13 Marzo 2007
il manifesto

Brennan alle sorgenti dell’infelicità

L’osservazione della Manhattan anni ’50 e i viaggi mentali nella Dublino senza tempo costituiscono lo sfondo al quale si alimenta la vena solitaria di Maeve Brennan. I suoi racconti, originariamente scritti per il “New Yorker”, escono ora dalla Rizzoli con il titolo “Il principio dell’amore”
Caterina Ricciardi

“Tutto ciò che dobbiamo affrontare nel futuro è ciò che è accaduto in passato. È insopportabile”. Così scrisse una volta Maeve Brennan a William Maxwell, noto redattore del “New Yorker”. Purtroppo, non sappiamo molto di quanto è accaduto nel passato, quello più intimo e famigliare, di Maeve, sappiamo però del suo futuro. Era nata nel 1917 a Dublino. Il padre, Robert, aveva partecipato alla rivolta della Pasqua “di sangue” 1916, oggetto di un’accorata elegia di W. B. Yeats: è l’ora in cui in Irlanda nasce “una terribile bellezza”. In quell’occasione Brennan fu fra coloro che non pagarono con la morte la causa dell’irredentismo. Visse fuori e dentro la galera, mentre nasceva e muoveva i primi passi la figlia Maeve, che il padre patriota volle battezzare col nome di una grande regina dell’Irlanda celtica: la guerriera che gareggia con Cuchulain, celebrata, ancora da Yeats, nella gloriosa giovinezza (come Maud Gonne “bella e terribile”) e nella vecchiaia, quando lei si vede spogliata della sua straordinaria bellezza. Strano destino per quella nuova figlia Brennan dell’Irlanda quasi libera, una figlia che, come talora accade, forse avrebbe in qualche modo tradito la terra natale.
Giunto a Washington nel 1934 come primo ambasciatore della Repubblica d’Irlanda, Brennan e la famiglia sarebbero tornati in patria una decina di anni dopo. Maeve e un fratello restarono invece in America, l’ottocentesca sponda d’esilio politico o di diaspore dell’affamato popolo dell’Isola di Smeraldo. Pare che lei si sia recata qualche volta in visita alla casa abbandonata: lo confermano le opere che ha lasciato, oggi riscoperte con ammirazione. Ma per saperne di più su quei ritorni, sarà opportuno leggere la biografia di Angela Bourke: Maeve Brennan. Homesick at the New Yorker (2004). È, infatti, sulle pagine del “New Yorker” che, bellissima (si pensi a una triste Audrey Hepburn) colta, inquieta, eccentrica, sagace, dotata di scrittura limpida, asciutta, quasi lirica, Maeve cominciò a raccontare la sua visione del mondo lungo due vene precise: l’osservazione arguta e disinvolta della Manhattan degli anni ’50 (nella rubrica “The Talk of the Town”), e quei suoi viaggi mentali, esperiti sotto forma di racconti, nella Dublino di tempi indefiniti (come se nulla mutasse mai da quelle parti: l’atavica “paralisi” constatata da Joyce). E sono alcune di queste storie che oggi riaffiorano anche in italiano in una fluida traduzione di Ada Arduini: Il principio dell’amore (Rizzoli, 2006, pp. 245, Euro 9,80) poco dopo l’uscita di un romanzo breve, tremendo, chiamato La visitatrice (Rizzoli, 2005, pp. 109, Euro 7,20).
In vita (è scomparsa nel 1993), Brennan pubblicò pochi volumi: The Long-Winded Lady, i pezzi su New York, e i racconti di In and Out of Never-Never Land, e Christmas Eve. Sono questi gli anni del suo tirare un po’ le fila della sua esistenza, mentre ancora, ormai alcolizzata e depressa (anche a causa di un matrimonio sbagliato), offriva qualcosa di tanto in tanto alle pagine del “New Yorker”. Accadde fino al 1981. Poi il buio: stanze d’alberghetti, l’allucinato vagabondaggio cittadino, labirinti di New York/Dublino, l’ospedale/ospizio della fine. Una vita smarrita, sciupata, nell’inconsapevole (cieca) ricerca di una casa, o non casa. Il dattiloscritto La visitatrice, rinvenuto nel 1997 negli archivi di una università dell’Indiana, è pubblicato nel 2000. Sembra doversi affidare agli anni ’40, quando Maeve è sulla soglia dei trent’anni, e di una scelta di vita. E forse quella datazione filologica spiegherebbe molte cose di lei e dei suoi ritratti irlandesi.
