12 Febbraio 2016
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Il culto pagano delle streghe come sopravvivenza della Società dell’Antica Europa

di Gabriella Freccero

 

“Secondo le ipotesi degli archeologi e degli storici la civiltà implica un’organizzazione politica e religiosa di tipo gerarchico, un’economia bellica. […] Io contesto la tesi che la civiltà si associ esclusivamente a società guerriere androcratiche. Il principio su cui si fonda ogni civiltà si trova al livello della sua creatività artistica, nei suoi progressi estetici, nella produzione di valori non materiali e nella garanzia della libertà individuale che rendono significativa e piacevole la vita di tutti i cittadini, nel quadro di un equilibrio di potere equamente ripartito tra i sessi”. (M. Gimbutas, La civiltà della dea, 1991)

L’antropologa inglese Margaret Murray già nel 1921 con la pubblicazione del volume The witch cult in western europe formulava l’ipotesi che alla base del culto occidentale delle streghe vi fosse una antichissima religione pagana che risaliva a tempi molto più remoti dell’insediamento indoeuropeo nel vecchio continente, al cui centro vi era l’adorazione di una dea madre e di un dio cornuto (Horned God) da parte di una congregazione femminile di sacerdotesse ed adepte con diversi gradi di iniziazione, un culto aperto a donne e uomini che credevano in una profonda connessione tra le forze della natura, gli esseri umani e le forze soprannaturali preposte al culto della rigenerazione cosmica. La Murray nasce come egittologa e al momento dell’uscita del libro ha alle spalle due decenni di pubblicazioni, in qualità di assistente del professor William Flinders Petrie, di resoconti delle campagne di scavo ad Abido e Saqqara che le diedero successo e celebrità e contribuirono a diffondere nel regno britannico l’egittomania. Mentre nel mondo accademico svolgeva un ruolo di mentore per altre donne che incoraggiava a dedicarsi alla professione archeologica era impegnata nel movimento femminista con marce, dimostrazioni e volantinaggi. Nel 1933 con Il dio delle streghe ripropone in uno stile più adatto al grande pubblico i risultati degli studi sul folclore britannico; lo scetticismo con cui viene accolta la sua teoria dal mondo accademico contrasta nettamente con il favore del pubblico che consacra lo studio della Murray alcuni decenni dopo come la base ideologica del movimento neopagano della Wicca.

La ricostruzione della Murray, per quanto ispirata da una solida conoscenza sul campo delle culture antiche che comprese dopo l’Egitto anche scavi a Malta e nell’isola di Minorca, era tuttavia priva di una concreta base documentaria; solo con il lavoro pionieristico di Marija Gimbutas prese davvero corpo l’ipotesi che in Europa si fosse perpetuata in tempi storici lunghi anzi lunghissimi e all’interno di culture rurali più che urbane una religione basata su un divino immanente centrata sul corpo femminile, la natura e i cicli cosmici di eterno rinnovamento.

La biografia di Marija Gimbutas è fondamentale per studiare il suo metodo rivoluzionario di lavoro. Nata a Vilnius in Lituania nel 1921 da due medici appassionati di tradizioni folcloriche che decisero di non iscrivere la figlia alle scuole pubbliche ma di darle un’educazione privata che comprendesse l’approfondimento dell’arte, della musica e delle tradizioni popolari, che l’occupazione russa prima e quella polacca poi avevano tentato di sradicare. Marija perse il padre a 15 anni e decise di continuare la sua opera, in particolare lo studio dei riti funerari precristiani; a 16 anni registrò personalmente più di 5000 canti popolari con cui i contadini lituani accompagnavano i lavori, le feste e gli eventi della vita. L’invasione tedesca della Lituania nel 1939 e l’anno dopo quella sovietica la convinsero a lasciare l’Europa; appena laureata con la prima figlia per una mano e la tesi nell’altra emigrò negli Stati Uniti. Iniziò la carriera universitaria alla Harvard University come traduttrice dalle lingue slave ed in seguito, riconosciuta la sua competenza nel mondo preistorico, pubblicò diversi volumi dedicati alle antiche civiltà dell’Europa centrale. Nel 1963 ottenne una cattedra presso l’Università della California a Los Angeles ove svolgerà il suo insegnamento fino al 1989 come titolare della cattedra di Archeologia Europea e Studi Indoeuropei.

Durante le campagne di scavo condotte tra il 1968 ed il 1980 nei siti neolitici lungo il bacino del Danubio, nella Grecia nordorientale, in Macedonia, Bosnia e nell’Italia meridionale rinvenne più di 2000 manufatti databili tra il 6000 e il 3000 a.c. tra ceramiche dipinte, modellini di templi, altari, vasellame per le offerte; più del 90% degli oggetti erano statuine antropomorfe femminili, spesso con maschere animali sulla testa (uccello, orso, serpente, rana), decorate con un complesso sistema simbolico a spirali, zigzag, cerchi, a X oppure a onde. Si trattava comunque di reperti totalmente diversi da quelli rinvenuti fino ad allora nelle sepolture indoeuropee; gli stessi siti individuati d’altronde presentavano ubicazione, insediamento, resti delle abitazioni totalmente diversi da quelli di epoche successive. La Gimbutas si rese quindi conto che tali materiali non erano da considerare poco più che curiosità della storia dell’arte, da immagazzinare nei depositi dei musei senza alcun ordine né classificazione, ma che erano vere e proprie chiavi utili a riportare alla luce una civiltà europea tanto remota da essere ormai totalmente dimenticata. In assenza di una qualsiasi chiave di lettura già codificata costruì un suo metodo di lavoro cui darà il nome di archeomitologia e nominò questa perduta civiltà Società dell’Antica Europa.

