30 Aprile 2014

Sandra Becattini: intervento al congresso FISAC Provinciale e CGIL Regionale (Marzo 2014)


Un aspetto che nel nostro dibattito congressuale mi colpisce, purtroppo non positivamente, è che parliamo molto di giovani, ma lo facciamo evidenziando sempre la loro condizione di vittime: giovani come vittime della precarietà, della disoccupazione o peggio dell’inoccupazione, giovani senza un futuro.

La crisi è innegabile, i danni della precarietà selvaggia anche, ma il modo nel quale rappresentiamo i giovani non rende loro un buon servizio. I giovani e le giovani di questo Paese sono persone in carne e ossa e sono e restano il futuro, a prescindere da quanto possa essere critica la loro condizione. Le nostre parole pesano, stigmatizzano, ingabbiano.

Oltretutto noi questi giovani ce li rappresentiamo, ma non li ascoltiamo. Se li ascoltassimo forse avremmo delle sorprese; per esempio scopriremmo che molti giovani, seppur scontenti di una precarietà che non consente loro una reale progettualità, non aspirano affatto al posto di lavoro a tempo indeterminato, orario di lavoro 9-18, magari sempre nella stessa azienda fino alla pensione. Sono, cioè, ben lontani dall’ aspirare a quel modello di lavoro che noi abbiamo in mente e a cui noi vorremmo ricondurli.

Compagne e compagni, parliamone: possiamo lavorare, come già stiamo facendo, per re-includere una parte della platea dei lavoratori atipici nel lavoro a tempo indeterminato, ma non credo che riusciremo a invertire completamente la tendenza, ne’ ad arginare un cambiamento culturale che è già in atto da molti anni. Allora io credo che dobbiamo essere pragmatici: è davvero pensabile l’estensione della contrattazione a tutti coloro che nei contratti non sono inclusi? Quanto sarà inclusiva la completa, e auspicabile, ricomposizione della filiera produttiva? E non sarebbe più sensato appoggiare anche chi chiede una legge che stabilisca un salario minimo per i lavoratori che non appartengono ad alcuna categoria contrattuale e tariffe minime per i lavori a progetto che non fanno riferimento ad albi professionali? O il problema è che abbiamo paura del dumping salariale per i nostri CCNL?. Questi sono i provvedimenti che spesso vengono richiesti da chi questi lavori li fa (Articolo 36, Acta). Nonostante gli indubbi e talvolta egregi sforzi del NIDIL, noi ci siamo poco. Inevitabile? Non so, certamente difficile. Ma il tema di rappresentare tutti dovrebbe interessarci molto, ancora più dell’accordo sulla rappresentanza che tanto ci fa discutere in questi giorni, se non vogliamo diventare residuali.

E’ per questo che sul lavoro, quel “lavoro che decide il futuro”, come titola il nostro documento congressuale, io sento il bisogno di un passaggio lessicale e filosofico, prima ancora che pratico: cominciamo a parlare di lavori, invece che di lavoro. Il modo nel quale parliamo del lavoro continua a rimandare in modo molto preciso alla visione fordista del lavoro salariato, al quale, nel nostro Paese, sono stati lungamente collegati il patto di cittadinanza e lo stato sociale. Il dissolvimento di questa forma di lavoro in mille lavori discontinui e frammentati ha indubbi aspetti drammatici, ma non è, a mio avviso, un dramma tout court, potrebbe essere anche un’occasione per costruire maggiori libertà per tutti.

Il passaggio dal lavoro ai lavori potrebbe spingerci in una direzione che a molti non piace, che è l’idea di un welfare universalistico, meno strettamente collegato con il lavoro salariato e con la sua continuità. L’introduzione di un reddito minimo, che ora anche una parte della nostra organizzazione chiede come sostegno nelle fasi di inoccupazione, è un primo passo in questa direzione. Ma un’idea universalistica di welfare per quanto può continuare a convivere con gli ammortizzatori sociali così strettamente legati al lavoro “contrattualizzato” che ben conosciamo e che continuiamo a difendere? Ancora una volta: parliamone. Io credo che i tempi richiedano fantasia e coraggio, la nostra organizzazione rischia di morire se non accetta la sfida del cambiamento. Proviamo a ri-coniugare l’idea di lavoro, magari così riusciremo finalmente a includere a pieno titolo nella nostra visione il lavoro di cura, il grande rimosso, la colonna invisibile che ha sostenuto il lavoro fordista, in gran parte gratuito e in gran parte a carico delle donne. Passaggio tanto più necessario adesso che il lavoro di cura diventa sempre più spesso lavoro salariato, una delle categorie di lavoro salariato meno viste e meno tutelate, eppure fondamentali per la nostra società e al quale noi, il più grande sindacato italiano, prestiamo ben poca attenzione. Fermiamoci un attimo a pensare che tutte e tutti, senza alcuna eccezione, siamo stati bambine e bambini, inermi e bisognosi di cure e probabilmente diventeremo vecchie e vecchi, altrettanto fragili e bisognosi. Questo, forse, ci illuminerà su quanto è alta la posta in gioco quando parliamo di lavoro di cura.

