1 Aprile 2019
Leggendaria

Abbardente, un racconto cantato

di Luciana Tavernini


Intervista a Pinuccia Corrias sul libro Abbardente, Neos edizioni, Torino 2017


Nella Sardegna barbaricina del XV secolo, ai tempi della dominazione spagnola, si svolge la vicenda di Grixenda, una storia fatta di memoria mito e immaginazione.


Conosco Pinuccia Corrias da diversi anni soprattutto come femminista che nella scuola ha contribuito alla pedagogia della differenza. Vive tra Torino, la Sicilia e la Sardegna, ma ha vissuto a Milano, Roma e Napoli. Questo suo radicarsi in luoghi molto diversi le ha permesso di saperne vedere, con uno sguardo sia interno che esterno, le peculiarità che sa mostrare con la sua scrittura. Mi aveva commossa il suo racconto «ShalomInshallahAmén» con cui, nel 2014, aveva vinto il concorso Lingua Madre. Ho quindi accolto con curiosità l’uscita del libro Abbardente, una ballata sarda che, attraverso la voce della cantadora-narratrice, mi ha immerso in un mondo antico ma straordinariamente vivo per me oggi. Ho voluto quindi intervistarla sul suo ultimo lavoro.


1. La scrittura è un elemento fortissimo del fascino del libro: il ritmo di un racconto cantato, la lingua italiana con intarsi preziosi di termini sardi (balentía, faddhisa, laóre…), modi di dire e proverbi inseriti in maniera colloquiale («chi può s’aggiusti, chi non può s’impicchi», «i bambini appena usciti dall’uovo» eccetera), l’uso personale delle maiuscole come faceva Emily Dickinson, le frasi incisive e brevi. Si tratta di una scrittura che ha la forza di aprire squarci su un mondo sconosciuto e allo stesso tempo vitale, coinvolgendo tutti i sensi, in contatto con le e i protagonisti di questa storia che pian piano veniamo scoprendo. Capisco che questa lingua inaudita finora è fortemente viva per te e per come risuona in me che leggo. Come l’hai creata, qual è stata la sua sorgente?

Questa lingua è frutto di una vita emotiva e relazionale trascorsa dentro ordini simbolici e registri linguistici diversi, vissuta fin da bambina con una presenza attiva e riflessiva che, da quando ne ho avuto gli strumenti, si è sempre trasformata in scrittura. Da una parte l’italiano colto di mio padre, vissuto da giovane, tranne durante la guerra, a Firenze e Parigi. Dannunziano come la mia anziana maestra, insieme curarono da subito la mia scrittura e le mie abbondanti e ottime letture. Accanto a loro, la lingua ciceroniana del parroco – dottor Peana! -, maestro di Sacre scritture e di retorica. A Leopardi e Pascoli delle elementari si contrappose nelle medie la poesia ermetica del Novecento; quindi l’Iliade e l’Odissea riempirono i miei quaderni di parafrasi e commenti e la mia classe di appassionate discussioni. Dall’altra parte il mondo di mia madre, dei miei fratelli maggiori, delle donne del vicinato, delle feste popolari, delle gare di poesia estemporanea in sardo, dei riti e dei misteri… della vita, insomma. Abbardente è il succo di tutto questo. Il titolo, infatti,indica la grappa sarda che si fa distillando raspi di uve diverse.


2. La vicenda che narri è costruita come un’indagine, piena di colpi di scena, in cui fin dal prologo si sa che vi è stato, tantissimo tempo fa, un delitto: i soldati spagnoli hanno impiccato una donna. Il mistero da scoprire riguarda il perché quella donna si trovava sola nel paese. Porre al centro una donna ti permette di mettere a fuoco diverse personagge e personaggi in relazione con lei, delineando la storia di un’intera comunità, in cui privato e pubblico non sono separati, in cui la materialità dell’esistenza, la socialità, il rapporto con forze ultraterrene, il potere di chi opprime sono interconnessi. Su che cosa hai basato la tua ricostruzione storica e qual è la tua idea di storia?

