14 Febbraio 2006
il manifesto

Con lo sguardo dell’inizio

Pubblicata da Donzelli “Hannah Arendt. La vita, le parole”, la biografia della filosofa tedesca che, insieme a quelle della scrittrice Colette e della psicoanalista Melanie Klein, compone il trittico dedicato da Julia Kristeva al “genio femminile”.
Simona Forti

Atutta prima, sembra un’inedita Kristeva l’autrice di Hannah Arendt. La vita, le parole. (Il volume, uscito per le edizioni Fayard nel `99 e ora tradotto da Donzelli – pp. VI-296, € 23, traduzione di Monica Guerra -, è parte di una trilogia intitolata “Il genio femminile”, dedicata ad Hannah Arendt, Melanie Klein e Colette). Insolito, infatti, è il tocco leggero e chiaro della scrittura con cui l’intellettuale di origine bulgara e di cultura francese dipana il racconto biografico. Ironico e paradossale può apparire l’intento del libro: esporre il pensiero di Hannah Arendt – così esplicitamente avverso alla psicoanalisi – a una sorta di sguardo “analitico”. Il risultato, per quanto teoreticamente discutibile, è comunque molto interessante. Credo, infatti, che sebbene vogliano tenersene lontano, le opere arendtiane si prestino più di quanto si possa credere a questo tipo di lettura. Il messaggio che Kristeva tacitamente invia ai suoi lettori richiama innanzitutto l’esemplarità dell’esistenza di Hannah Arendt: una vita femminile che riesce a rendere “produttivi” i paradossi del secolo che attraversa. E il gioco di specchi tra la vita di chi racconta e la vita raccontata, che senza dubbio trapela tra le righe, riesce a tenersi distante da ogni fastidioso narcisismo. Con grande finezza vengono ritratti tutti i segni della “differenza” arendtiana: il suo essere una donna, costantemente immersa in ambienti quasi esclusivamente maschili; il suo essere ebrea, ma non praticante e non sionista, studiosa appassionata di teologia cristiana e filosofia tedesca.

Per Kristeva, insomma, tutto nella vita di Hammah Arendt, dalle opere alle scelte personali, parla dal punto prospettico di un’irriducibile estraneità. Non soltanto gioca un ruolo centrale l’esilio, che la vede a Parigi negli anni Trenta e poi a New York dal 1940. Ogni episodio della sua esistenza, persino i lineamenti somatici così precocemente invecchiati, reca tracce di una lotta, la lotta tipica di chi è costretto a strapparsi da ciò che è familiare: luoghi, abitudini, lingua.

Ecco allora che la differenza tra il semiotico e il simbolico – nucleo teorico della riflessione kristeviana – trova nel dedalo dei segni offerti dall'”universo-Arendt” una possibilità d’applicazione particolarmente promettente. Questo fa del testo non un volume di semplice “esegesi” arendtiana, che si aggiungerebbe a una produzione ormai sterminata, ma un godibile esempio di come possono interagire tra loro, in maniera intelligente e misurata, narrazione e psicoanalisi, analisi testuale e critica filosofica. Alla fine, Julia Kristeva riesce davvero a trasformare la biografia di Hannah Arendt nella testimonianza di un percorso tortuoso, sofferto, contraddittorio quanto si vuole, ma “riuscito”, in quanto capace di rispondere alla chiamata del proprio daimon. Il “demone” arendtiano chiedeva già tirannicamente alla giovane ebrea di cultura tedesca di spendere l’esistenza nella ricerca del senso, nell’interminabile inseguimento di una verità: la radicale finitezza del mondo umano intessuta da una pluralità irriducibile.

In controtendenza rispetto a tante recenti interpretazioni “iperpolitiche” della filosofia arendtiana, l’autrice francese ritiene che l’interrogativo che assorbe, affatica e appassiona Hannah Arendt – dalla tesi di dottorato su Agostino a La vita della mente – sia in fondo uno solo: che cos’è diventata la vita umana; che cosa resta di essa dopo il crollo dei sistemi di riferimento normativi? Se ancora la vita ci appare il “bene ultimo”, come pensarla a partire dal fatto incontrovertibile che ciò che ha accomunato e accomuna tutti gli “animali totalitari” – quelli del passato e quelli latenti – è esattamente la pulsione a renderla superflua e a distruggerla nella sua singolarità? Sarebbe infatti questa la minaccia a fronte della quale The Human Condition, l’opera del `58, intona un inno all’unicità della vita spesa nell’azione e nella narrazione (bios), di contro a una vita biologicamente riproducubile (zoe). E’ la disperazione prodotta dalla storia del secolo, a far scommettere Hannah Arendt su un agire politico pensato come espressione e prolungamento del “miracolo della natalità”. “Donna senza figli – ci dice Julia Kristeva – la Arendt ci lascia in eredità una versione moderna (e secolarizzata?) del legame giudaico-cristiano con l’amore per la vita, attraverso il suo canto reiterato del `miracolo della nascita’, dove si coniugano la casualità dell’inizio e la libertà degli uomini di amarsi, pensare e giudicare”. E’ perché ci sono nascite – frutto della libertà di donne e di uomini, prima che prodotti delle combinazioni genetiche – che esiste la possibilità di essere liberi. La nostra libertà, infatti, – commenta Kristeva – non è soltanto una costruzione psichica, è la conseguenza dell’inizio come esperienza della rinnovabilità del senso.

