14 Dicembre 2013
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Alice Munro: discorso di accettazione del Premio Nobel per la Letteratura


DAL SITO DI EINAUDI 

Il tradizionale discorso di accettazione del Premio Nobel per la Letteratura si è tenuto, quest’anno, sabato 7 dicembre. Alice Munro non è salita sul palco dell’Accademia di Svezia, ma ha deciso di intervenire con una splendida intervista, che potrete leggere nella traduzione di Susanna Basso.


Una conversazione con Alice Munro 

Ho cominciato a interessarmi alla lettura molto presto, quando qualcuno mi lesse una storia di Hans Christian Andersen: La Sirenetta; ora, non so se la ricorda, La Sirenetta, ma è una storia tristissima. La sirenetta si innamora di un principe, ma non lo può sposare, essendo una sirena. Guardi, è davvero triste, le risparmio i dettagli. In ogni caso, appena la storia finì, io corsi fuori e mi misi a girare intorno alla casa di mattoni dove abitavamo allora, e mi inventai una fiaba a lieto fine, perché mi pareva che glielo si dovesse, alla sirenetta, e chissà come non mi passò per la mente che la diversa storia che avevo creato era solo per me, non avrebbe mai circolato, ma a me pareva comunque di aver fatto del mio meglio, ero convinta che da allora in poi la sirenetta avrebbe sposato il principe, che sarebbero vissuti per sempre felici e contenti, e che lei se lo meritasse, dal momento che aveva fatto delle cose tremende perchè il principe potesse rientrare in possesso delle sue facoltà ed evitare turbamenti. Si era dovuta trasformare fisicamente, procurarsi arti come quelli delle persone normali, mettersi a camminare, ma ogni passo le costava atroci sofferenze. Ecco che cosa era stata disposta a fare per conquistare il principe. Perciò mi pareva che meritasse di più che una morte in acqua. E non mi preoccupavo del fatto che il resto del mondo non conoscesse mai la versione nuova, perché dopo averla pensata mi sembrava che esistesse comunque. Ecco. Ho cominciato presto a scrivere, come vede.

E, ci dica, quando ha imparato a raccontare storie, a scriverle?
Inventavo storie in continuazione. Andavo a piedi a scuola, ed era lontano, e di solito durante il tragitto inventavo una storia. Sempre più spesso, crescendo, le mie storie parlavano di me che ne ero l’eroina in situazioni diverse; non mi importava che non venissero subito pubblicate, anzi, non so neppure se al tempo avessi in mente che altri le dovessero conoscere o leggere. Il punto era il racconto in sé, di solito molto appagante dal mio punto di vista, animato dall’idea di fondo della sirenetta, e cioè che lei era temeraria, intelligente, capace in senso lato di costruire un mondo migliore con la sua sola presenza, in quanto dotata di poteri magici e cose simili.

Era importante il fatto che la vicenda sarebbe stata narrata da una prospettiva femminile?
Non ho mai pensato che fosse importante, ma d’altra parte non ho mai pensato a me stessa se non come a una donna, e di buone storie che parlavano donne e bambine ce n’erano parecchie. Con l’arrivo dell’adolescenza l’equilibrio si sbilancia a favore della collaborazione da offrire all’uomo per aiutarlo a realizzare i suoi traguardi e così via, ma da bambina non mi sentivo affatto inferiore in quanto femmina. Forse perché abitavo in una zona dell’Ontario dove a leggere e raccontare storie erano soprattutto le donne, mentre gli uomini erano impegnati a fare le cose importanti e non si occupavano di sicuro delle storie. Perciò mi sentivo piuttosto a mio agio.

In che modo l’ambiente l’ha ispirata?
Sa, non credo di averne avuto bisogno. Ritenevo le storie essenziali per il mondo e volevo contribuire con qualcuna di mia, era questo che desideravo fare e la cosa non aveva niente a che vedere con gli altri, non era necessario che lo dicessi a nessuno. È stato solo molto più tardi che mi sono resa conto di quanto sarebbe stato bello se anche uno solo di quei racconti avesse raggiunto un pubblico più vasto.

Che cosa è importante per lei in una storia?
Beh, all’inizio naturalmente la cosa importante era il lieto fine, non tolleravo che una storia finisse male, almeno non per le mie eroine. Poi ho cominciato a leggere libri come Cime tempestose, che finivano malissimo, e a quel punto ho cambiato radicalmente idea e mi sono appassionata al tragico.

Che cosa c’è di interessante nella descrizione della vita della provincia canadese?
Basta viverci per saperlo. Sono dell’avviso che qualsiasi vita e qualsiasi posto possano essere interessanti. E poi non credo che sarei stata altrettanto coraggiosa se fossi vissuta in città, in competizione con altri a un livello culturalmente più alto. Con questo non ho dovuto misurarmi. Ero la sola persona di mia conoscenza che scrivesse racconti, anche se non li raccontavo a nessuno, e per quanto ne sapessi, almeno per qualche tempo, ero la sola persona al mondo che fosse capace di farlo.

