28 Ottobre 1998
il manifesto

La leva del desiderio

Iaia Vantaggiato

Cosa accade quando l’esortazione a Non credere di avere dei diritti si specifica nell’invito più puntuale a non credere di avere dei diritti del lavoro? Ovvero, cosa accade quando il rifiuto del miserabilismo femminile – e, con esso, delle norme di tutela considerate necessarie al suo superamento – si estende all’ambito del mercato del lavoro e lì si trasforma in liquidazione di qualsivoglia miserabilismo, essendo diventato il devenir femme da travail un movimento cui partecipano, in egual misura, uomini e donne?
Si può essere o meno d’accordo con le tesi espresse dal gruppo milanese di riflessione sul lavoro che fa capo alla rivista Via Dogana ma non si può, di quelle tesi, denunciare l’assenza di radicalità. Soprattutto quando per pensiero radicale s’intenda un’interrogazione della realtà tesa a capovolgerne il senso dato e a svelarne gli aspetti nascosti: potenziali grimaldelli teorici per comprendere ciò che invece, pur essendo alla luce, chiaro non è.
Nella fattispecie: non c’è chi non veda le trasformazioni subite dal lavoro, dalla flessibilizzazione della manodopera al tramonto delle manifatture tradizionali. Sono prodotti, tali mutamenti, dalle sole astuzie del capitale o dietro di essi è possibile scorgere il riverbero di una qualche libera scelta? Alla flessibilità siamo semplicemente costretti – pena l’esclusione dal mercato del lavoro – o ad essa ci capita, talvolta, di aderire per desiderio autonomo? La fine della “grande fabbrica” reca con sé soltanto lutti – diritti e garanzie di welfare in congedo – o apre alla possibilità di nuove forme di valorizzazione del lavoro?
Si tratta di mutamenti complessi e dolorosi che non ammettono semplificazioni teoriche: limitarsi a definirli positivi o negativi non ne facilita la comprensione. E si tratta, altresì, di domande alle quali non è possibile rispondere se non partendo da quella “soggettività messa al lavoro” nella quale sembra risolversi, oggi, l’erogazione stessa della forza-lavoro. Ciò che s’impone è nient’altro che un’interrogazione di senso: lo stesso che uomini e donne cercano nel lavoro, quello che Via Doguna individua nella libertà.
Quanto è, in contrasto, quest’ultima, con il sistema dei diritti? Si pone veramente, la questione, nei termini di un aut-aut? Può il diritto inibire, la libertà individuale?
Sì, quando rifiuta di prendere atto delle trasformazioni e dei nuovi rapporti di forza (oggi, è vero, pericolosamente sbilanciati a favore del capitale). E’ sulla base di questa considerazione – e di fronte all’attuale frammentarsi del soggetto lavorativo – che lo stesso Statuto dei lavoratori pensato sul modello del lavoratore subordinato, a tempo indeterminato e full-time, viene oggi messo in discussione da giuslavoristi (maschi). E’ il medesimo meccanismo, in fondo, che spiega la crisi del sistema di welfare, un sistema fatto a immagine e somiglianza dell’uomo ma realizzato grazie al lavoro delle donne (e la denuncia delle ambiguità insite nel welfare è, – grazie, tra gli altri, agli studi di Antonella Picchio, Adele Pesce, Grazia Saraceno, Laura Balbo, nomi non in odor di differenza – patrimonio comune del pensiero delle donne. O lo era?).
Non sono solo le donne, a quanto pare, a desiderare lo scioglimento delle catene giuridiche: la critica ad una politica (e ad un diritto del lavoro) che ha come oggetto il solo lavoro subordinato – e, a cui Via Dogana la esplicito riferimento – è, ormai ampiamente condivisa. La stessa crisi della rappresentanza sindacale non può essere addebitata al venir meno della conflittualità femminile nei luoghi di lavoro, alla passiva cedevolezza nei confronti delle richieste del capitale di cui le donne sarebbero colpevoli. Affonda le sue radici, quella crisi, proprio nella frammentazione e moltiplicazione dei soggetti del lavoro e nell’emergere di un ventaglio di nuove figure la cui aggregazione appare problematica.
Un garantismo uguale per tutti e tutelato dalle grandi confederazioni non è più praticabile per nessuno (al pluralismo delle forme lavorative dovrebbe corrispondere, piuttosto, un pluralismo decisionale, una cornice istituzionale in grado di favorire l’autodeterminazione individuale altrimenti impensabile). In tal senso le donne, congedando non solo come insensate ma soprattutto come inefficaci le forme di lotta tradizionali (che, pensate da e per gli uomini nemmeno più agli uomini paiono adeguate), si fanno interpreti di nuove forme di conflittualità.
Che passano attraverso il rilancio di una dimensione non astratta né solo quantitativamente misurabile del lavoro stesso. Detto altrimenti: la potenza espressa da desideri, pulsioni, affetti e relazioni messe al lavoro è sempre eccedente, rispetto all’ordine capitalistico ed è, pertanto, immediatamente produttrice di conflitto e di trasformazioni.
Certo, l’esito di nessuna lotta appare oggi scontato tanto più che mai il bene del mercato può coincidere con il bene dei soggetti che lavorano. Il punto è che per farsi gioco delle leggi del mercato è d’obbligo scartarle. E spostarsi dal piano della necessità – cui il mercato appartiene – a quello della libertà.

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