Proseguendo in modo assai eterodosso il discorso arendtiano – in questo caso portandolo al limite del tradimento – l’autrice francese ribadisce qui la propria visione dello psichismo materno come luogo di passaggio dalla zoe al bios. Più in generale, presenta il legame con la madre – o meglio, l’incontro primario col femminile – come radice, nel singolo, della possibilità di “amore per il qualunque”, condizione, in ognuno, dell’apertura verso il prossimo, verso la sua stessa fragilità. E questo varrà, conclude Kristeva, almeno fino a quando la tecnica non avrà eliminato, oltre alla novità della nascita, anche la minaccia della morte. Fino ad allora, l’unico modo per la vita umana di trascendere la propria “naturalità” sarà riposto nell’immortalità della narrazione, o nella possibilità istantanea, da parte della vita singolare, di essere “riconosciuta” dal gioco plurale delle parole e degli sguardi altrui.

Proprio sull'”enigmatica essenza” del chi arendtiano si concentrano le pagine più belle e penetranti del libro. Altamente problematica appare a Kristeva la sottovalutazione dell’espressività del corpo e della psiche nella “rivelazione” dell’identità del singolo che agisce. Per eccesso di coerenza con gli assunti della filosofia heideggeriana, Hannah Arendt si precluderebbe così la strada per una compiuta decostruzione della soggettività metafisica. Come sostenere, infatti, che la psiche è abitata in ognuno dalle stesse e identiche pulsioni? Come ignorare che anche a livello del Dna il corpo biologico è altissimamente individualizzato? Certo rifiutarsi di riconoscere la singolarità della psiche e del corpo è un gesto intenzionalmente provocatorio, la cui forza dovrebbe servire a marcare la differenza tra un soggetto che può essere tale solo se e quando agisce in mezzo agli altri e un individuo che diviene inevitabilmente un oggetto ogni volta che è preso nella rete delle funzioni sociali e dei determinismi biologici.

La nettezza di questa separazione sembra attenuarsi nell’ultima opera di Hannah Arendt, La vita della mente. La parte dedicata al Pensare, soprattutto, riuscirebbe a ridare al processo del pensiero il carattere di un’esperienza incarnata e sensibile. Tuttavia una nuova insidia teorica si ripresenta nella sezione su Volere. E’ chiara, e per Kristeva anche condivisibile, la scelta nietzscheana della filosofa di contrastare una volontà, che in virtù del senso di impotenza verso il passato, si trasforma in risentimento, a sua volta foriero di appetito di vendetta e sete di dominio. Se, per sospendere l’accanimento contro il tempo, la risposta di Nietzsche è l’oblio, quella arendtiana è il perdono. Tuttavia, come è possibile per “qualcuno” perdonare, se si trova privato della sua interiorità psichica? E’ ancora una volta il medesimo desiderio arendtiano di negare la profondità della psiche a rilanciare una libertà del tutto svincolata dalla volontà e abbandonata alla dinamica plurale dell'”io posso”. Ma, si chiede polemicamente Julia Kristeva, il potere politico, quand’anche separato dal dominio, può davvero fare a meno dell’intenzionalità della volontà? Nella sua ricerca di un fondamento non soggettivistico della politica – polemico tanto nei confronti del marxismo quanto dell’esistenzialismo francese – Hannah Arendt non solo non risolve, ma nemmeno affronta queste aporie.

Secondo l’autrice francese, auspicare il perdono al posto della vendetta risentita, puntare sul legame della promessa invece che sul controllo del dominio, significa lasciar emergere, filosoficamente, le risonanze cristiane della formazione giovanile. E insieme a questa eredità, mai esplicitamente ammessa da Arendt, verrebbe alla luce la negazione – in senso propriamente analitico – su cui regge l’intero edificio arendtiano. Hannah Arendt avrebbe avuto bisogno, per continuare a vivere, ad agire e a pensare, di “attaccarsi” alla possibilità che da qualche parte – al di là forse delle singole persone concrete – e in qualche modo – al di fuori delle parentesi totalitarie – il “senso comune” rimanga “sano”. Era questa già la tesi di Lyotard che Kristeva sviluppa rintracciandone i segni palesi. “Non è la lingua tedesca che è impazzita!”; perché Hannah Arendt ripete così spesso e ansiosamente questa affermazione? Come ad esempio nella bellissima intervista con Gaus (confronta Archivio Arendt 2. Feltrinelli, 2003). Perché, per quanto abbia genialmente ripensato alla vita come alla possibilità del miracolo dell’inizio, Hannah Arendt non è riuscita ad ammettere fino in fondo che in ogni cosa – sia essa la lingua, l’umanità, la madre, il padre, ogni singolo, persino l’essere – è racchiusa la sua possibilità di non essere. Resta, tuttavia, l’unica filosofa, non a caso una donna, che ci ha offerto un pensiero dell’inizio come possibilità per ciascuno di rilanciare la questione del senso della propria vita.

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