conosceranno mai. Questi sono due primi dati: quello di una ricerca faticosa e quella di una forte divaricazione tra l’elevata preparazione e la possibilità di trovare un lavoro coerente, o in qualche modo corrispondente, al tipo di formazione. La seconda cosa da notare è che il lavoro che veniva detto atipico, perché all’inizio era un’eccezione ed in qualche modo si presentava differente rispetto allo standard tradizionale del lavoro dipendente a tempo indeterminato, sta diventando per le nuove generazioni sempre di più la normalità. Ne esistono molteplici: come le collaborazioni a progetto, i lavori interinali, forme precarie di part-time e poi c’è tutto il popolo delle partite Iva, che ufficialmente sono lavoratori autonomi, ma spesso sono precari a loro volta e costretti alla partita Iva per necessità e non per scelta. Tutto questo vale, naturalmente, soprattutto per chi ha fatto percorsi umanistici o generici, e che quindi non ha seguito percorsi estremamente specialistici o più orientati al mercato. Esistono ancora, infatti, alcune competenze, alcuni percorsi formativi e professionali, in cui il rapporto con il mondo del lavoro è più facile.

 

In base a questi due elementi, come vedi il rapporto tra società e mondo del lavoro giovanile?
Per me il primo elemento di riflessione è questo: come si può pensare a una società che investe così tante risorse sulla formazione e sull’apprendimento, in maniera così marcatamente distinta da quello che poi è l’impiego effettivo nella società nel mercato del lavoro? Questo tipo di situazione può essere letta da due punti di vista diversi. Il primo, è quello di chi dice che i giovani devono semplicemente ri-orientare la propria formazione, la propria preparazione in funzione della richiesta del mondo del lavoro e che devono in qualche modo conformarsi a quella richiesta del mercato del lavoro. L’altro, invece, è quello di chi come me crede che si debba in qualche modo riconoscere che la preparazione e la formazione non possono essere semplici variabili dipendenti, ma vanno considerate risorse importanti da mettere a frutto. Ci sono generazioni di giovani che ha investito tante energie e risorse su un certo tipo di competenze e di preparazione seguendo passioni e interessi e quindi credo si debba inventare una politica del lavoro che in qualche modo tenti di andare incontro a questo tipo di realtà riconoscendo le competenze che ci sono. Per me, quindi, la prima questione è se le competenze che sono maturate in questi anni possono essere riconosciute oppure se sono ritenute inutili dalla società in cui viviamo. Il secondo elemento è rappresentato da una caratteristica che sta definendo il mercato del lavoro per i giovani. Per come posso interpretare io questo mondo, la situazione attuale non è quella di disoccupazione classica bensì quella paradossale di una sovraoccupazione. Non essendoci la sicurezza di un lavoro a tempo indeterminato, o comunque sicuro dal punto di vista temporale e del riconoscimento economico, ci si adatta ad assumere una molteplicità di lavori di diverso genere, spesso caratterizzati da forme contrattuali diverse fino a mettere insieme una retribuzione sufficiente ad andare avanti. La stessa persona la mattina fa un qualche lavoro part time che magari non ama tanto e, nel pomeriggio, ne fa uno che magari è meno retribuito ma che va più in contro alle sue passioni. Oppure, vi sono soggetti che fanno contemporaneamente un’insieme di lavori e mansioni che vagamente hanno a che fare con le loro competenze e capacità, passando da uno all’altro in base ai momenti e alle opportunità. Credo che sarebbe importante da questo punto di vista analizzare quali cambiamenti questo comporta nella nostra psicologia, nelle nostre relazioni e nella nostra antropologia. La compresenza di molti lavori, che però non hanno un riconoscimento economico sufficiente e che quindi