22 Luglio 2016
LeggereDonna n° 171

Intervista a Marina Santini e Luciana Tavernini

di Laura Modini

 

Ho in mano il libro Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua (Il Poligrafo, Padova 2015): la foto di copertina, un bel b/n mi riporta agli anni ’70, a quel gesto mostrato dalle donne nelle piazze di tutto il mondo. Il titolo dice di una relazione forte e spesso contrastata, di rapporti, di un cambiamento radicale che è ancora in atto. Le autrici Luciana Tavernini e Marina Santini si richiamano esplicitamente al femminismo, che proprio detto da una mia giovanissima amica, ancor oggi si muove, anche se con minor visibilità.

 

Domando quindi alle due curatrici perché molte giovani donne, pur dicendo di essere un po’ femministe, non amano più questa parola, rifiutandola molto spesso.

 

Chi rifiuta la parola ‘femminismo’ forse non si rende conto che l’emancipazione individuale può essere un guscio vuoto, se non riconosciamo quello che le donne venute prima di noi hanno fatto nel passato, o che fanno nel presente, nella difesa dei diritti tradizionali e soprattutto per il nostro esistere nel mondo a partire da noi stesse. Abbiamo voluto indicare nel sottotitolo che è stata una rivoluzione che ci ha cambiate e non è finita: la libertà non è data una volta per tutte. Il gesto femminista dell’immagine degli anni ’70, che abbiamo scelto per la copertina, è ancora un gesto dirompente, scabroso, nonostante la rivoluzione sessuale abbia fatto il suo corso e ci sia l’indipendenza economica dagli uomini. Quelle mani unite hanno reso visibile, l’invisibile. Ed è stato ostentato nelle piazze. Un libro fotografico curato da Ilaria Bussoni e Raffaella Perna, Il gesto femminista (DeriveApprodi 2014), ne ripercorre la simbologia nella storia di liberazione delle donne. Non è stato facile farlo accettare alla casa editrice. Noi l’abbiamo voluto e giocato con consapevolezza e ironia.

 

Ultimamente si è riaperto il dibattito sul femminismo con articoli che da un lato non negano il cambiamento: sempre più donne controllano la propria capacità riproduttiva, sorpassano i maschi negli studi, hanno progetti e non considerano la loro vita un destino, vanno e sono dappertutto e alcune star si dichiarano femministe. Dall’altro, misurando la realizzazione femminile sui parametri maschili, sottolineano un insuccesso, senza mostrare che molte donne vogliono altro. Cosa avete voluto fare con il vostro libro?

 

Come hai sottolineato tu, è in atto un tentativo di sostituire una rappresentazione del femminismo che non corrisponde all’esperienza di molte di noi. Il pericolo maggiore è per chi non lo ha vissuto, perché più giovane o perché seguiva altre strade. Queste narrazioni impediscono di vedere le scoperte e le pratiche che hanno permesso di trasformarci e trasformare il mondo. Noi due non volevamo però né darne un’immagine esaustiva, né farne un monumento che di solito si fa per i morti. Abbiamo voluto raccontare le lotte, le pratiche e le scoperte originali che hanno portato cambiamenti positivi nelle vite di donne e uomini.

 

Il libro è molto particolare, a pagine a sfondo bianco si alternano pagine a sfondo grigio, le foto sono numerose e pur piccole sono estremamente definite e molto belle. L’indice elenca numerosissimi contributi. Quali invenzioni avete messo in atto per costruire questa narrazione storica che si muove su diversi registri?

 

Il libro è un percorso intrecciato che utilizza diverse forme espressive.

Abbiamo scelto, per il racconto di base che si sviluppa in quattro parti, una narrazione soggettiva che mostra una relazione anche conflittuale, che poi si apre ad altre relazioni.

Si inizia con una lettera di una madre a sua figlia, che sbuffando le aveva replicato: “Ma doveva proprio capitarmi una madre femminista?” Continua poi con il diario di una situazione a due e quindi di un incontro in un luogo pubblico e termina con una lettera, questa volta della figlia alla madre. La narrazione, che costituisce il filo conduttore, lega concetti e parole sempre a situazioni concrete: non volevamo che risultasse ideologica.

