6 Novembre 2010
Alias

Inettitudine fin-de-siècle: Némirovsky 1926

 


Graziella Pulce
Quando pubblicò per la prima volta Le Malentendu nel 1926, Irène Némirovsky aveva 23 anni e la sua carriera era ancora tutta da costruire, tuttavia le prime pagine rivelano il passo sicuro della scrittrice che sa quello che vuole. Il romanzo (II malinteso, trad. di Marina Di Leo, con una nota di Olivier Philipponat, Adelphi, pp. 190, € 12,00), nel quale si alternano il punto di vista maschile e quello femminile, si apre con la presentazione indiretta dì Yves, giovane pigro e squattrinato in vacanza nella stessa località dov’era stato da bambino. Chi legge con attenzione i primi capitoli ha già tutto il personaggio nelle sue mani: si tratta di un giovane uomo che ha vissuto gli orrori della guerra e ora, alle soglie della maturità, s’incupisce di fronte ai segni del tempo sul paesaggio e sul suo volto, e che tuttavia è pronto a dimenticare le proprie malinconie se i suoi sensi percepiscono un elemento di novità, sia esso il profumo di cannella e di aranci in fiore o le grazie fresche di una giovane signora. Vòlto alla contemplazione della vita e sprovvisto della volontà per dirigerla, Yves incarna appieno il ruolo dell’inetto fin-de- siede, un borghese pieno di contraddizioni dai mezzi inadeguati che sfiora il bel mondo ma è inevitabilmente condannato a ricadere nel suo stato. Un grande amore ha bisogno dei palpiti del cuore almeno quanto di un patrimonio solido, giacché le frasi appassionate e i biglietti da cento franchi si fanno strada con pari forza nel cuore delle donne frivole abituate al lusso. L’altro personaggio è Denise, la giovane signora che, forte di un matrimonio solido, intraprende una relazione adulterina con l’uomo di estrazione sociale inferiore. Mentre di lui sappiamo tutto da subito, di Denise scopriamo a poco a poco abitudini, piaceri e debolezze. Il suo identikit risponde al personaggio tipico della Némirovsky: una star dell’alta società parigina che durante il giorno alterna le visite alla modista, alle amiche e all’amante, e di notte sfoggia diamanti e merletti, e un viso sul quale il tempo sembra non avere presa. Una donna siffatta ha bisogno di un consesso di altre donne su cui trionfare e di uno stuolo dì ammiratori di cui disporre e ne ha bisogno come e più dello specchio consultato come un oracolo ogni mattina e ogni mattina pronto a confermare il suo verdetto. Se fosse più dura e inaccessibile sarebbe una femme fatale, ma piange troppo sovente e talvolta dimentica di incipriarsi il naso. La Némirovsky sa rappresentare in scorcio il momento critico di una società ridotta a fragile biscuit e incrinata definitivamente dalla Grande Guerra. La sua mano spoglia di ogni incanto i personaggi, soprattutto quelli femminili, cui è stata strappata la corona della giovinezza e della felicità. Un’operazione letteraria che Federico De Roberto avrebbe classificato come ‘documento umano’, anatomia crudele dell’amore e delle passioni per metterne a nudo la fisiologia. Lo smoking, la cipria e i cappelli coprono personaggi deboli, epigoni sfiniti di Bourget: i due amanti sfiorano il suicidio ma se ne ritraggono prudentemente per rientrare nel loro ruolo con il blasone della malinconia negli occhi.

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