impegnano un sovrappiù di impegni, spesso determina una colonizzazione anche dei tempi di vita, dei pasti, della sera, della domenica che nel lavoro tradizionale venivano tutto sommato salvaguardati. Oggi c’è una compenetrazione più forte tra gli spazi della vita privata e quelli del lavoro, con aspetti a volte molto negativi e a volte interessanti. Quelli negativi sono evidenti perché vi è una forma di parassitaggio dei tempi personali e dei tempi relazionali, che vengono sussunti nei tempi di produzione. Al contempo, però, è anche vero che questo risponde alla necessità di molti giovani di tenere più legate dimensioni personali, soggettive, emotive e relazionali con le attività che si fanno. Quindi, c’è anche una contaminazione inversa del proprio mondo soggettivo, sociale e relazionale che in qualche modo viene portato nello spazio di lavoro. Per me questo è un fatto prezioso. Credo che non riuscirei a sopportare una forte schizofrenia tra vita e lavoro. In questo stato di cose io vedo una vicinanza o, comunque, un’approssimazione dell’esperienza delle nuove generazioni a quella che è stata l’esperienza del lavoro delle donne negli scorsi decenni. Questa vicinanza possiamo rintracciarla in due elementi. Innanzitutto il già descritto maggiore intreccio tra tempo di vita e tempo di lavoro, tra tempi di produzione e tempi di riproduzione, tra modo affettivo-relazionale e mondo sociale-lavorativo che un tempo caratterizzava l’esperienza lavorativa femminile oggi riguarda sempre di più anche i giovani. Un’ulteriore dimensione che lega l’esperienza del lavoro delle donne all’esperienza del mondo delle nuove generazioni è quella legata al riconoscimento del tipo di lavoro. Una parte sempre più rilevante del mondo giovanile, sia per la trasformazioni del mondo del lavoro, sia per le trasformazioni nel modo di viverlo, si sta indirizzando verso forme di lavoro che non sono legate alla produzione materiale in senso stretto, ma che riguardano il lavoro immateriale, relazionale, sociale, culturale, di cura, di assistenza, di impegno sociale, di legame sociale… insomma lavori che vanno a inserirsi nelle attività delle imprese sociali-culturali, nel terzo settore, nelle cooperative, nelle associazioni. Il mondo lavoro dei giovani mi sembra si stia orientando sempre di più verso dimensioni sociali, relazionali, comunicative. Anche questo mi sembra in qualche modo un avvicinamento di una parte almeno dei giovani lavoratori all’esperienza delle donne. Questo, per me, richiama anche alcuni elementi sociali ed economici importanti. Proprio perché vedo nei giovani una sovraoccupazione e un basso riconoscimento economico, ho l’impressione che uno dei problemi sia il riconoscimento delle forme di lavoro che già ci sono, piuttosto che non quella dell’invenzione di nuovi posti lavoro. Secondo me questa difficoltà a riconoscere il lavoro che c’è deriva anche da una cultura, da un’organizzazione sociale e materiale che è orientata verso un’organizzazione del lavoro centrata sulla dimensione della produzione. C’è una minor attenzione verso le forme di lavoro che hanno un approccio più orientato alla riproduzione, alla conservazione delle condizioni di vivibilità, più legato alla cura delle dimensioni sociali e relazionali. Anche questo, secondo me, è un possibile punto di dialogo, di intreccio, di convergenza tra l’esperienza e la riflessione critica delle donne e la condizione attuale delle giovani generazioni.
Compenetrazione tra vita e lavoro: questo mi ricorda il ribaltamento che si è verificato a inizio secolo, quando si è separato il lavoro dalla famiglia. Sembra quasi che si stia tornando indietro su questa cosa. Come si può conciliare questo tornare alle origini del modo di lavorare: si deve ripensare anche al modello di famiglia, oppure bisogna semplicemente riconoscere la possibilità che si ritorni a fare famiglia in senso lavorativo.
