22 Maggio 2015

Senso del lavoro e orario

Maria Carla Baroni ci ha inviato il suo documento Senso del lavoro e orario, contributo da lei preparato in occasione di un’assemblea nazionale delle donne del Partito Comunista d’Italia che si è tenuta a Napoli il 15/3/2015.

È un documento lungo, legato a una discussione interna di partito, ma mi hanno colpito alcune riflessioni in cui guarda sotto una nuova luce l’economia, il lavoro, il senso del lavoro e la tradizionale impostazione dei comunisti stessi, partendo da un punto di vista femminile e da un confronto con le pratiche politiche delle donne.

Desidero proporne alcuni stralci che trovo significativi e interessanti.

 

Silvia Baratella, 22 maggio 2015

 

Tempo fa Nicoletta Pirotta (Rete italiana Donne nella Crisi) aveva posto, in una delle prime riunioni dell’Agorà del Lavoro, un gruppo promosso dalla Libreria delle Donne di Milano, una domanda: «Qual è il senso del lavoro?»

Non ci avevo mai pensato, forse anche perché nella mia storia sindacale degli anni ’73-’82, in una Cgil egemonizzata dal PCI, si dava importanza solo al lavoro in sé, alla produzione in sé, qualunque cosa si producesse, anche strumenti di morte come armi e veleni chimici, anche se la produzione sterminava operai e operaie e la popolazione intorno alle fabbriche e avvelenava i campi coltivati e quindi il cibo e le acque. Unica eccezione la Fiom, che allora si era posta – almeno in via teorica – l’obiettivo della riconversione dell’industria bellica a produzioni civili.

A quel tempo, inoltre, era considerato lavoro “produttivo” solo quello che dava origine a merci, mentre il lavoro nei servizi – compresi i servizi di cura alle persone – era considerato “improduttivo” e, conseguentemente, di secondaria importanza. Il che la dice lunga sull’impronta maschile che caratterizzava il comune senso del lavoro.

 

[…]

 

A mio parere il senso del lavoro sta nel contribuire al ben-essere, allo star bene, collettivo. Viene subito in mente, quindi, in prima approssimazione, il lavoro: nel settore dell’educazione e della formazione di ogni ordine e grado, dagli asili nido alle università; nel settore della salute, dalla ricerca scientifica e tecnologica in campo ambientale, medico e farmacologico ai servizi di igiene pubblica, di prevenzione delle malattie e del disagio psichico, ai servizi di cura e di riabilitazione, quando indispensabile anche in regime di ricovero; nell’assistenza sociale, dai servizi territoriali di base (ambulatoriali) all’assistenza domiciliare, alle piccole comunità-alloggio alternative alle istituzioni totali per vecchi/e, handicappati/e, ecc., a forme di assistenza sociale che tentino di alleviare la crudeltà e il rigore delle istituzioni totali esistenti (come ad es. le carceri); per la produzione e l’accesso alla cultura (arti figurative, cinema, teatro, letteratura, informazione, editoria, biblioteche e iniziative di promozione della lettura, musica); nell’edilizia pubblica e nel trasporto pubblico; nello sport e nell’intrattenimento.

Significa che solo il lavoro di ricercatori e ricercatrici, insegnanti, medici/che e infermieri/e, artisti e operatori e operatrici culturali ha senso?

Ma non si può insegnare in una scuola sporca o con gli intonaci crollanti o curare in un ospedale sporco, dai muri cadenti o con attrezzature rotte, per cui anche chi cura la pulizia e la manutenzione svolge un lavoro essenziale al benessere collettivo, così come è essenziale anche il lavoro d’ufficio e organizzativo, senza il quale nessuna struttura può funzionare.

Però, se tutte le mansioni necessarie al funzionamento di una struttura dedicata al benessere collettivo sono indispensabili, il grado di istruzione richiesto, il contenuto intellettuale e decisionale, il grado di responsabilità e di gratificazione, la retribuzione, sono ben diversi […]. Queste disparità di fatto […] sono aggravate dalla gerarchizzazione nell’organizzazione delle decisioni e del lavoro, oltre che dalle modalità di tipo privatistico/industriale che il sistema capitalistico ha imposto ad alcuni settori di pubblica utilità; esempio tipico è la sanità, di fatto destinata attualmente – in netto contrasto con l’originaria e avanzatissima legge 833/1978 – solo alla produzione superspecialistica di singole prestazioni mediche, chirurgiche, strumentali e farmacologiche settorializzate e spezzettate, che generano rimborsi e profitti, e non certo il mantenimento o il recupero della salute di persone concrete nella loro interezza. Si giunge perfino al paradosso che, mentre nella catena di montaggio di una fabbrica si assemblano pezzi per formare un unico oggetto, negli ospedali si spezzetta – sotto forma di interventi parcellizzati – ciò che unico già era, per giunta un unico vivente e pensante. In queste condizioni, al di là dell’apporto individuale dei singoli lavoratori e lavoratrici, è la struttura nel suo complesso che non opera per il benessere collettivo.

