6 Giugno 2006

Oltre la conciliazione

Esther Batalla Edo

(Traduzione di Clara Jourdan)

Ho letto sul n. 29/2005 di Duoda, Rivista di Studi Femministi del Centro de Ricerca di Donne dell’Università di Barcellona che porta il medesimo nome (Duoda), un articolo di Marina Terragni intitolato Asistenta y señora de la casa: ahí hay mucha política, che è la traduzione di María-Milagros Rivera Garretas di Colf e padrona di casa. Lì c’è molta politica, pubblicato su “Via Dogana. Rivista di pratica politica” n. 70 (settembre 2004).
L’articolo offre un punto di vista critico, partendo dal criterio sostenuto da Barbara Ehrenreich, criterio che si riassume nell’idea che le donne occidentali si emancipano grazie alle straniere che vengono qui a farsi carico della nostra quota di lavoro di cura. L’autrice segnala che l’argomento di Ehrenreich non è nuovo, e lo circoscrive al sensazionalismo sociologico-giornalistico che ha fatto il successo del suo libro Global woman: mannies, madis and sex workers in the new economy (Donne globali. Tate, colf e badanti, Feltrinelli, 2004).
Partendo dal criterio di Ehrenreich, dunque, Terragni ci offre la sua opinione al riguardo, una opinione che, a quanto riferisce l’articolo, fu presentata anche in un programma televisivo italiano, L’infedele, e fu poi oggetto di discussione alla Libreria delle donne di Milano, dove venne messa in risalto principalmente la singolarità del rapporto tra la datrice di lavoro domestico e la colf o curatrice del focolare e dei suoi membri, una relazione professionale che sfugge al classico circolo dello scambio monetario, soldi in cambio di lavoro. E venne messa in risalto anche la qualità politica di tale relazione.
Terragni afferma che nella relazione tra colf e datrice di lavoro non vale il distinguo tra l’incombenza propria di un lavoro qualsiasi, cioè quello che si definisce e realizza “per conto d’altri e nell’ambito organizzativo e di direzione di un’altra persona”, e il contenuto del lavoro in sé, impregnato in questo caso di un rapporto di legame, di cura e di amore, che di fatto fa parte dell’oggetto di scambio. E fa notare inoltre quanto sia interessante e paradigmatico questo rapporto di lavoro, perché mette l’accento su un argomento decisivo della politica delle donne: la centralità della relazione nel lavoro, che l’autrice estende a ogni tipo di lavoro in cui sia arrivata tale politica.
Condivido questa impostazione, e anche come tratta l’argomento di Ehrenreich, mettendolo in discussione, nel senso che non c’è contrapposizione assoluta tra la “emancipata pura” – la datrice di lavoro – e la “oppressa pura” – la straniera – che resta alla cura della casa e dei suoi membri, ma che piuttosto ci sono diversi gradi di coinvolgimento tra loro, e che nessuna delle due può liberarsi del tutto della propria quota di lavoro di cura. Ma non sono d’accordo con una delle opinioni suscitate dal tema, come riferisce l’articolo: che sia la miseria sia la ricchezza siano presenti in noi – occidentali – come in loro; “loro, che sono povere e anche ricche del denaro che noi gli diamo e dell’occasione di emancipazione che noi rappresentiamo, offrendo loro i nostri modelli di libertà spesso in cambio dei loro, che pure esistono”.
Chiarisco il mio dissenso. Personalmente ho difficoltà a capire che le donne straniere guadagnino libertà, amando se stesse, quando lasciano le loro case per venire da sole nei nostri paesi occidentali, tuttavia potrei integrare l’idea nel mio ragionamento e fino a un certo punto anche condividerla. Ma non la condivido più quando Terragni considera che questo guadagno di libertà può essere più grande del dolore della separazione.
Si tratta naturalmente di un rapporto di lavoro molto speciale, dove – con parole dell’autrice – “emancipazione e pratica della cura si intrecciano strettamente”. Ma penso che occorra molta prudenza quando si tratta di generalizzare il beneficio che comporta il guadagno di libertà di queste donne immigrate di cui parla Terragni.