È sempre stata così sicura della sua scrittura?
Lo sono stata a lungo, ma crescendo e incontrando altre persone che scrivevano, sono diventata al contrario molto insicura. È stato allora che ho capito che era un mestiere un po’ più difficile di quanto mi aspettassi. Ma non ho mai rinunciato; scrivere era una delle cose che facevo.

Quando inizia una storia, ha già in mente la struttura narrativa?
Sì, ma poi spesso si modifica. Parto da un intreccio e ci lavoro e magari mi accorgo che va da un’altra parte e che le cose succedono mentre scrivo, però devo comunque partire da un’idea abbastanza chiara sul contenuto della storia.

Quanto la assorbe l’attività di scrittura?
Oh, moltissimo. Comunque le mie figlie hanno sempre mangiato lo stesso, dico bene? Come casalinga ho imparato a scrivere nei ritagli di tempo e credo di non averci mai rinunciato, nonostante i periodi di scoraggiamento, quando mi rendevo conto che le mie storie non erano abbastanza buone, che avevo ancora tanto da imparare e che sarebbe stata molto più dura del previsto. Ma non mi sono fermata, credo di non averlo mai fatto.

Qual è la parte più difficile quando si scrive una storia?
Credo sia la rilettura, quando capisci che non funziona. Si parte dall’euforia, si approda a una soddisfazione discreta e poi, una mattina, prendi in mano il testo e pensi «che stupidaggine», ed è allora che ti ci devi proprio impegnare. A me è sempre sembrato che fosse la cosa giusta; se qualcosa non funzionava era colpa mia, non della storia.

Ma come la modifica se non è soddisfatta?
Ci lavoro, parecchio. Aspetti però, cerco di spiegarmi meglio. Potrebbero esserci dei personaggi che sono stati trascurati: bisogna riflettere su di loro e trasformarli. Una volta tendevo a concedermi una prosa molto fiorita, ma a poco a poco ho imparato a limarla al massimo. Quel che si fa è semplicemente concentrarsi sulla storia e scoprire di che cosa parla davvero. Magari credevi di saperlo sin dall’inizio e invece avevi ancora tanto da imparare.

Quante storie ha buttato via?
Ah, da giovane le buttavo via tutte. Non saprei, ma di recente non mi succede più spesso; di solito so che cosa occorre fare per renderle vive. Anche se trovo ancora, sempre, un errore qua e là, e mi rendo conto che è un errore, ma che lo devo lasciar andare.

Rimpiange le storie che butta via?
Non direi, perché quando succede mi ci sono già arrovellata abbastanza da sapere che non funzionava alla radice. Ma, come dico, ormai non succede più molto spesso.

Come cambia la scrittura, col passare degli anni?
Oh, beh, direi in modo molto prevedibile. Si comincia a scrivere di giovani principesse bellissime, poi si passa alle massaie con figli e ancora più avanti alle vecchie e così via, senza che occorra opporre resistenza. Perché cambia la visione della vita.

Crede di essere stata importante per altre scrittrici, in quanto madre di famiglia capace di far coesistere il lavoro di casa con la scrittura?
Davvero non saprei, spero di sì. Da giovane in effetti mi rivolgevo ad altre scrittrici, erano fonte di grande sostegno per me, ma non so dirle se lo sono stata anch’io. Credo che per le donne sia diventato, non voglio dire molto più facile, ma di sicuro più accettabile dedicarsi a qualcosa di impegnativo e non solo concedersi il proprio piccolo svago, quando sono tutti usciti di casa; fare sul serio con la scrittura, insomma, come fanno gli uomini.

Che impatto crede di avere su chi legge i suoi racconti, specie se donna?
Beh, vorrei che le mie storie emozionassero i lettori, non mi importa se uomini, donne o bambini. Voglio che parlino di vita, che non facciano solo pensare «sì, ecco, è proprio vero», ma che offrano una specie di ricompensa attraverso la scrittura, il che non significa che debbano essere a lieto fine, ma piuttosto che quello di cui si legge tocchi il lettore tanto da farlo sentire un po’ cambiato, alla fine.

“Chi ti credi di essere?” Che cosa ha significato per lei questa espressione?
Beh, sono cresciuta in campagna, in un ambiente di origine perlopiù scozzese e irlandese nel quale l’idea di non dover apparire né ritenersi troppo in gamba era molto diffusa. Anche quello era un ritornello ricorrente “Ah, ti credi in gamba tu”.  E per dedicarsi a un’attività come la scrittura per molto tempo si ritenne necessario credersi in gamba, ma io ero solo un po’ stravagante.