Poca ricerca storica: la dominazione aragonese è una metafora e Oráne un luogo dell’anima. Il popolo sardo, come le donne, è assente dalla grande storia e predilige le parahistorias,racconti fatti, come il mio, di memoria mito immaginazione, per dare voce e dignità, con la poesia, alla vita che ostinatamente c’è dietro la marginalità. Antropologia più che storia; rimembranze, frammenti di un fare arcaico che intesse il presente, echi di voci lontane incapsulate nelle viscere, “scarti” che la storia ufficiale disdegna. Proprio come quelli che aveva gettato nella mia vita l’ossessione del vecchio professor Manca che da ragazzo aveva avuto sotto gli occhi quel lacerto di storia locale in un disordinato archivio notarile: una donna trovata sola in un paese abbandonato dagli abitanti per sottrarsi a un tributo esoso. Cosa potevo farne io? E perché sembrava appartenermi? La prima cosa che seppi fu il suo nome: Grixenda, pronunciato con la “x” dolce del Campidano da dove veniva mia madre. Portava uno scialle a fiori: quello sardo in cui mi ero avvolta il capo per andare a cercare in una città ignota l’altra che mi aveva strappata di colpo al mio “sogno d’amore”. E l’avevo già vista a Venezia nelle sculture di Antìne Nivòla, nato a Orani e vissuto a New York. Grixenda apparteneva a un popolo che reagiva all’ingiustizia e all’offesa sottraendosi. Come me. Chi mi conosce sa, infatti, che pur non essendo una biografia, in Abbardente non c’è niente che non parli di me.


3. La storia che racconti è ambientata in un paese dell’interno della Sardegna nel periodo della dominazione aragonese, quasi 600 anni fa, eppure la seguiamo sentendo che le forze che la muovono sono ancora attuali perché le donne e gli uomini che agiscono sono spinti da sentimenti, passioni, bisogni, forze tuttora presenti. Amori, tradimenti, silenzi, alleanze, sconforti, speranze, potere, sessualità, legami tra donne. Un microcosmo con continui e imprevisti cambiamenti che illumina il mondo in cui viviamo. Quali sono state le tue fonti, non solo letterarie, di ispirazione?

Il microcosmo è la mia vita e la scrittura è nata per rivelazioni, scavi e autorizzazioni di più di trent’anni di letture e riflessioni, spesso con altre donne. Ti farò solo degli esempi, perché il libro, oltre a un esergo, che delinea il percorso filosofico del testo, ha un’appendice, Note di guida alla lettura, con la traduzione e la spiegazione antropologica dei termini sardi e con l’origine letteraria e/o filosofica di determinate concezioni e modi di sentire. Nei Ringraziamenti inoltrerisulta chiaro il filo che lega luoghi e persone che hanno nutrito la lunga gestazione del testo e reso possibile la sua pubblicazione. Innanzitutto S. Atzeni mi ha dato lo stupore di capire come il brulichio di “sussurri e grida” che mi abitava aveva un timbro sardo, che poteva essere messo in parole nel modo come già Grazia Deledda aveva praticato, inventando una lingua italiana sapida di sardità. Le filosofe di Diotima misonostateessenziali per “mettere al lavoro il negativo” e riflettere sulla lingua materna. Christa Wolf mi ha autorizzata a dare voce e volto all’odio nella figura di Arrega Loj. E infine le mistiche del ’900, con la cui farina ho impastato il concetto di “identità vocazionale”. Chiamo così la consapevolezza dì sé a cui, come un cavaliere medievale, giunge, grazie alla grandezza delle donne che lo hanno amato e educato, Toriccu, servo-pastore non solo di pecore ma anche di creature umane.


4. Hai scelto di farci partecipare a riti della tradizione sarda, permettendoci di seguire gli esseri viventi, animali compresi, che li creano. Penso alla Sartiglia, alla panificazione ma anche alla realizzazione delle Prendas, ai canti funebri come l’attitu. Il rito nel suo farsi, con le emozioni che suscita, i ruoli definiti, non solo rivive ma si riesce a coglierne il significato profondo che apre a una concezione della realtà che supera il limite del solo visibile. Come hai scelto i riti di cui hai parlato e come sei giunta a capirne e mostrarne il senso?