 

[…]

 

E che senso ha invece il lavoro di chi opera come dipendente nell’industria degli armamenti o nella produzione di sostanze chimiche cancerogene o dei beni di lusso che usano materiali, energia, acqua e lavoro umano per soddisfare i desideri delle élites economiche a scapito dei bisogni del 90% della popolazione mondiale e della permanenza della vita sul pianeta?

 

A questo punto si pongono due ordini di questioni.

Un primo ordine attiene al passaggio dalla prestazione lavorativa del singolo essere umano all’organizzazione del lavoro complessiva, alla possibilità di co-decidere – almeno parzialmente – il contenuto del proprio lavoro, del come svolgerlo e del come vederlo retribuito, oltre al fatto, che dovrebbe essere imprescindibile, di poterlo svolgere con garanzie giuridiche di continuità e in condizioni che non attentino alla vita e alla salute propria e altrui.

[…]

Ciò può essere meno difficile nelle strutture pubbliche e contribuirebbe a migliorare la qualità complessiva del servizio erogato, ad es. con l’umanizzazione degli ospedali, con la valorizzazione e con l’arricchimento delle competenze e delle capacità di relazione e di lavorare in squadra e in modo interdisciplinare di tutti gli operatori e operatrici sanitari/e e con l’ascolto dei malati e dei familiari.

[…]

Il senso del lavoro, infatti, dovrebbe essere anche quello di esprimere se stessi/e, di valorizzare la propria individualità, capacità, desideri e aspirazioni, contribuendo – nello stesso tempo – al benessere collettivo, trovando le modalità per valorizzare ogni persona a vantaggio della collettività.

Per le donne il senso del lavoro non può che includere anche la possibilità di scegliere effettivamente e liberamente – insieme al lavoro – anche la maternità: il doppio sì di cui parla il movimento delle donne.

 

[…]

 

Il secondo ordine di questioni riguarda il fatto che il senso del lavoro non può essere disgiunto dal senso della produzione cui si partecipa. Fare l’addetta alla manutenzione o la contabile in una fabbrica di armi o in un ospedale può rispondere appieno alle aspirazioni personali e comporta sostanzialmente gli stessi atti, ma il senso complessivo del proprio lavoro è, nei due casi, diametralmente opposto.

Questo ci sposta sul piano del che cosa, come e per chi produrre e del chi e come decide che cosa, come e per chi produrre; riguarda sia il modello di sviluppo e la produzione di merci (solo beni utili alla generalità della popolazione, per non sprecare le limitate risorse del pianeta), sia il contenuto dei servizi pubblici (le finalità e il contenuto dell’insegnamento pubblico per tutti e tutte, le strategie pubbliche per il mantenimento della salute psicofisica dell’intera popolazione, le priorità della ricerca pubblica e così via), così come riguarda il sistema di decisione politica; di questo passo si arriva al superamento del capitalismo e del patriarcato…

 

[…]

 

L’unica prospettiva perché il nostro pianeta rimanga abitato da esseri viventi e non diventi una sterile stella – come diceva e scriveva la comunista Laura Conti nei gloriosi anni ’70 – è che ci si avvii sulla strada della diminuzione della quantità complessiva delle merci prodotte, scegliendo che cosa produrre. […]

L’occupazione potrà essere aumentata, infatti, oltre che dalla riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità retributiva, solo indirizzando una quota consistente del lavoro umano alla cura del territorio e delle città e alla cura delle persone, cioè a lavori dotati di senso e di gratificazione sia per chi li svolge sia per chi ne riceve le prestazioni.

I lavori di cura alle persone, nella società attuale, sono spesso femminilizzati, il che li rende socialmente meno considerati e, in un’ottica capitalistica, sottoretribuiti, mentre sono proprio quelli che maggiormente – già ora – contribuiscono al ben-essere collettivo.

Tipico è tutto l’arco dell’educazione/formazione, in cui le donne sono presenti in modo quasi esclusivo dagli asili nido alle elementari e anche alle medie inferiori, mentre diminuiscono percentualmente mano a mano che si sale di grado, passando alle medie superiori e alle università, ai vertici delle quali sono ancora davvero pochissime.

La riconversione di una parte consistente del lavoro umano dalla produzione di merci (approccio maschile, oltre che capitalistico) alla cura del territorio, delle città e delle persone (approccio femminile) è una riconversione epocale per la quale dobbiamo attrezzarci e che dobbiamo favorire.

 

[…]

MARIA CARLA BARONI

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