Poche scrittrici, pur penetranti, raggiungono l’acuto di dolore e di mistero che trasmette al lettore la mano di questo talento sotterraneo, vissuto decorativamente nello sfondo della patinatura molto visibile e rispettata di un’influente rivista. Vengono in mente Djuna Barnes, Viginia Woolf. Nessun grido nelle sue pagine, nessun lamento da parte delle sue creature, solo silenzi, rassegnazione, incomprensioni, mute ribellioni, eloquenti pentimenti.
I sei racconti del Principio dell’amore ruotano – in uno scorrere ampio del tempo ma distillato a puntate fra Wexford (la città del padre) e Dublino – su due matrimoni infelici. Tuttavia, le sorgenti dell’infelicità si perdono nel mistero dell’anima, mentre l’occhio preferisce volgersi a piccoli insignificanti particolari, quasi “metafisici”: le pietre scure di case di periferia in vicoli ciechi, i tappeti e le porcellane dei salotti, il linoleum, le cucine, camere da letto ambiguamente inviolate, troppo ordinate, le finestre, i giardinetti di lei (donna/moglie/madre/nutrice spenta) dove, nella chiusura di mura e recinti, regna sempre un giallo laburno, albero rigoglioso, allegro, ma dai semi velenosi; e le strade dublinesi di lui (Grafton Street, St. Stephen’s Green), il marito ambizioso e deluso (per nulla moyen sensuel), padre assente, morto dentro, come lei, cui sempre sopravvive rimpiangendo l’occasione (la vita) di un amore non consumato. Rose e Delia, le protagoniste, scompaiono nel nulla di una pietra tombale, respinte dal mondo, da se stesse, dai matriarcali contesti originari, bigottamente cattolici, possessivi, gelosi, sempre padroni dei figli/fratelli maschi che vanno sventati a nozze, e che le “madri” pretendono indietro dalla forca liberatrice e giustiziera della morte.
Più sottilmente personale, forse, il percorso della Visitatrice. Anastasia che, sedicenne ha seguito la madre vilipesa a Parigi, lasciando il marito (unica aperta ribellione nel piccolo mondo di Brennan), torna a Dublino, a casa, dalla nonna, sei anni dopo e dopo la scomparsa di Mary. Non ha altro rifugio, desidera ritrovarsi – non più esule – solo nell’affetto della casa dell’infanzia e della nonna, la quale però ora non la vuole più. La figlia prodiga è solo un’ospite, deve rimpatriare altrove. La signora King non ha perdono. Non le perdona il tradimento, l’abbandono del padre, la sua perdita del figlio cui rimprovera ancora, dopo la morte di crepacuore (o di contrizione?), il matrimonio sbagliato, il taglio ombelicale, l’offesa a lei, madre/nonna, unica donna eletta nella vita di un uomo. E così l’amata casa di una Dublino più alta (nel quartiere Ranelagh degli stessi Brennan), con le sue ossessive finestre sul fuori, resta una mappa studiata nei dettagli (compreso il perenne giardino), ripercorsa con passi minuti di bambina, casa impossibile da riconquistare perché è Anastasia che se n’è una volta espulsa. Nessuna assoluzione è prescrittibile, nessun appello o ritorno, solo il fuori, e il primo albergo di Maeve Brennan in questo testo degli anni ’40. Resta il cancello chiuso della casa, soglia e chiusura, dal quale, infine, Anastasia, spettralmente discinta, intonando una nenia, rivendica, alla matriarca di gelo, la sua esistenza e resistenza dublinese. Ogni nuova lettura, ogni nuova voce, fa sprofondare nei misteri di un alfabeto (materno/paterno) che bisogna imparare poco a poco a declinare. Finché mette le giuste radici.
Maeve Brennan era così minuta, così piccola, che – scrive lei da qualche parte – se si fosse suicidata con un colpo in una strada di New York la si sarebbe potuta infilare in una “cassetta per le elemosine”. Così minuta, come le sue opere, eppure, in quel qualcosa che ha voluto sussurrare, così grande, così terribile.

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