L’articolo mi ha fatto venire in mente lo schema di funzionamento di tale emancipazione/lavoro di cura da parte delle donne occidentali e straniere. La falsariga del comportamento delle une e delle altre potrebbe benissimo avvicinarsi a questo circuito: la figlia maggiore di una famiglia povera, generalmente numerosa, si occupa della cura dei suoi fratelli, mentre la madre lavora come colf di un’altra donna che, a sua volta, è emigrata in un paese ricco (1), permettendo così a quest’ultima di “conciliare” diversi usi o spazi del suo tempo.
Le donne con maggior potere d’acquisto sono, certamente, più facilitate – in linea di principio – nell’ottenere l’emancipazione materiale necessaria alla realizzazione del proprio desiderio in scenari molteplici, molti dei quali disegnati ancora in modo patriarcale; e possono così continuare con il modello della “doppia presenza” a delegare a queste donne immigrate parte dell’impegno domestico; un modello che tuttavia è in corso di superamento. Però, che cosa c’è dietro a questo andare e venire di donne straniere? Il contenuto dell’articolo della Terragni, a mio modo di vedere, non può essere considerato isolandolo dal contesto, deve essere considerato nella sua globalità.
Nel contesto, dunque, c’è un grave problema di convivenza, con il nostro di sé e con l’altro da sé, un vero problema di organizzazione degli usi del nostro tempo; generalmente chiamato problema di “conciliazione della vita familiare, lavorativa e personale”. E il fatto di ricorrere a una o un colf non cessa di essere una pseudosoluzione che, inoltre, non è possibile per la donna senza risorse economiche – come le stesse immigrate – e che si sta consolidando a prezzo della destrutturazione di altre famiglie. Dubito molto, allora, che il guadagno di libertà della donna immigrata possa compensare lo sradicamento familiare e personale di queste donne (per lo meno in modo generalizzato e finché non siano portati a termine i processi di ricongiungimento familiare, che possono durare anni), né credo che contribuisca al cambiamento di simbolico del nostro sistema economico, che è il cambiamento di cui abbiamo davvero bisogno.
Questo cambiamento non è di ostacolo al riconoscere allo stesso tempo la singolarità della relazione professionale tra la colf e la datrice di lavoro domestico, a causa della grande dose di relazione femminile, generatrice di politica, che media tale scambio, oltre al denaro. Ma insisto anche nell’idea che mantenere il circuito in questo tipo di relazioni non ci porta alla soluzione dei nostri problemi quotidiani di conciliazione, perché in molti casi non rende possibile la realizzazione del proprio desiderio, né quello delle occidentali né quello delle straniere.
Pertanto, e benché io condivida completamente con l’autrice la singolarità di quella relazione, non mi dimentico che ci troviamo, in fin dei conti, di fronte a un rapporto di lavoro; inserito in un quadro economico che, per quanto ci piaccia dimenticarlo e, di fatto, lo facciamo, penso che neanche possiamo ignorare. In quei termini, dunque, che non ci piace udire ma a cui alludo e con disagio, bisogna dire che quando la “produzione di beni e servizi” ha luogo dentro i confini della casa, e proprio perché è molto difficile separare l’elemento relazionale dall’attività materiale considerata di per se sola, la colf non può sostituirci in quegli aspetti puntuali e selettivi che noi abbiamo scelto come intrasferibili, perché risalgono all’origine del nostro partire da sé, alla fonte dell’amore più intimo di nostra madre.
Non metto in dubbio che la colf sia pienamente consapevole del compito che comporta l’affidarle la cura dei nostri cari, rendendola partecipe della nostra intimità; possiamo affidare a lei persino noi stesse e noi stessi, ma nel suo “fare” lei si vedrà limitata a badare a questi aspetti molto concreti – non altri, aspetti che abbiamo deciso di delegarle per fiducia, naturalmente – e non per mancanza di abilità o volontà da parte di questa professionista, amica o collaboratrice, ma perché i nostri cari desiderano – e anche noi – che siano soddisfatti unicamente da parte nostra.
