20 Febbraio 2020
Il Quotidiano del Sud

Elena Ferrante e l’amicizia tra donne

di Franca Fortunato


Dopo il grande successo televisivo della prima parte dello sceneggiato L’Amica geniale, la Rai sta trasmettendo la seconda, Storia del nuovo cognome, tratte dai romanzi di Elena Ferrante, a cui seguono Storia di chi fugge e di chi resta e Storia della bambina perduta. Una quadrilogia, un racconto epico di una grande amicizia tra due donne, Lila ed Elena, “un grande affresco storico”, un’“istruttoria” – come ebbe a dire Ferrante – intorno alle vite e alle loro lacerazioni. Sin dal suo primo romanzo L’amore molesto (1992) Ferrante, ancora ignara del successo che avrebbe avuto in seguito con L’Amica geniale (7 milioni di lettori in tutto il mondo, tradotto in 48 lingue), scelse di non rivelare la sua identità per «il desiderio (…) che l’angolo dello scrivere resti un luogo nascosto, senza sorveglianza e urgenza di nessun tipo». Una condotta di riservatezza – scrive Tiziana de Rogatis in Elena Ferrante. Parole chiave (e/o edizioni 2018) – estranea al narcisismo di oggi. L’amicizia tra due donne, poco raccontata, sta al centro della sua narrazione, che abbraccia un lungo periodo storico che va dall’infanzia, nella misera periferia di Napoli, alla maturità delle protagoniste, dal 1950 al 2010 (dai sei ai 66 anni di entrambe), quando Lila decide di sparire senza lasciare traccia ed Elena, che se l’aspettava, decide di raccontare la loro amicizia “geniale”, “tenere a genio” come si dice a Napoli, con cui Lila chiama la sua relazione con Elena.

Uno dei luoghi comuni è che le donne non sappiano essere amiche, non sappiano stabilire una relazione leale e duratura, il che contraddice l’esperienza di tante di noi. L’Amica geniale fa i conti con questo stereotipo e lo smonta – come scrive de Rogatis – mettendo al centro del racconto un’amicizia tra due donne intensissima, un legame forte e duraturo con tutte le sue contraddizioni e turbolenze, senza alcun tentativo di esemplarità e di idealizzazione. Invidia e competizione, amore e astio, slanci ed egoismi, confessioni e segreti si amalgamano in quella relazione da cui, almeno fino all’adolescenza, entrambe traggono la forza per sopravvivere, sottraendosi ad ogni vittimismo, e per riappropriarsi nell’età adulta della propria vita, nello scenario della contestazione e del femminismo degli anni ’70. Lila ed Elena hanno salvato la loro amicizia dalla distruttività dell’invidia con l’ammirazione che in fondo hanno sempre avuto l’una per l’altra. Loro, come la mia generazione, vengono da millenni di cultura patriarcale che ha glorificato l’amicizia tra uomini e disprezzato quella tra donne. Un sottile veleno contro le relazioni tra donne, a partire da quella madre-figlia, è circolato in quella cultura che ha generato diffidenza tra donne e ingratitudine verso la madre. Se da mia madre ho imparato l’amicizia tra sorelle, dalle altre donne ho imparato a riconoscere nell’amicizia una pratica politica, che viene dall’amore femminile per la madre e trova fondamento nella fiducia, stima, affetto, riconoscenza e gratitudine tra donne. Un’amicizia, come l’amore o una relazione politica, può finire, ci si può allontanare e riavvicinare, ciò che conta è imparare a fare vivere l’amicizia oltre sé stessa, che vuol dire che l’altra non è mai la mia nemica, non le faccio la guerra, non ne parlo male, non l’aggredisco, non la insulto, non la delegittimo. Insomma salvo ciò che mi sta più a cuore, la civiltà della relazione tra donne.


(Il Quotidiano del Sud, 20 febbraio 2020)

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