12 Agosto 2015
la Repubblica

Elizabeth Strout: “Fu mamma a fare di me una scrittrice”

di Leonetta Bentivoglio


“Mia madre vive nel Maine, la terra in cui sono nata”, riferisce la scrittrice statunitense Elizabeth Strout. “Si chiama Beverly Bean Strout e nel tempo è rimasta sempre identica, cioè non affettuosa dal punto di vista fisico e severamente critica verso gli altri. Penso che questa sua attitudine mi abbia condotta, per reazione, ad applicarmi alla scrittura tentando di non giudicare troppo me stessa. È stato l’influsso più determinante che ha avuto sul mio lavoro”. Mia madre. Esiste un “mia madre” per ciascuno di noi, e non c’è persona in grado di esaurire questo tema. Rimpianti, nostalgie, contraddizioni, sacche di non detto, rancori e nodi inestricabili, come ha capito Nanni Moretti, s’intrecciano senza scampo nel rapporto con chi ci ha messo al mondo, nel segno di un’ambivalenza che in misure diverse ci riguarda tutti.

Per una narratrice di estremo spessore introspettivo come Elizabeth Strout, la madre è stata il motore di partenza del viaggio. Anche in senso tecnico: “È probabile che io sia divenuta scrittrice grazie a lei, che m’incoraggiò sin dall’infanzia “, spiega l’autrice lanciata nel 2009 dal Premio Pulitzer vinto con Olive Kitteridge , suo terzo titolo. “Quand’ero bambina mi spingeva a buttare giù in forma scritta di giorno in giorno quel che mi succedeva. Per esempio, se andavamo a comprare un paio di scarpe, voleva che io annotassi con cura l’aspetto del venditore. Accumulavo quaderni di appunti, e così ho iniziato a coltivare una visione della realtà sviluppata in termini di frasi”.

Strout aveva già firmato i romanzi Amy e Isabelle e Resta con me prima di Olive Kitteridge , affresco psicologicamente acuto di vicende umane in apparenza minime ambientate in un’oppressiva cittadina del Maine, e collegate dal trait d’union di una solida e rude professoressa di matematica. Poi è stata la volta de I ragazzi Burgess , approdato in Italia due anni fa: una parabola magistrale sull’America post-11 settembre e sulla solitudine dell’individuo nel contesto familiare. Uscirà tra breve un suo nuovo libro, Mi chiamo Lucy Barton , basato su una relazione madre-figlia. Anzi, meglio, “sulla vita di una donna che ha una madre e che è madre lei stessa”, precisa la scrittrice, sottolineando che questa coppia femminile “è il centro del racconto, che però comprende anche molte altre cose”. Dopo un’accesa battaglia “al rialzo” per la sua acquisizione, l’opera segna il passaggio della Strout dall’editore Fazi a Einaudi, che ne annuncia la traduzione italiana in primavera. Considerata un’esponente tipica della cultura Wasp (bianca, anglosassone, protestante), Elizabeth è il frutto di un milieu che non esita a definire “puritano e rigoroso nel mettere al bando l’espressione delle sofferenze personali”.

Dalle figure di madri proposte nei suoi lavori si deduce che l’intransigenza e l’autocontrollo appartenessero anche a sua madre.
“Nessuna fra le madri dei miei plot corrisponde davvero alla mia. D’altra parte non conosco abbastanza in profondità mia madre per poterne scrivere in maniera diretta, né ho voglia di scriverne per come lei è”.

Com’è, appunto? O com’era?
“Era una donna che avrebbe desiderato molto fare la scrittrice, ma non ci riuscì. Sospetto che sia stata incapace di liberarsi dall’impaccio di un’eccessiva consapevolezza di sé, operazione necessaria per l’impresa. Insegnava scrittura nei licei e nelle università ed era dura con gli studenti: in molti ne parevano terrorizzati”.

Anche la sua Olive Kitteridge è una docente, per di più d’indole assai ruvida.
“In effetti Olive può mostrare qualche analogia con mia madre, ma semplicemente non è lei. Tra i miei personaggi di madri Olive è forse quello che le si avvicina di più. Comunque mi sembra pericoloso dirlo, dato che Olive non è affatto mia madre, capisce cosa intendo?”

Il sentimento che unisce Olive e suo figlio Christopher è denso e complicato per entrambi.
“Olive adorava il proprio padre e lo vorrebbe rivedere in Christopher, caricandolo quindi di un peso insostenibile. Credo che sia una buona madre, ma ha troppi bisogni e non ce la fa ad esserlo con un andamento costante. Sa dimostrare pietà solo se non si sente troppo vicina a qualcuno, come le accade quando s’imbatte in una ragazza anoressica o in un uomo che guida sulla costa intenzionato a suicidarsi. Si può permettere di aiutarli perché a loro non è legata, mentre al figlio sì”.

Sua madre era sicura della vocazione di scrittrice della figlia?
“Ne era assolutamente certa fin dai miei primi anni e mi trasmise con fermezza questa convinzione”.

La incitava alla lettura?
“Sì. Mi fece leggere prestissimo libri per adulti, da Il buio oltre la siepe , che affrontai a otto anni, fino a Piume di piccione di John Updike. Benché molte cose io non le capissi, da quelle pagine ricavavo una sensazione tipo: wow! Ecco come ragionano gli adulti! Molto eccitante. Poi sono passata al Giovane Holden e a tutto Hemingway, uno degli autori che mi sono tuttora più cari”.

Sua madre dichiara ammirazione per i suoi romanzi?
“Quando ho cominciato a pubblicare storie, l’idea che lei le leggesse mi dava imbarazzo. In principio non faceva commenti: riguardo a Amy e Isabelle si limitò a dirmi che le era piaciuto. Poi, ogni volta che usciva un mio libro, lo leggeva velocemente per due volte di seguito, e alla fine mi diceva sempre che era meraviglioso e superiore al precedente”.

Avete attraversato periodi conflittuali?
“Disapprovò il mio trasferimento a New York negli anni Ottanta, e tra noi ci sono stati a lungo rapporti tesi. Ma in certi momenti molto difficili, mia madre mi ha sorpreso sostenendomi in modo inaspettato. Però sapevo di non poterci contare. Ora vado spesso a trovarla nel Maine e lei sembra moderatamente contenta di vedermi”.

Vi somigliate?
“Non abbiamo molto in comune. Non nella fisionomia. Tuttavia mi pare di aver ereditato da lei un sostanzioso intuito per le faccende umane e una buona percezione in questo campo”.


(la Repubblica, 12/08/2015)

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