31 Gennaio 2005
CORRIERE DELLA SERA

Le notti bianche di Mariam

Quando l’inefficienza burocratica si trasforma in sadismo verso i più deboli
Pietro Ichino

Mariam ora è indignata con l’Italia. Lo dice pacatamente, ma è una sentenza durissima: “È una vergogna”. Eppure in Italia è sempre stata bene ed è grata al nostro Paese. Ci è arrivata dalle Fi-lippine nel 1988, diciassettenne, ha ottenuto il permesso di soggiorno come colf e da allora ha sgob-bato pulendo case, assistendo vecchi, malati e bambini, dichiarando ogni anno i suoi redditi; ma ha anche trovato tante porte aperte; e oggi sono in molti a contendersi i suoi servizi precisi e discreti. I guai sono incominciati quando ha avuto la cattiva idea di sposarsi a Manila con il suo connazionale Warren G., assumendone il cognome secondo la legge filippina. La sua ambasciata in Italia le ha ri-lasciato in mezz’ora un certificato da cui risulta che Mariam P. e Mariam G. sono la stessa persona; il grave problema è che ora occorre modificare l’intestazione del suo permesso di lavoro italiano e ottenere il permesso per il ricongiungimento in Italia con il marito.
La prima pratica, come le altre relative ai permessi di lavoro, per l’intera città di Milano e la provincia è affidata al solo commissariato di via Cagni. Per accedere allo sportello competente oc-corre un numero di prenotazione; e se si vuole essere tra i fortunati che lo ottengono, occorre met-tersi in coda fin dal giorno prima e per tutta la notte. È una specie di crudele gara di resistenza fisi-ca: vince chi, arrivando prima, è disposto a stare più a lungo fuori del commissariato all’addiaccio.
Al termine di una giornata di lavoro, dunque, Mariam chiede quattro ore di ferie per la mat-tina seguente e va al commissariato portandosi il necessario per passarvi la notte. Trova già un bel gruppo di aspiranti in attesa e si mette pazientemente in coda. In piedi per la strada, per ore; chi si allontana anche solo per dieci minuti rischia il “posto”. La notte passa penosamente, anche perché non c’è gran solidarietà tra gli stranieri in attesa: parlano lingue diverse, si guardano con diffidenza, ogni tanto scoppia una rissa perché qualcuno cerca di guadagnare qualche posizione a spese di altri. Poi spunta l’alba, finalmente il cancello si apre. Nella corsa per raggiungere lo sportello Mariam, che era già indietro nella coda, perde qualche altra posizione. Uno per uno i postulanti ricevono il numero di prenotazione; ma quando sta per arrivarci anche lei la distribuzione finisce: per questa mattina lo sportello non potrà ricevere altre persone. Chi è rimasto fuori ritorni un altro giorno.
La seconda volta Mariam prende due mezze giornate di ferie e si presenta al commissariato nel primo pomeriggio, conquistando così uno dei primissimi posti; questa volta si fa sostituire da un’amica filippina dalle sei a mezzanotte (a buon rendere). Così la mattina dopo riesce ad avere il numero di prenotazione e poi a presentare finalmente la sua domanda; le dicono di tornare fra quat-tro mesi. Anche per ritirare il documento richiesto occorre – non è chiaro perché – la stessa penosa gara notturna per la prenotazione e per ottenere il numero. Questa volta, arrivata allo sportello, Ma-riam si sente dire che la sua pratica non ha potuto essere evasa e che deve tornare fra altri quattro mesi. Protesta che nel frattempo il suo permesso di lavoro scadrà; le rispondono che non sanno che cosa farci (provvedere nello stesso tempo alla modifica del nome sul permesso e al suo rinnovo su-pera le capacità della nostra amministrazione pubblica). Chiede di poter telefonare prima di tornare, per accertarsi che il documento sia pronto prima di rifare la notte all’addiaccio; ma le rispondono che non si danno informazioni per telefono (anzi, per la verità al telefono non si risponde neppure: quando la linea non è occupata, non risponde mai nessuno: è o non è un ufficio pubblico?).
Stesso discorso identico per la pratica di ricongiungimento con il marito, che è di competen-za del commissariato di viale Certosa; con una sola differenza: qui avvertono fin dall’inizio che la pratica richiederà sette mesi. Anche qui, comunque, “non si danno informazioni per telefono”.
A conti fatti, per essersi sposata, Mariam ha perso in un anno sei giornate di lavoro e altret-tante notti davanti ai commissariati; e ora rischia anche di restare senza permesso di lavoro. Per questo è indignata. Lei lavora qui da anni e paga le tasse: ha diritto di essere trattata dall’amministrazione in modo civile. Se uno sportello non basta a smaltire quotidianamente le prati-che necessarie, che cosa si aspetta a raddoppiarlo, come si farebbe per qualsiasi servizio ammini-strativo indispensabile ai cittadini italiani, o se necessario a quadruplicarlo, magari adibendovi qual-cuno dei suoi stessi utenti asiatici e africani? E come può la capitale morale ed economica del Paese non vergognarsi di quelle file di lavoratori stranieri condannati da una burocrazia sadica e razzista a passare le notti all’addiaccio davanti ai commissariati per poter rispettare le nostre leggi?

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