Le nostre parole rinchiudiamo nella prigione delle loro presunte fragilità non solo i giovani, ma anche le donne. E’ quello che ho pensato leggendo l’Azione 9 del nostro documento congressuale: “Libertà delle donne. Contro il femminicidio e ogni tipo di violenza” . Intendiamoci: riconosco e apprezzo il grande sforzo che la nostra organizzazione sta facendo per far diventare parte del proprio DNA la lotta alla violenza di genere, il rispetto del corpo femminile. Riconosco e apprezzo il grande impegno che i nostri compagni maschi stanno mettendo in questa battaglia, nel riconoscere la violenza verso le donne come un problema degli uomini, nel proporre a se stessi e agli altri un modo nuovo di essere uomini.

Ma, nel nostro documento, delle donne si parla solo come vittime di violenza. Compagne, non rendiamo un buon servizio a noi stesse se ci autorappresentiamo solo come vittime o come escluse. Noi siamo ben altro, e lo sappiamo. Facciamo parlare la nostra forza, la nostra competenza; facciamo parlare la nostra capacità di tenere insieme tutti gli aspetti della vita: lavoro, amore, cura, studio, desiderio; quel cocktail formidabile che rende autorevole e particolare il nostro pensiero. Particolare, cioè di una parte; così come è particolare il pensiero degli uomini. Compagne, rivendichiamo la nostra particolarità e la nostra autorevolezza e confrontiamoci su un piano di autentica parità con i nostri compagni uomini.

E’ a partire anche da questa riflessione che il Coordinamento Donne della FISAC CGIL di Milano e Lombardia, del quale faccio parte, ha elaborato questo Ordine del Giorno, già presentato e assunto nei congressi Milanese e Regionale della FISAC. L’ODG è partito da quello elaborato e messo a disposizione dalle Segretarie della Camera del Lavoro di Milano, che ringraziamo, ed è stato modificato e arricchito da una riflessione che era stata presentata alla Commissione contrattuale FISAC che sta per iniziare con ABI la discussione del nuovo CCNL; è perciò un ODG che si sforza di introdurre alcune linee guida relative alla contrattazione, non tanto a favore delle donne, quanto viste e pensate dalle donne per tutti, donne e uomini, perché parlano di equilibrio tra vita e lavoro, di qualità della vita e del lavoro. Naturalmente speriamo che l’ODG venga assunto anche qui, ma sinceramente la speranza più grande che abbiamo è che questo ODG faccia discutere.

Noi siamo consapevoli, infatti, che molte e molti non saranno d’accordo con alcune delle nostre proposte. Quello che ci interessa è in primo luogo il confronto. Vorremmo evitare di essere archiviate alla voce ODG di genere, qualcosa che è doveroso assumere, ma che si può tranquillamente non prendere sul serio: vogliamo essere prese sul serio.

Nel nostro ODG parliamo di orari di lavoro, che vorremmo più flessibili, ritagliati sui bisogni delle lavoratrici e dei lavoratori, oltre che delle Aziende. L’estensione degli orari dei negozi e di altri servizi, come le Banche, è ormai una realtà di fatto. La questione è come questa estensione possa sposarsi con le esigenze di chi lavora. Per questo proponiamo ad esempio l’ orario di lavoro a menu, già sperimentato in alcune realtà del commercio. Ma per contrattare gli orari in questo modo è necessaria una contrattazione di secondo livello forte, che deve essere garantita da demandi chiari nei CCNL.

Parliamo di congedi per i padri, perché si vada nella direzione di una più equa condivisione del lavoro di cura. Facciamo notare, tra l’altro, che la possibilità di fruire dei congedi parentali ad ore, che la legge demanda alla contrattazione per un’opportuna regolamentazione, è ancora in alto mare nella maggior parte delle categorie.

