7 Luglio 2007
IO DONNA

Intervista a Marina Piazza

Marina Terragni

E’ stata una donna, il ministro per il Commercio estero Emma Bonino, a lanciare il sasso: anche le donne in pensione a 65 anni. Basta con quel “bonus” di cinque anni -unico privilegio femminile in un mondo del lavoro caparbiamente maschile- che nel resto d’Europa non esiste.
Come la prenderebbero le lavoratrici? E’ la prima cosa che ci chiediamo con Marina Piazza, sociologa di Gender, società di consulenza, formazione e ricerca ed ex presidente della Commissione per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio.

 

“Mi pare esemplare la lettera che ho visto su un quotidiano” dice Piazza. “Una che diceva: ho 60 anni, ho sempre lavorato, ho tirato su tre figli. In pensione riesco a godermi i nipoti, a leggermi un libro… Se dovete fare questa riforma, fatela. Ma non venite a dirmi che è per il bene delle donne”.

M.T. Di sicuro è per il bene del sistema pensionistico.

 

M.P. Il problema c’è, le cose sono cambiate, si comincia a lavorare a trent’anni, si vive di più. Il tema del lavoro va ripensato. Ma perché si comincia dalla fine, e togliendo alle donne?

M.T. Per le donne lavorare è molto più faticoso, più usurante. E non solo per il doppio ruolo, cioè per il fatto che per tutta la vita fai anche un altro lavoro. La questione è che i modi e i tempi del lavoro restano fortemente maschili. E poi c’è il gender pay gap, il fatto che guadagni il 20-30 per cento meno degli uomini. E quindi prendi anche pensioni più basse: oggi l’importo medio per una donna è quasi la metà di quello di un uomo. Che si metta mano a queste cose cominciando dall’età pensionabile è un po’ sospetto.

 

M.P. E’ legittimo pensare a una parità nell’uscita. Ma si dovrebbe ripensare tutto fin dall’entrata: più servizi e orari flessibili, in modo che le donne siano meno sopraffatte. Gli ultimi dati dell’Unione europea dicono che una donna part time lavora più di un uomo full time. Le donne tengono in piedi il welfare

 

M.T. E comunque non ci sono servizi che tengano: il lavoro di cura ti tocca sempre, non si può certo pensare di scrollarselo definitivamente di dosso. Si tratta semmai si riconoscerlo nella sua centralità.

 

M.P. Credo che si debba agire su tre livelli. Primo: più servizi. Secondo: l’organizzazione del lavoro, che da noi resta rigidissima. In questi giorni in provincia di Milano 1700 donne si sono dimesse dopo il primo anno di vita del bambino perché non hanno nidi, i nonni stanno lontano, le aziende non concedono part time. Terzo livello: la condivisione del lavoro di cura nella coppia. In tutti i paesi d’Europa si fanno campagne di sensibilizzazione. In Olanda hanno martellato per un anno, e qualche cambiamento si è visto.

 

M.T. A questo credo meno. Mi sembra altro tempo perso. Quanto al part time, invece: come mai in Italia non decolla?

 

M.P. Non è mai piaciuto né al movimento delle donne né al sindacato perché faceva pensare alla marginalità e al lavoro nero. E invece sarebbe una buona soluzione per tanti. Non solo per le donne, ma anche per quegli uomini che desiderano organizzarsi la vita in modo diverso.

M.T. Perché poi qui si parla ancora di entrata e di uscita dal lavoro come se il posto fisso non fosse in via di estinzione.

 

M.P. Servirebbe una riflessione seria, soprattutto da parte del sindacato…

 

M.T. Non per dare ragione a Montezemolo: ma il sindacato è fermo conservativamente all’operaio-massa e al cartellino…

 

M.P. Le donne del sindacato il problema se lo pongono. Ma poi nelle delegazioni che trattano ci vanno solo uomini, i quali di complessità delle vite, di personalizzazione del lavoro, di flessibilità sembrano non capire nulla. E’ come se al sindacato, alla politica e alle aziende sfuggisse la portata della trasformazione delle nostre vite. E non solo la vita delle donne, ma anche quella dei giovani uomini, che non hanno più la certezza granitica del posto fisso.