Io vedo un rischio: un tempo questa indistinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro era un’indistinzione a vantaggio della società, nel senso che era il lavoro ad essere una dimensione delle forme sociali. Per dirla con Karl Polanyi l’economia era immersa, incorporata nelle dimensioni sociali più ampie e, quindi, in gran parte seguiva i limiti o le priorità che in qualche modo venivano dalla società. Oggi mi pare che la tendenza sia contraria, ovvero sono la società e le sue forme di organizzazione relazionali e di lavoro ad essere spinte a conformarsi alle necessità, agli imperativi, del mercato. Questa indistinzione sembra andare più a vantaggio delle logiche economiche che non a vantaggio delle logiche sociali. Siamo di fronte a un confine molto sottile e problematico: questa nuova trasformazione non è solo un tornare indietro, è un qualcosa di diverso, di inedito. Dal punto di vista politico, a mio parere, dobbiamo lavorare non per conservare o riaffermare una separazione netta tra vita e lavoro, che è una cosa che io personalmente non mi auguro affatto, ma si deve invece lavorare per una compenetrazione positiva, ricca in termini umani e sociali e non economici e utilitari. Si deve lavorare cioè alla creazione di immaginario sociale che ribadisca la priorità dei valori sociali-relazionali su quelli puramente economici della crescita, dello sviluppo della produzione. Su questi orizzonti mi sta bene anche re-intrecciare in maniera creativa questo incontro tra tempi e spazi di vita e tempi e spazi di lavoro.

 

Per quel che riguarda la dimensione dell’organizzazione personale, relazionale, familiare: che cosa cambia in termini di psicologia e di vissuto?
Ci sono alcuni elementi molto pratici. Il fatto che molte di queste forme di lavoro rendono più difficile qualsiasi forma di organizzazione, di progettazione di sé, delle proprie relazioni e di un’ipotesi di famiglia e, comunque, di investimento sociale-relazionale. Questo sia in termini materiali che psicologici, perché è più difficile fare mutui per qualsiasi cosa, è più difficile trovar casa, uscire dalla propria famiglia, è più difficile fare dei figli. Credo che questo abbia anche più complessivamente un riflesso sul grado di serenità o di disagio delle persone. La serenità o il disagio, nel momento in cui i giovani si confrontano con queste trasformazioni e queste sfide, dipendono anche dal fatto se i giovani si sentono riconosciuti o non riconosciuti dalla società in cui vivono. C’è una questione profonda che al di là dei problemi pratici riguarda il desiderio di riconoscimento. Per quanto riguarda gli uomini, in particolare, in passato, l’integrazione lavorativa, e quindi l’identità professionale, era uno dei pilastri delle forme di individuazione e d’integrazione sociale. Oggi questa cosa è meno chiara e definita, e questo si traduce in una maggiore insicurezza sia con se stessi, sia nelle nostre relazioni. Questo determina una maggior difficoltà sia a riconoscersi come integrati in un ambiente sociale, sia a costruire una propria forma di identità. In passato, con una professione si ereditava un’identità personale: si era insegnante, medico, avvocato… Oggi, in qualche modo, l’identità professionale è qualcosa che si costruisce negli anni attraverso una serie di esperienze e per sedimentazione, per intreccio, per connessione di più esperienze lavorative e sociali. Questo vuol dire che c’è un lavoro di ricostruzione della propria identità lavorativa più complesso, più faticoso. Non si riceve semplicemente in eredità: va costruita giorno per giorno. Per un verso, ovviamente, si apre una maggiore soggettività, una maggiore ricerca professionale ma compare anche un grosso ambito di frustrazioni, di impotenza, di paure di inadeguatezza, di paura di non farcela. Questo espone i giovani a forme di incertezza e di crisi personale più forti.

 

E rispetto alle aspirazioni e ai desideri… questo come si traduce?
