3 Giugno 2009
la Repubblica

Il noir femminista giapponese

Tommaso Pincio
Anche il Giappone ha una regina del delitto. Il suo nome è Natsuo Kirino, o per meglio dire è così che si fa chiamare. Lo pseudonimo è stato per lei una scelta quasi obbligata. All’ inizio della sua carriera si nascondeva addirittura dietro un nome maschile per evitare di essere censurata. Una dozzina d’ anni fa suscitò un accesso dibattito con Le quattro casalinghe di Tokyo, (Neri Pozza) sanguinaria epopea di un’ operaia che, colta da un raptus, strangola il marito e convince tre colleghe ad aiutarla a disfarsi del cadavere. Gli uomini giapponesi si sentirono minacciati. Un giornalista radiofonico si rifiutò persino di intervistarla. «Stentavano a credere che una donna potesse scrivere un romanzo tanto aggressivo», ricorda l’ autrice. «E ancor di più li scioccava che la donna in questione fosse sposata e madre di una bambina. L’ avesse scritto un uomo nessuno si sarebbe stupito, lo avrebbero considerato pura fiction. Ma siccome si trattava di una donnae lo stile era piuttosto realistico, i lettori ne furono sconvolti». In effetti, parlare di crime story è riduttivo. Qualcuno ha allora proposto un’ etichetta alternativa: noir femminista. Ma la verità è che Natsuo Kirino si è inventata un genere tutto suo per scandagliare la faccia nascosta del Giappone contemporaneo. Prima di iniziare un romanzo si reca nel quartiere in cui ha deciso di ambientarlo, apre i cassonetti della spazzatura e studia quel che la gente butta via. La sua scrittura cruda e ipnotica si nutre di odori e dettagli; fotografa l’ esistenza di individui messi a dura prova da un sistema che chiede tutto e concede pochissimo, soprattutto alle donne, considerate, a seconda dei casi, macchine da figli, mano d’ opera a basso costo, carne di cui approfittare. Costrette in un angolo, però, anche le creature più docili e sottomesse possono fare cose impensabili. Ecco allora assassini che non ti aspetti: casalinghe depresse, segretarie molestate, liceali incattivite. Liceali sì, perché la violenza dipinta dai media sarà pure una metafora della frustrazione, ma il numero dei crimini orribili aumenta e l’ età di chi li commette è sempre più bassa. «Adesso sono i ragazzinia uccidere. Gli adulti giapponesi sono sbalorditi e non sanno che fare. È la realtà in cui viviamo». E Real world (Neri Pozza, pagg. 270, euro 15,50) è per l’ appunto il titolo del romanzo in cui la scrittrice fa i conti con gli adolescenti di oggi e le loro ansie. Il bisogno di sentirsi veri e autentici. L’ imperativo di diventare qualcuno in una società che ti impone di restare nei ranghi di una massa anonima e indistinta. «Il senso di crisi che ci affligge è qualcosa che nemmeno mia madre può comprendere», confessa Toshiko. Le sue sono le paure di una ragazza che sta per terminare il liceo. L’ età adulta è ormai dietro l’ angolo, e deve decidere cosa fare della sua vita. Iscriversi all’ università o trovare un lavoro? Sposarsi, restare vergine o amoreggiare? Ma di tutto ciò non vuole saperne. Lei e le sue amiche si sono date un nome fasullo che forniscono ogni qualvolta devono compilare un modulo. Lo fanno per non «finire in qualche database, tenute sotto controllo dal mondo degli adulti», che vedono come un pianeta ostile abitato da creature aliene e rapaci, un branco di squali pronto a divorale in ogni senso, fisico e morale, sessuale ed economico. Così, quando un vicino di casa di Toshiko, pure lui adolescente, fracassa senza motivo apparente la testa della madre con una mazza da baseball, le quattro ragazze anziché inorridire simpatizzano con l’ imberbe omicida e cercano di proteggerlo dalla polizia. Una di loro, l’ intellettuale del gruppo, medita addirittura di scrivere una sorta di manifesto avanguardista che esalti l’ insano gesto. Privo di qualunque possibilità di riscatto o redenzione, nichilista fino al midollo, Real world è narrato dalla viva voce dei suoi smarriti protagonisti, ognuno dei quali rivela un lato sporco che ha evitato di confidare agli amici, condannandosi a una solitudine senza sbocchi. Alla fine, nel loro coalizzarsi contro gli adulti, i ragazzi di Natsuo Kirino si ritrovano segretamente opposti l’ uno all’ altro, coinvolti senza volerlo in un gioco al massacro non troppo lontano da quello del controverso romanzo di Koushun Takami cui l’ autrice tributa un significativo cammeo. Uscito in Giappone nel 1999 (e tradotto ora per Mondadori, pag. 600, euro 9) Battle Royale è un tenebroso incrocio tra Il signore delle mosche e 1984. Vi si immagina una tirannica Repubblica della Grande Asia dell’ Est nata dalle ceneri della seconda guerra mondiale. A capo del regime poliziesco si trova l’ Egemone, un grande fratello dagli occhi a mandorla che ha ideato un Programma speciale allo scopo di reprimere il bullismo. Ogni anno una classe di studenti quindicenni viene confinata in un’ isola deserta. I ragazzi dovranno uccidersi a vicenda finché non rimarrà un solo sopravvissuto. Com’ è facile intuire, la malsana competizione non ottiene i risultati sperati poiché fa della violenza uno spettacolo e del vincitore una celebrità. Un destino analogo è toccato in fondo pure alle intenzioni di Takami. Pensava di fustigare i valori nefasti di una società che educa alla competizione più feroce, ma ha finito col partorite un cult assoluto, il libro più venduto di tutti i tempi in Giappone (tra i successi del genere anche quello di Kenzo Kitakata, autore di Tokio noir, pubblicato da Newton Compton). Del resto, questo è il dilemma: è o non è un paese per giovani? E non vale soltanto per il sol levante, ma per tutti i paesi del mondo reale.

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