 

M.T. …e forse nemmeno la voglia.

 

M.P. Tutto viene basato sull’unità “uomo”, rigida e immutabile. Ma anche il singolo lavoratore non è lo stesso a trent’anni, a quaranta e a cinquanta. Si deve tenere conto di come cambia il ruolo del lavoro nell’arco della vita, invece di riferirci sempre a un unico modello in cui siamo costretti a infilarci, come in un vestito stretto.

 

M.T. Oltre che a un lavoro flessibile si potrebbe quindi pensare anche a un pensionamento flessibile.

 

M.P. In Germania negli ultimi cinque anni si può fare part time, senza grandi penalizzazioni sulla pensione.

 

M.T. Tornando all’idea di Bonino: questa differenza nell’età pensionabile è forse una cosa imbarazzante, ma parla della differenza reale tra le esistenze femminili e quelle maschili. Parificare non occulterebbe questa differenza, lasciando comunque alle donne la doppia fatica?

 

M.P. Bonino dice però che se una donna esce a 60 anni, si dà per scontato che sia lei a pensare ai nipoti o alla vecchia madre, quando invece magari le piacerebbe vivere un po’. Se non lavori sei soggetta all’obbligo di curare, perché siamo in un paese familistico, che non ha mai avuto politiche sociali e familiari. E curare da sola una madre inferma non è meglio che lavorare.

 

M.T. Anche se non mi piace che il lavoro di cura, che è preziosissimo, continuiamo a pensarlo come una cosa scadente, da cui si deve scappare. Mentre quello in un’azienda, dove spesso perdi il tuo tempo, è un lavoro che vale perché è monetizzato.

 

M.P. La cura è il cuore pulsante. Se le donne smettessero di prestarla cadrebbe qualunque società. Ma resto convinta che per una donna è meglio avere più teatri di azione, il lavoro in casa e quello fuori casa…

 

M.T. Oggi almeno è così.

 

M.P. Ci dovrebbe essere una flessibilità di vita per cui il lavoro può essere importantissimo in certe fasi e meno in altre. E senza penalizzazioni.

 

M.T. Se si ripensa a queste cose bisogna avere il coraggio di porsi le questioni fino in fondo. Per esempio: il progresso sembrava poter lavorare di meno. Qui invece si propone di lavorare di più.

 

M.P. Io parlerei di lavorare meglio. Verso la fine della vita lavorativa potrebbe essere interessante provare a fare qualcos’altro, magari part time. Sarebbe una possibilità di libertà.

 

M.T. L’altra questione è che restando di più al lavoro, il tempo di vita soggetto a logiche di profitto aumenterebbe, a scapito di un tempo extramercantile in cui si svolgono attività sottratte a queste logiche. A volte perfino gratuite, ma molto arricchenti. Il che costituirebbe un impoverimento per la società.

 

M.P. Su questi temi serve senz’altro una riflessione ampia e complessa, mentre la politica si comporta in modo miope ed emergenziale. Non c’è pensiero. Si mira al risparmio qui e ora.

 

M.T. Un risparmio che poi, se si volesse farlo fruttare, dovrebbe essere reinvestito in servizi e welfare. Bisognerebbe poter dire: bene, fateci vedere i conti, vediamo come spenderli, questi soldi che risparmiamo. Ma le donne non vengono sentite mai, anche se di queste faccende parlano tutti i giorni. Non si tiene in alcun conto del loro sapere e dell’esperienza che hanno accumulato in decenni di doppio ruolo.

 

M.P. Doppio ruolo che poi non è solo fatica. Questa capacità femminile di muoversi su tanti piani è un valore per tutti, contro l’omologazione e la reductio ad unum.

 

M.T. In definitiva: pensione a 65 anni, sì o no?

 

M.P. Lo vedrei come un diritto, non come un obbligo. Ma come abbiamo detto, conta anche quello che viene prima.

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