È stata una femminista ante litteram?
Non conoscevo neppure la parola, ma sono stata femminista naturalmente, perché sono cresciuta in una zona del Canada dove dedicarsi alla scrittura era più facile per una donna che per un uomo. I grandi scrittori, quelli importanti, erano uomini, ovviamente, ma scoprire che una donna scriveva racconti la screditava meno di quanto avrebbe screditato un uomo. Scrivere non era roba da uomini. Comunque, le cose andavano così quando io ero giovane; adesso è tutto cambiato.

Crede che la sua scrittura sarebbe stata diversa, se avesse concluso gli studi?
È probabile, in effetti. Sarei stata molto più prudente e molto più spaventata all’idea di essere uno scrittore, dal momento che più scoprivo che cosa avevano fatto altri e più mi intimidivo. Forse avrei pensato di non essere all’altezza, ma non credo che avrei rinunciato, comunque. Forse per un po’, ma il desiderio di scrivere era talmente forte in me che ci avrei provato lo stesso.

Crede che la scrittura per lei sia stata un dono?
Le persone che mi circondavano probabilmente l’avrebbero definita così, ma a me non è mai sembrata un dono; mi sembrava solo una cosa che sapevo fare, se mi ci impegnavo molto. Perciò, se di dono si è trattato, di sicuro non ha reso le cose facili, almeno non dopo La Sirenetta.

Ha mai avuto delle esitazioni, ha mai pensato di non essere abbastanza brava?
Continuamente, continuamente! Ho buttato via più di quanto abbia mai spedito agli editori o abbia portato a termine, almeno fino quasi ai trent’anni. Ma non ho mai smesso di imparare a scrivere come volevo. Perciò, no, non posso dire che sia stato facile.

Che ruolo ha avuto la figura di sua madre?
Oh, il rapporto con mia madre è stato sempre molto complicato, perché lei era malata di Parkinson e aveva bisogno di costante aiuto, aveva difficoltà di parola, la gente non la capiva quando parlava eppure lei amava essere in compagnia, stare in mezzo agli altri, ma naturalmente il suo problema glielo impediva. Perciò la sua persona mi metteva in imbarazzo; le volevo bene ma per certi versi non volevo essere identificata con lei, detestavo espormi ripetendo le cose che voleva farmi dire al posto suo; è stato difficile, come sarebbe per qualsiasi adolescente interagire con un genitore o una persona in qualche modo menomata. A quell’età si vorrebbe essere completamente liberi da problemi simili.

Sua madre è stata anche una fonte di ispirazione?
Probabilmente sì, ma non in modi che potessi individuare e comprendere. Non ricordo un tempo della vita nel quale io non abbia scritto storie, se non proprio sulla carta, raccontato, e non a lei, ma a chiunque. Eppure, il fatto che mia madre leggesse, e così pure mio padre…Credo che mia madre si sarebbe mostrata più accogliente nei confronti di qualcuno che volesse diventare scrittore. L’avrebbe giudicata un’attività ammirevole, ma le persone che mi circondavano non sapevano che io volessi fare lo scrittore, perché non permettevo a nessuno di scoprirlo; alla maggior parte di loro sarebbe sembrato ridicolo. Molte delle persone che conoscevo non avevano l’abitudine di leggere, perciò affrontavano le cose in modo molto pratico e io sentivo di dover proteggere la mia visione della vita.

È stato difficile raccontare una storia vera da una prospettiva femminile?
No, niente affatto, essendo la mia, non mi ha mai dato problemi. Sa, uno dei fenomeni particolari per chi è cresciuto in un ambiente come il mio è che se qualcuno leggeva, erano le donne, se qualcuno studiava, spesso era una donna, magari per diventare maestra di scuola, o qualcosa del genere; lungi dall’essere interdetto alle donne, il mondo dei libri e della scrittura si rivolgeva più a loro che agli uomini, impegnati in campagna o in altri mestieri.

Lei è cresciuta in una famiglia proletaria?
Sì.

E anche le sue storie sono nate lì.
Sì. Non perché volessi scrivere storie proletarie. Mi guardavo intorno e scrivevo di quello che vedevo.

E le stava bene di dover scrivere a orari fissi, secondo una tabella di marcia dettata dai figli e dalla cena da mettere in tavola?
Beh, scrivevo appena potevo, e il mio primo marito mi sosteneva moltissimo; per lui scrivere era un’attività lodevole. Non lo giudicava un mestiere inadatto a una donna, come molti degli uomini che ho conosciuto in seguito. Per lui era importante che lo facessi e non ha mai cambiato idea.

***

In libreria

Fu molto divertente al principio, perché ci trasferimmo qui, decisi ad aprire una libreria, e tutti pensavano che fossimo impazziti e che avremmo fatto la fame, ma non è stato così. Lavoravamo parecchio.