Rispetto alle aspirazioni e ai desideri si apre un dibattito molto delicato… In termini generali in questo momento la discussione pubblica è molto legata a come proteggere e garantire le forme di lavoro o a che tipo di risposta offrire ai giovani. C’è un approccio che mira a salvaguardare le forme tradizionali di lavoro e quindi a difendere l’idea dell’impiego a tempo indeterminato e l’identità di una professione stabile che si costruisce in un vincolo reciproco per una parte significativa della vita. Poi c’è la posizione opposta che è quella di chi vuole seguire completamente le richieste del mercato del lavoro che spinge verso un lavoro più precario, più flessibile; il che significa diminuire i diritti, la protezione sociale, sganciare il lavoro dalle forme di riconoscimento sociale, dalla previdenza per ridurre il costo del lavoro e per aumentare i profitti. Tra questi due estremi io mi chiedo se non valga la pena indagare la possibilità di orizzonti diversi di significato, di desideri, di aspirazioni. Questo, secondo me, è possibile farlo solo se si approfondisce la dimensione esistenziale e narrativa del vissuto dei giovani lavoratori, cioè se ci si distacca almeno un poco dalle prospettive ideologiche, siano esse di stampo neo-liberista o lavorista, e si prova – almeno per un certo periodo – a mettersi in una prospettiva di narrazione e condivisione, di ascolto del vissuto, delle vicende e dei desideri dei giovani. Dal mio punto di vista, la cosa più importante da fare adesso è quella di creare spazi di condivisione delle proprie esperienze perché molte delle difficoltà, dei problemi, delle esperienze che i giovani attraversano oggi vengono vissute in maniera del tutto individuale, spesso con vergogna per le difficoltà che si incontrano nel sostentarsi economicamente, nel fare scelte personali, nelle difficoltà di uscire di casa e metter su famiglia, nell’aiuto che si richiede alle proprie famiglie d’origine. Molte volte c’è una resistenza da parte dei giovani nel condividere questo tipo di esperienze. Una resistenza, secondo me, legata al fatto che non si percepisce che le difficoltà soggettive sono il riflesso di una difficoltà generazionale, di contraddizioni sociali più generali, Ovvero si vive in termini di inadeguatezza personale quello che, invece, è problema politico, sociale, culturale che, in quanto tale, va condiviso, socializzato e affrontato assieme. L’opportunità che i giovani possono avere oggi è quella di raccontare le proprie esperienze personali e di farle diventare materie di cultura sociale e politica. Questo non significa mettere in mostra il proprio vissuto soggettivo per una questione di narcisismo ma, al contrario, tentare di tracciare dei ponti tra la propria esperienza soggettiva e l’esperienza e la rielaborazione sociale collettiva. Questo momento della narrazione, per me, ha già un valore politico perché serve a costruire dei linguaggi, delle parole, degli immaginari, a dar forma a desideri e aspirazioni, e questo può essere fatto solo all’interno di uno scambio sociale. Se non c’è questa attività temo che qualsiasi scelta politica, economica che si avanzi su questi temi non possa che costituire una forma di riduzionismo, di limitazione delle possibilità che si aprono in questo momento. Lo dico anche perché credo che una delle difficoltà che scontano i giovani di oggi è quella del legame tra la propria situazione soggettiva-generazionale e quella dell’impegno politico, dell’incisività politica. Veniamo da generazioni che hanno preso le distanze dalla politica ufficiale, dalla politica dei partiti, dalla politica istituzionale, non per un disinteresse complessivo – basta vedere contemporaneamente l’impegno sociale o nei movimenti – ma per una difficoltà di trovare forme di partecipazione politica che tengano insieme l’esperienza soggettiva con l’impegno pubblico per il cambiamento. Credo che dobbiamo trovare un percorso di uscita da questo disagio verso la politica che corrisponda anche al racconto della nostra esperienza. Ho molti dubbi che questo tipo di problematiche possa essere risolto dall’attuale classe politica, ovvero da una generazione di uomini, che non ha sperimentato questo tipo di condizioni, che proviene da tutt’altra esperienza umana e materiale. Non hanno vissuto e quindi non hanno conosciuto questa condizione di incertezza radicale, non ne hanno attraversato le contraddizioni, le difficoltà, e quindi non possono comprendere veramente i desideri e le aspirazioni che nascono e si riproducono in