Per l’analisi dei reperti sviluppò un approccio fortemente interdisciplinare utilizzando gli strumenti della linguistica, dell’ archeologia, dell’ etnologia, della paleografia che lei padroneggiava dai tempi delle sue precoci ricerche sul folclore lituano, in controtendenza rispetto alla eccessiva specializzazione del sistema accademico moderno. Partendo dall’assunto che le cosmologie sacre rappresentano il centro di tutte le società antiche e che le credenze fortemente radicate sono soggette a trasformazioni lentissime e tendono a riaffiorare come substrato culturale anche in tempi in cui risultano ufficialmente abbandonate, le immagini non rimangono mute ma forniscono la testimonianza di contesti sociali viventi, il loro studio va fatto per raggruppamenti a seconda dell’intima corenza oppure per classi di significato e di occupazione di un ben specifico posto nell’immaginario sacro dei popoli che le crearono.

Marija Gimbutas vide così riaffiorare nei misteriosi manufatti disseppelliti in Europa Centrale i testimoni di un sistema di credenze estremamente familiare, legato all’adorazione della terra come madre fonte di ricchezze e nutrimento inesauribili che i contadini baciavano all’alba andando ai campi e al tramonto ritornando dal lavoro. L’idea è riproposta dalle innumerevoli rappresentazioni femminili della Dea come contenitore, recipiente, brocca, utensile per conservare cibi e dalle statuine della dea gravida della vegetazione. Le maschere animali che coprono il viso dell’idolo fanno riferimento alla forma immanente dell’eterno ciclo del rinnovamento: il viso di uccello evoca le migrazioni dei volatili che partendo e ritornando secondo cicli ben precisi scandiscono il succedersi delle stagioni; la dea serpente accovacciata in posizione yoga con le estremità avvolte in spirali è un potente simbolo di rigenerazione suggerito dal cambiamento della pelle dell’animale; l’orsa suggerisce con il letargo invernale e la riapparizione primaverile con i piccoli il simbolo della nuova vita ed anche la presenza divina durante il parto (credenza trasmessa anche alla Grecia storica). Le immagini della Dea a postura rigida o a forma di uccello rapace dai grandi occhi aperti nella notte testimoniano che da quelle popolazioni la morte era venerata al pari della vita, come un passaggio senza il quale il ciclo eterno vita-morte-rigenerazione sarebbe cessato. “Il concetto di rigenerazione e rinnovamento è forse il più sorprendente e drammatico tema che percepiamo in questo simbolismo” scrisse la Gimbutas nel 1989.

Il nome di dea che l’archeologa attribuì alle statuine scoperte suscitò la perplessità degli studiosi abituati a riconoscere come tali ben individuabili figure dei pantheon divini dei tempi storici e timorosi che si intendesse rinnovare l’interesse per un generico culto della fertilità ed un matriarcato mitico quanto indimostrabile. Gimbutas sostiene che il termine dea vuole esattamente intendere il contrario, cioè che la simbologia femminile presiede agli aspetti tanto creativi che distruttivi dei cicli cosmici, andando ben al di là del puro culto della fertilità; la dea è tale in quanto distrugge tanto quanto crea: è la dea avvoltoio che scarnifica le carni dei cadaveri per finire il lavoro della distruzione e rimettere in circolazione il nutrimento, ma è anche la dea della vegetazione nel cui impasto di terracotta sono ritrovati i semi di cereali che garantiscono la sopravvivenza degli umani.

Dagli scavi sono venuti alla luce resti di villaggi che fanno pensare ad una struttura sociale piuttosto egualitaria. Non si vedono abitazioni più ricche ed altre più povere, appaiono invece tutte addossate le une alle altre come alveari con i morti seppelliti al di sotto per consentire agli antenati di continuare a proteggere la famiglia e la casa. Il tempio non risulta in posizione dominante o appartata rispetto alle case ma si trovava in mezzo ad esse con dimensioni appena di poco più grandi; dai modellini di templi in terracotta e dagli scavi emerge una struttura templare a due piani: al piano terra grandi forni per cuocere le offerte a base di grano, torte e focacce oppure il vasellame cultuale, al piano superiore si trovavano altari, oggetti sacri, simboli di rigenerazione come soli, serpenti, uova, spirali, centri concentrici, con resti di pittura alle pareti in ocra rossa simbolo di vita; dai modellini in ceramica si riconoscono tamburelli, troni sedili, tavoli e sedie che fanno pensare ai templi come ritrovi in cui la musica avesse un ruolo importante. Nelle sepolture non sono state rinvenute armi nè resti di individui che facciano pensare a re o principi per la ricchezza del corredo come nelle successive inumazioni indoeuropee; le sepolture piu’ ricche di oggetti cultuali sono di donne, spesso anziane, quelle maschili hanno corredi di oggetti legati al lavoro come asce di pietra per lavorare i metalli o di conchiglie che fanno pensare al commercio con paesi lontani, in entrambe le sepolture si trovano attrezzi per frantumare il grano, facendo pensare alla condivisione dei lavori destinati alla sopravvivenza del gruppo tra i sessi.