Quanto contava la libreria per voi due, all’inizio?
Era la nostra vita. Tutto ciò che avevamo. L’unica fonte di reddito. Il giorno dell’inaugurazione incassammo 175 dollari. Ci parvero molti. E avevamo ragione, perché ci volle parecchio tempo prima che riuscissimo a guadagnarne di nuovo altrettanti.
Io stavo dietro al banco, cercavo i libri per i clienti, le cose che si fanno in una libreria, insomma, generalmente da sola, e la gente entrava e si metteva a parlare di libri. Era soprattutto un punto d’incontro, prima ancora che un posto dove si andava a comprare, specie la sera, quando io ero in negozio da sola  e certe persone passavano regolarmente per parlare del più e del meno; era bellissimo, mi divertivo. Fino a quel momento ero stata una casalinga, chiusa in casa tutto il giorno. È vero che intanto scrivevo, ma quella fu una grande occasione di conoscere il mondo. Non credo che guadagnassimo molto; forse chiacchieravo un po’ troppo, anziché promuovere gli acquisti, ma è stato un periodo stupendo.

Un cliente in libreria.: – I suoi libri mi ricordano casa mia. Sa, io abito poco sotto Amsterdam. Grazie infinite, buongiorno.

Ma ci pensa? Non sa quanto mi fa piacere quando qualcuno si avvicina in questo modo, non solo per un autografo, ma per spiegarti come mai lo vuole.

***

Lei desidera che i suoi libri siano fonte di ispirazione per le giovani donne e le incoraggino a scrivere?
A me importa solo che amino leggerli. Preferisco di gran lunga che la gente si diverta con i miei libri, più che trovarli fonte di ispirazione. È solo questo che voglio: che si divertano, che li sentano vicini alle loro vite in qualche modo. Il resto è meno importante. Quel che voglio dire è che non mi sento, non credo di avere intenti politici.

Lei è un’intellettuale?
Forse sì. Non so bene che cosa significhi, ma credo di sì.

Sembra avere una visione molto semplice delle cose.
Ah, sì? Bene.

Beh, ho letto da qualche parte che a lei interessa che le cose si spieghino semplicemente.
Sì, è vero. Ma non penso mai di volerle spiegare in modo più semplice; questo è solo il mio modo di scrivere. Credo di scrivere naturalmente così, senza dover pensare di rendere il mondo più semplice.

Le sono mai capitati periodi in cui non riusciva più a scrivere?
Sì. Beh, ho anche smesso di scrivere, quando è stato? circa un anno fa. Ma quella è stata una decisione, più un non voler scrivere che non riuscirci; avevo deciso di vivere come il resto del mondo. Perché quando si scrive si fa una cosa di cui gli altri non sanno niente, e non se ne può parlare, si torna di continuo al proprio mondo segreto per poi fare cose diverse nella vita normale. E questo mi ha un po’ stancata; l’ho fatto sempre, per tutta la vita. Quando mi capitava di incontrare scrittori diciamo più accademici, mi agitavo perché sapevo che non avrei mai potuto scrivere come loro, non avevo quel dono.

Immagino si tratti di un modo diverso di raccontare una storia.
Sì, ma io non ho mai lavorato alle storie in modo, come dire, consapevole, o meglio, naturalmente sono consapevole, ma lavoro più secondo il mio bisogno e il mio gusto che seguendo un’idea.

Aveva mai pensato di vincere il Premio Nobel?
Oh, no, mai! Una donna! D’accordo, qualche donna l’ha avuto. Insomma, questo onore mi fa felice, molto, ma non ci avevo mai pensato, forse perché gli scrittori tendono a sottovalutare il proprio lavoro, specie a cose fatte. Comunque non si va in giro a dire agli amici, sai, forse vincerò il Premio Nobel. Si tende a non farlo.

Le capita ultimamente di tornare a leggere uno dei suoi vecchi libri?
No! No! Mi spaventa. È probabile che proverei un bisogno irrefrenabile di cambiare una cosetta qua e una là; l’ho anche fatto, su certe copie tirate fuori dalla libreria, ma poi mi rendevo conto che non serviva a niente, perché le copie in circolazione restavano uguali.

C’è qualcosa che vorrebbe dire ai membri dell’Accademia di Stoccolma?
Oh, voglio dire che sono estremamente grata di questo grande onore e che niente, niente al mondo poteva rendermi più felice. Grazie!

***

Intervista di Stefan Åsberg.

Produzione: Swedish Educational Broadcasting Company and Swedish Television.

Registrata il 12 e 13 novembre 2013, in Canada.

©Swedish Academy, Swedish Educational Broadcasting Company and Swedish Television.

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