30 Luglio 2014
la Repubblica

Elegia per Iris. La letteratura alla ricerca della santità

di Elena Stancanelli

Scrive Luisa Muraro nell’introduzione a Esistenzialisti e mistici che l’autrice, Iris Murdoch, appartiene a un ristretto gruppo di intellettuali che la seconda guerra mondiale portò a un ripensamento della nostra civiltà. Una generazione formatasi «nel cuore drammatico del secolo», composta in prevalenza di donne, Etty Hillesum, Simone Weil, Anna Maria Ortese, che raccontò, sfiorandola, la crisi della modernità.

Nata a Dublino nel 1919, Murdoch studiò prima a Oxford e poi a Cambridge, dove fu allieva di Wittgenstein. Divenne professore di filosofia, e pubblicò saggi e opere di narrativa. Il suo modello, nel coniugare le due competenze, fu l’esistenzialismo. Simone de Beauvoir, Sartre, i filosofi narratori. Ma Murdoch — si può dire? — scrive meglio, la sua scrittura è vivacissima, sorprendente, la sua lingua è leggera. Shakespeare, più Austen, più Proust e un po’ di Virginia Woolf, «the darling, dangerous woman», come la definiva la stessa Murdoch. Insieme alla raccolta di scritti filosofici, Il Saggiatore ripubblica un romanzo, L’incantatore . Ottima scelta, che ribadisce una doppia vocazione di pari intensità. Spiega ancora Muraro nell’introduzione che Murdoch usava una formula per definire il suo pensiero: c’è più di questo. «Più di quello che possiamo constatare, più di quello che le filosofie del nostro tempo ci fanno vedere, ma anche, sullo sfondo, più di quello che possiamo dirne », scrive Muraro. «C’è più di questo» è una dichiarazione di poetica, che apre alla metafisica, a Platone, l’amore per la mistica. Murdoch si invaghisce del concetto di santità (e come non pensare a Ortese…) e osa riconoscere il valore cognitivo dell’amore. «Bisogna essere buoni, senza secondi fini », scrive, «per ragioni immediate e ovvie, perché qualcuno ha fame, o perché qualcuno sta piangendo». Ma «c’è più di questo» è anche il sintomo di una smania esistenziale, che si tradurrà in una vita piena e larga.

Nella conversazione con Bryan Magee che apre la raccolta Esistenzialisti e mistici (che fu trasmessa per la prima volta alla televisione nel 1977) la scrittrice affronta la questione della narrativa, parla della diffidenza morale dei romanzieri novecenteschi impegnati a confrontarsi con un mondo franto, che non offre più la possibilità di uno scontro leale. Niente più eroi, quindi, e una nuova bruciante passione per i personaggi mediocri. Oggi il giudizio è sempre incerto, siamo quello che resta dopo la dissoluzione della religione e delle gerarchie sociali. Il grande scrittore deve diventare un giudice giusto e intelligente, che non si lascia offuscare da ossessioni personali, ma ascolta e lavora, fa muovere la storia. Ma attenzione alla fantasia, perché «la fantasia è un’astuta e potente nemica dell’immaginazione». Murdoch prova a ripensare la civiltà, come scrive Muraro, ma partendo dall’individuo, battendosi contro quella bastarda vocazione alla minuscolaggine che ha afflitto il nostro secondo Novecento. Quella tensione a non esistere, a sottrarsi, a cancellare la propria vita esauriti in una tensione nervosa, divenuta presto l’unico materiale letterario possibile.

Murdoch si sposò molto giovane con un altro scrittore, John Bayley, che le rimase accanto tutta la vita. Ed è l’autore della sua biografia, Elegia per Iris , divenuta un bel film con Kate Winslet e Judy Dench che si alternano nel ruolo della scrittrice. Scrisse decine di romanzi, visse una vita apparentemente poco avventurosa, si ammalò di Alzheimer, morì nel 1999, prima di compiere ottant’anni. Ma chi la conobbe racconta che fu una donna, oltre che una scrittrice, di impressionante potenza. David Morgan, che fu suo allievo e amante, la descrive nel libro che raccoglie il loro carteggio, With Love and Rage. Lo dicono i suoi amori, sovrapposti al matrimonio, da Elias Canetti a Raymond Queneau, oltre all’amica/amante Philippa Foot, filosofa a sua volta, che l’ha accompagnata per sessant’anni. Visse, amò, insegnò ma fu soprattutto una vera romanziera, come dimostra la lettura de L’incantatore , che ha una prefazione di Peter Cameron.

L’“incantatore” è Mischa Fox, quello di cui tutti si innamorano e che guida i destini incrociandoli, arruffandoli. Che colpisce e scompare, lasciando il laido Calvin Blick a ricomporre i cocci o gettarli definitivamente. Come tutti i seduttori, Mischa Fox appare per ultimo nella storia, preceduto dalla sua fama un po’ fascinosa e un po’ sinistra. Nessuno sa dire cose precise della sua vita: quanti anni ha, da dove viene, dove è nato, che sangue scorre nelle sue vene. Anzi, dicono che se soltanto qualcuno cerca di immaginarlo rimane paralizzato, come chi guardi negli occhi Medusa. Siamo a Londra, nel dopoguerra, in una comunità di eccentrici nullafacenti: Annette che colleziona pietre preziosissime salvo poi liberarsene gettandole nel Tamigi senza alcuna vera ragione; Nina la sarta; Peter che studia la scrittura di una civiltà sepolta sperando di riuscire a decifrarla prima che qualcuno trovi una stele bilingue rendendo i suoi sforzi inutili; John Rainborough, un fastidioso dirigente di qualcosa che compie azioni sconsiderate una dopo l’altra; Hunter, a capo di “Artemis”, una rivista femminista, e sua sorella Rose che è l’amante di due brutali fratelli polacchi. Viviamo in un mondo che sta diventando assurdo come quello di Kafka, scrive Murdoch, ma noi, a differenza degli eroi di Kafka, «non siamo rassegnati all’assurdità e soltanto nel non rassegnarci risiede la nostra possibilità di salvezza».

(la Repubblica – 30/7/2014)

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