Eccetto la Sartiglia, diventata da tempo un evento folcloristico, quelli che racconto sono i riti di una liturgia nella quale mia madre e le altre donne della mia infanzia trasformavano i gesti della quotidianità. È stato poi il riconoscimento dell’ordine simbolico materno e della mia genealogia biologica e culturale (dono delle femministe del pensiero della differenza) la chiave per dare significato a quei gesti. Tutte sono madri le personagge del mio testo. Nella realtà, nel sogno, nella follia o, come Grixenda, nell’ora della morte. Perfino Marigosa: la cavalla che – tutt’una con il Componidore – vincendo la Sartiglia, genera augurio di fecondità per la Terra. Perché la fecondità (non la maternità come istituto sociale o modello culturale), paradigma fondante dell’antropologia barbaricina, è il segno della relazione che misteriosamente connette l’Universo; il rito intende, nel suo farsi, mostrare e rafforzare questa mistica unità.


5. Le donne del libro sono depositarie di una sapienza che sanno trasmettere alle altre, con modalità diverse da quelle che vengono utilizzate a scuola. Si tratta di fare insieme, di narrare, di imparare il peso e la misura nell’agire attraverso l’osservazione dei comportamenti altrui, di conoscere i ritmi dei corpi, di tener conto dei sogni e delle premonizioni, di saper autorizzare in silenzio. Una sapienza collettiva che riusciva a farsi ascoltare anche dagli uomini ma che è stata negata o svalorizzata quando siamo entrate all’università. Quale bisogno ti ha spinta a vederla, chi e che cosa ti hanno aiutato? Che cosa è valido per noi oggi?

La durezza delle “madri di roccia” della mia infanzia pervade ogni pagina del mio testo e solo verso la fine si apre il primo spiraglio di dolcezza nel pianto liberatorio che unisce Angheledda, la bambina sempre senza misura, e sua madre. Da qui in avanti la potenza delle madri si trasformerà in sapienza amorosa che cambia il cuore degli eventi, perché sa trovare «nelle doglie della contingenza, parole capaci di dare voce al lato muto dell’esperienza e luce al mistero, interrompendo la catena del male e cambiando verso alla storia». È quella sapienza amorosa che le donne possono portare nella cura del mondo sempre: anche oggi. Io l’ho capita passando dal timore delle “madri di roccia” alla riconoscenza per le “madri simboliche” (p.122). Ma questa è un’altra… parahistoria.


Riferimenti bibliografici

– Sergio Atzeni, Apologo del giudice bandito, Sellerio Editore, Palermo (prima ed. 1986), 148 pagine, 9 euro

– Ivana Ceresa, L’utopia e la conserva. Una vita spirituale nella contemporaneità, Tre Lune Edizioni, Mantova 2011, 244 pagine, 24 euro

– Giuseppina Corrias, Dalle madri sarde alle figure di scambioin «Nati da donna. La mia genealogia femminile», a cura del Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile, Thélème edizioni, Torino 2002, 222 pagine, pp.93-126

– Giuseppina Corrias, Il coraggio della dipendenza. G. Deledda, “La madre” (1920) in «Il simbolico in gioco. Letture situate di scrittrici del Novecento», a cura di A. Ribero e L. Ricaldone, Il Poligrafo, Verona 2013, 283 pagine, 22 euro, pp. 15-22

– Grazia Deledda, Romanzi,volume I, Il Maestrale, Nuoro 2010, 1008 pagine, 12,90 euro

– Diotima, La magica forza del negativo,Liguori editore, Napoli 2005, 201 pagine, 13,50 euro

– Diotima, L’ombra della madre, Liguori Editore, Napoli 2007, 196 pagine, 15,50 euro

– Alicia Dujovne Ortiz, Giacinta, La Tartaruga Edizioni, Milano1981, 124 pagine, 6.800 lire

– Clarice Lispector, La passione secondo G.H., Feltrinelli, Milano 1991, 164 pagine, 5,68 euro

– Antonietta Potente, Qualcuno continua a gridare. Per una mistica politica, edizioni La meridiana, Molfetta 2008, 92 pagine, 13,00 euro

– Chiara Zamboni, Parole non consumate. Donne e uomini nel linguaggio, Liguori Editore, Napoli 2001,148 pagine, 12,39 euro

– María Zambrano, Filosofia e poesia, Editore Pendragon, Bologna 2010, 150 pagine; 14 euro

– Christa Wolf, Medea, Editore E/O, Roma 2000, 197 pagine, 10 euro


(Intervista di Luciana Tavernini, Leggendaria n. 130, luglio 2018)

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