Parliamo di Lavoro Agile (da non confondersi con il Telelavoro), al quale il comune di Milano ha dedicato una giornata sperimentale lo scorso 6 Febbraio. Il protocollo di intesa l’abbiamo firmato anche noi (Camera del Lavoro di Milano), ma il tema entra pochissimo nelle nostre riflessioni e ancor meno nelle nostre pratiche contrattuali. Attenzione! Il lavoro agile piace molto a chi lavora, non solo alle Aziende, e noi, come su molte partite di welfare aziendale, lasciamo che le Aziende lo utilizzino senza accordo sindacale o, peggio, lo ostacoliamo in nome di un “governo degli orari” che immaginiamo immutabile. Non ci sono solo aspetti positivi, certo, bisogna ragionare su salute e sicurezza, sulla contaminazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, ma se non ci mettiamo le mani, in questa materia, non potremo ne’ prevederne, ne’ tantomeno governarne le criticità. E certo è che gli aspetti positivi sono proprio tanti: lavoro agile significa meno inquinamento, quindi più salute, un dato che non possiamo non prendere in considerazione, soprattutto in questa regione; significa maggior autodeterminazione per le lavoratrici e per i lavoratori, quindi maggior libertà; significa più tempo libero. In una parola: migliore qualità della vita. Ed è la qualità della vita, in ultima istanza, quella per cui dovremmo batterci. Il lavoro, la dignità del lavoro, non è un fine, ma un mezzo: il fine è la dignità e la qualità della vita.

Parliamo di part-time, che vorremmo fosse visto come un modalità di organizzazione del lavoro con pari dignità del full-time, non come lavoro di serie B che pregiudica la crescita professionale e salariale soprattutto delle donne. Il part-time sta diventando strumento non traumatico di risoluzione delle tensioni occupazionali e questo, come Sindacato, ce lo fa vedere in una luce un po’ migliore; buttiamo il cuore oltre l’ostacolo e proviamo a pensare che lavorare meno significa avere più tempo per tutti gli altri aspetti della vita, è quindi bello e auspicabile per tutti. Certo, le rigidità contrattuali, che prevedono percentuali massime di part-time, andrebbero rimosse, e anche le rigidità di orario dei contratti part-time, pensate come forme di tutela, andrebbero ripensate.

Per dare maggiore concretezza alla nostra riflessione sul part-time abbiamo pensato di proporre alla CGIL di farsi promotrice di una legge di iniziativa popolare che preveda sgravi fiscali a favore delle Aziende per i contratti part-time, purché la paga oraria della lavoratrice e del lavoratore venga maggiorata. In questo modo raccogliamo, indirettamente, una raccomandazione della CES, che auspica interventi per innalzare i salari femminili, ancora drammaticamente più bassi rispetto a quelli maschili, ma forse rendiamo anche il part-time (che, ricordo, non è per forza di sole 4 ore!) più appetibile per gli uomini e chissà che questo non finisca per elevarne lo status… Può darsi che questa sia una proposta folle: parliamone; compagne e compagni con maggiore esperienza di quella che abbiamo noi potrebbero aiutarci ad approfondire l’argomento.

Sugli altri temi trattati nell’ODG vi rimando alla sua lettura: spero di avervi fatto venire voglia di saperne di più!

Ci sono altri argomenti che a mio avviso mancano nella nostra riflessione collettiva e congressuale: siamo poco, pochissimo attenti, sia nella teoria che nella pratica, alla sostenibilità ambientale. Questo è un tema cruciale per il futuro dell’umanità, un ottimo motivo, mi pare, per imparare a contrattare su temi come la mobilità sostenibile e il lavoro agile, ma anche per modificare alcuni nostri comportamenti all’interno dell’organizzazione, dallo spreco di carta all’assoluta tranquillità con cui utilizziamo quantità incredibili di plastica per i nostri pranzi!

Non facciamo i conti con una società in rapido mutamento e con un sacco di fenomeni aggregativi che non sono quelli che noi conosciamo e riconosciamo – lamentiamo il qualunquismo dei lavoratori e delle lavoratrici che rappresentiamo, ma non li vediamo nelle altre forme aggregative che si danno. Ad esempio i GAS, sono un fenomeno sociale ed economico di grande interesse, che tende all’eliminazione degli intermediari tra produttore e consumatore; ma, un modello economico così fatto, che ricadute avrebbe sul lavoro?

Più in generale, quando noi parliamo di sviluppo, a me sembra che in fondo non abbiamo in mente niente di sostanzialmente diverso dallo sviluppo che ha in mente da sempre il pensiero capitalista. Noi diciamo no alla “finanziarizzazione” selvaggia dell’economia, giustamente, ma poco e nulla ci interroghiamo sulla sua sostenibilità quando nelle nostre proposte chiediamo sviluppo. Io temo che anche noi abbiamo in mente un’idea di sviluppo lineare, che può continuare a crescere senza limiti.

Ma ormai sappiamo che i limiti il pianeta ce li impone, sull’idea di decrescita, più o meno felice, dovremo pur fare qualche riflessione.

Ho trovato illuminante quello che sostiene la teologa e filosofa femminista Ina Praetorius sullo sviluppo: in natura non esiste sviluppo senza limiti, tutto quello che cresce è prima o poi destinato a decadere. Questa esperienza ce la mette tutti i giorni sotto gli occhi la natura, con i nostri corpi stessi. Credo sia ora di includerla nella nostra riflessione, per cercare insieme qualche idea nuova per il futuro nostro e dei nostri figli. 

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