questo tipo di esperienze. Non possiamo affidarci, delegare il nostro futuro e le nostre aspirazioni a una classe politica, o a soggetti politici che non hanno vissuto la nostra esperienza. Dobbiamo imparare a nominare e dar forma da noi stessi alle nostre aspirazioni più profonde. Da questo punto di vista si tratta anche di riflettere sul rapporto tra esperienza lavorativa e forme di integrazione sociale e politica. Stiamo attraversando una fase di transizione e credo che le nuove generazioni stiano tentando anche se confusamente di reinventare forme di impegno civile e politico diverse da quella tradizionali o istituzionali. Forme che permettano di offrire al proprio percorso personale e, più in generale, generazionale, una ricaduta politica, un’incisività politica. A partire dalla mia esperienza mi interessa riflettere sul rapporto tra trasformazioni del lavoro e trasformazioni delle forme di partecipazione politica. I mutamenti nell’esperienza lavorativa non sono effimeri o superficiali stanno accompagnandosi a trasformazioni antropologiche e psicologiche importanti. Tra coloro che vivono queste nuove forme di lavoro atipico, precario, plurale, molti le subiscono, alcuni li scelgono, ma per quasi tutti questo ha significato anche una trasformazione di valori, di forme di identificazione, di priorità. Credo che oggi ci sia una difficoltà generale dei giovani a riconoscersi nel modello lavorativo tradizionale di tipo fordista, sia nel senso di identificarsi in un lavoro che accompagna professionalmente per tutta la vita, sia nel senso di una forma di rapporto di lavoro che è quella del lavoro dipendente tradizionale salariato. Più in generale non credo che ci sia più una filosofia e una centralità del lavoro come per le generazioni precedenti, Tra i propri valori ed aspirazioni, le giovani generazioni non mettono più così al centro il lavoro. Esso non è più così centrale. Il suo significato si compone attraverso diversi frammenti con altre dimensioni – relazionali, espressive, sociali, affettive -e questa complessità, secondo me, va salvaguardata. In più nel vissuto lavorativo dei giovani ci sono nuove esperienze nel rapporto con lo spazio, con il tempo, nel rapporto con le relazioni uomo-donna che sono andate modificandosi in questi anni e che difficilmente potranno essere irrigimentate di nuovo nelle forme di lavoro tradizionale. Dal mio punto di vista, quindi, questa dimensione di narrazione e di maturazione é necessaria per esplorare e sperimentare forme di riconoscimento del lavoro, dei diritti del lavoro che raccontino gli elementi negativi e in qualche modo anche servili di questa forma di lavoro ma che raccontino anche gli elementi di esperienza umana, relazionale e sociale che queste forme di lavoro hanno portato con sé. Questa permetterebbe di puntare a modelli sociali che offrano garanzie rispetto al lavoro sia in termini temporali, sia in termini di diritti e di forme di riconoscimento, all’interno di uno spettro di possibilità e di forme di organizzazione del lavoro più complesse, più diversificate. In questo, credo, sarebbe molto interessante apprendere dall’esperienza delle donne e anche dal racconto che hanno fatto in questi anni sulla propria soggettività, sulle proprie esperienze lavorative, cercando di intrecciare quest’eredità con le esperienza delle giovani generazioni. Questo sarebbe, secondo me, un arricchimento molto importante per tutti e forse permetterebbe di individuare delle proposte politiche veramente nuove ed originali.
Marco Deriu é un sociologo che vive a Parma e si autodefinisce “un classico lavoratore atipico”. Ha partita IVA e svolge tutta una serie lavori a progetto. E’ consulente culturale di amministrazioni pubbliche e di enti privati a Parma, gestisce una collana editoriale per una casa editrice di Bologna, segue alcune classi di un’Università on-line per stranieri che studiano in italiano all’estero e infine ha qualche incarico di insegnamento in Istituti e Università italiane. Oltre a questo studia e scrive di questioni internazionali – conflitti e forme di solidarietà – di antiutilitarismo e decrescita e di differenza sessuale approfondendo in particolare le tematiche legate alla trasformazione del maschile e alle relazioni tra uomini-donne. Le sue pubblicazioni più recenti sono “La fragilità dei padri. Il disordine simbolico paterno e il rapporto con i figli adolescenti” (Unicopli, 2004) e “Dizionario critico delle nuove guerre” (Emi, 2005).

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