Dal quinto millennio a.c. iniziano a trovarsi negli stessi siti le enormi sepolture a tumulo il cui nome indoeuropeo è Kurgan, col quale la Gimbutas denomina le popolazioni centro europee che mano a mano sostituirono la civiltà dell’Antica Europa. Nelle grandi tombe i corredi funerari splendidi di potenti guerrieri a cavallo suggeriscono la comparsa di nuovi valori: il culto per la ricchezza, la gerarchizzazione della società, la svalutazione del femminile, l’esaltazione della forza e delle armi. Alla fine del terzo millennio a.c. il passaggio è completato.

I risultati di decenni di studi sul territorio europeo sono contenuti nell’ultima grande opera di Gimbutas La civiltà della dea che in Italia appare in traduzione solo tra il 2012 e il 2013 per i tipi di Stampa Alternativa di Viterbo. Anna Schgraffer recensendo l’uscita del primo volume nel 2012 sottolinea che la pubblicazione non a caso avviene ad opera di una casa editrice che non si chiama “Stampa di Regime o Taci e Acconsenti”; evidenziandone i contenuti rivoluzionari fa notare come la disponibiltà al pubblico italiano solo dopo ben 21 anni dall’edizione originale segnali il ritardo culturale del nostro paese e la miopia della classe intellettuale italiana (editori compresi) rimasta sostanzialmente indifferente a ciò che nelle accademie non è materiale più che accreditato in quanto innocuo e non certo innovativo.

La stessa Gimbutas si era d’altronde meravigliata che le pubblicazioni delle sue prime ricerche negli anni ‘70 e ‘80 piuttosto che dagli studiosi e dai colleghi venissero acquistate da donne, spesso non specialiste della sua materia ma che intravedevano in questa accurata ricostruzione di un passato tanto diverso dalla loro condizione attuale una formidabile possibilità di ispirazione culturale e di critica al patriarcato, non più condizione storica immutabile ma databile storicamente.

Mariagrazia Pelaia, curatrice dell’edizione italiana de La civiltà della dea, in un intervento sulla rivista Le simplegadi dell’Università di Udine, attribuisce all’archeologa lituana Gimbutas il merito di aver dato nome a materiali e simboli totalmente incomprensibili ai nostri tempi poiché andato distrutto l’universo di significato che essi esprimevano; quando conia le espressioni Dea Uccello, Dea Avvoltoio, Dea Civetta oppure Dea Occhio, Dea della morte e rigenerazione, Dea gravida della vegetazione, o lo stesso nome di Antica Europa, rinomina interamente un mondo perduto e lo rimette al mondo; condizione assai simile a quella del movimento femminista quando si trovò a costruire da capo un soggetto femminile perduto senza avere parole per significarlo. Gli stessi termini di matrismo o società matristica furono inventati e adottati dalla Gimbutas al posto di matriarcato, per rimarcare che nelle società da lei scoperte non vigeva l’opposto del patriarcato, cioè il dominio delle donne sugli uomini.

Gimbutas inoltre scopre una vera e propria forma di scrittura sui reperti neolitici, che oltre ai simboli già menzionati di zig zag, spirali, cerchi e losanghe in alcuni casi presentano un vero script di simboli collegati in stringhe o grappoli a formare evidentemente una paleo-scrittura ancora indecifrata. Interessanti somiglianze sono state evidenziate con la scrittura antico-cipriota e antico-cretese per cui ancora manca una decodificazione; la nascita della scrittura parrebbe pertanto non risalire al mondo mesopotamico, ma al vecchio continente nascendo sotto una spinta religiosa anziché per scopi archivistici e burocratici come ci è stato insegnato.

A Marjia Gimbutas va riconosciuta non soltanto la rivoluzionaria opera scientifica ma anche il grande esempio di fedeltà al suo sguardo femminile, che si è tradotto nella capacità di fare ricerca tenendo insieme tutta se stessa, il mondo degli affetti con lo spirito scientifico, come ha dimostrato riconoscendo valore e verità alle parole della madre, nel modo in cui fanno per istinto le bambine, attendibilità ai loro racconti; proprio quei racconti cui spesso agli studiosi viene chiesto di rinunciare in nome di una obbiettività razionale senza radici, senza sesso e quindi anche senza fondamento.


(www.eredibibliotecadonne.wordpress.com, 12 febbraio 2016)

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