Una madre o un padre cercherà di praticare il rapporto con suo figlio o sua figlia nello spazio di tempo che considera più adeguato, in funzione delle sue capacità, preferenze o circostanze. Questo spazio di tempo, insostituibile, per alcuni e alcune sarà, forse, portare i figli a scuola, o andare con loro al parco, o dargli la cena. Sono aspetti che “loro” sanno, di cui hanno bisogno o che non desiderano sostituire, e che “alcune di loro” – si tratta, molte volte, di cure alle nostre stesse madri biologiche – ci hanno lasciato in eredità, per di più, come riferimento simbolico, poiché siamo noi che adesso desideriamo rendere loro la nostra più intima gratitudine senza delegarla a nessuno. Anche questo fa parte della nostra libertà, e del nostro bisogno di proteggerla di fronte al peso della legge che obbliga a permanenze lavorative inflessibili, o ben poco flessibili.
Cioè, l’attività che ogni membro della famiglia ha scelto per intervenire in una relazione personale e affettiva è “quello” che non ha un sostituto nella colf, né nel mercato. E questo desiderio che abbiamo, uomini e donne, madri e padri, e figli e figlie, deve avere la possibilità di esprimersi ugualmente in libertà, senza nessun tipo di costo aggiuntivo: di spreco energetico, economico, personale o derivato dalla legge.
Non molti giorni fa, mi raccontavano che in un consiglio scolastico di madri e padri dove si discuteva proprio del tempo o, meglio, della mancanza di tempo per stare con i figli e le figlie, un padre spiegò che lui non poteva vedere suo figlio durante la settimana, dato che quando andava al lavoro il bambino dormiva e al suo ritorno pure. Questa situazione non gli andava e gli è venuta questa idea: quando arrivava a casa, la prima cosa che faceva era andare nella stanza del figlio, e affinché il figlio sapesse che lui era stato lì, faceva un nodo nel lenzuolo. Quando il bambino si svegliava cercava il nodo, e attraverso il nodo sapeva che il suo papà gli aveva dato un bacio.
Nella storia raccontata, di nuovo l’amore burla il potere a cui il padre si vede sottomesso. Ma… a prezzo di quanta sofferenza? Questo padre (o madre) molto probabilmente aveva una colf e tuttavia la colf non era la soluzione al suo desiderio. Guadagnare emancipazione a prezzo di sradicamento e destrutturazione della propria e delle altrui famiglie non è, penso io, la soluzione di cui abbiamo bisogno per i nostri problemi di coordinamento dei diversi usi del tempo, che si riducono, in definitiva, a un unico problema di relazione, di “vivere con”. Sostenere o incoraggiare questo tipo di rapporti di lavoro, con tutta la loro qualità politica indiscutibile, ma isolati dal panorama più ampio che comporta la necessità di una nuova organizzazione del nostro tempo, a mio avviso contribuisce a consolidare un nuovo modello di relazioni umane, che sono ancora conseguenza del sistema capitalista di mercato, più che della nostra genuina libertà.
Praticarle, sì, inevitabilmente; ma all’interno della politica femminile che cambi il contesto.
Che fare, allora? Educare, educare e educare nella differenza sessuale e nella capacità di critica e di giudizio: uomini e donne, bambine e bambini, e la pratica politica verrà data, e con essa il cambiamento di simbolico (2) che è già iniziato nelle nostre relazioni quotidiane in negozio, in ufficio, in palestra, nel supermercato…, portando l’amore della politica delle donne alla politica dei partiti in modo che anche il diritto cambi il proprio simbolico (3), e smetta di voler significare tutto con il suo maschile universale, senza timore di rappresaglie e sanzioni.

(1) Amoroso, M.; Bosch, A.; Carrasco, C.; Fernández, H.; Moreno, N.: Malabaristas de la vida. Mujeres, tiempos y trabajos. Icaria, Barcelona 2003.
(2) Chiara Zamboni si riferisce ad esso con l’espressione “rivoluzione simbolica” (La universidad pública y el materialismo del alma), “DUODA Revista d’Estudis Feministes”, núm. 9-1995.
(3) Maria Milagros Rivera Garretas, La diferencia sexual en la historia, Publicacions de la Universitat de València, 2005.

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