In parallelo, come in uno spartito, si intrecciano 58 testimonianze scritte dalle stesse donne che le firmano e da qualche uomo. È stato un lavoro lungo perché ogni testo è stato costruito attraverso un dialogo con noi due sia prima della stesura sia man mano col procedere della scrittura. Abbiamo chiesto di raccontare un episodio, una situazione che potesse rendere l’esperienza del proprio femminismo, che mettesse in luce un guadagno, senza negare difficoltà e conflitti. Abbiamo insistito sulla brevità e sulla concretezza, collegando ciascuna testimonianza a una parola chiave o a un concetto della narrazione fatta da noi due. Così troviamo femministe “storiche” come, ad esempio, Lea Melandri, Luisa Muraro, Lia Cigarini insieme a sindacaliste, insegnanti, artiste…donne giovani e meno giovani. Raccontano di come nasce uno slogan, di come ci si inventa il lavoro partendo da una passione, delle lotte degli anni Settanta, riflettono sulla maternità, sull’educazione, sulla condizione delle migranti… Le 100 fotografie sono inserite nel testo e a corredo delle testimonianze. Sono quasi tutte inedite, scelte per superare l’idea di un femminismo solo di piazza. Le didascalie poi ampliano il racconto e consentono ulteriori approfondimenti. Abbiamo anche voluto inserire riferimenti ad altre epoche in un continuo andirivieni tra presente e passato, perché sempre ci sono state donne libere che hanno mantenuto la capacità di pensare, agire e dirsi a partire da sé senza farsi rinchiudere nelle regole del patriarcato.

 

Ho trovato interessanti e stimolanti i titoli dei vari capitoli: tutti con riferimento a testi classici del femminismo. Come mai questa scelta?

 

Innanzi tutto sono stati significativi per noi. E poi rimandano al contenuto del capitolo. Il primo Le parole per dirlo propone parole risignificate o inventate per dire l’esperienza femminile, come estraneità, fine della doppia militanza, autocoscienza e tante altre; il secondo Noi e il nostro corpo parla della diversità tra liberazione e libertà sessuale, della contraccezione, del divorzio, del dibattito sull’eliminazione del reato d’aborto con le riflessioni su autodeterminazione, depenalizzazione o legge …; il terzo Le tre ghinee ci porta nei luoghi delle donne, dai collettivi alle comuni, alle imprese femminili, all’arte, cinema, teatro…; il quarto Immagina che il lavoro affronta i temi della conciliazione, chiamata allora “camomilla del vero male”, del salario al lavoro domestico, del “doppio sì” alla maternità e al lavoro pagato, ci parla dell’ esperienza delle “150 ore” ad esempio per le casalinghe di Milano e per le metalmeccaniche e le tessili di Brescia, della femminilizzazione della scuola che ha portato alla pedagogia della differenza e all’autoriforma…

 

Mi rendo conto che senza una rigorosa ricerca documentale non sarebbe stata possibile la ricchezza e precisione delle informazioni di cui il libro è abbondante, ma ho notato che non utilizzate mai le note che io apprezzo moltissimo. La cronologia sembra non così fondamentale, eppure è un libro di storia ma sembra che vada oltre, fino a sembrare un’opera letteraria, e infatti anche così io l’ho apprezzata. Come avete proceduto nella stesura del libro.

 

Ci occupiamo di insegnamento della storia e di ricerca da oltre trent’anni in una comunità femminile fondata da Marirì Martinengo, in cui sperimentiamo diversi modi per rispondere al bisogno di storia che gli esseri umani hanno, a partire proprio da ciò che di nuovo i desideri e la visibilità delle donne mettono in gioco. Il libro va in questa direzione. Anche nel modo di scrivere.

La scrittura infatti è stata a quattro mani, nessun pezzo è stato scritto dall’una o dall’altra, e ogni episodio che abbiamo inserito è documentabile. Per noi lavorare insieme è stato un piacere, durato sette anni, che continua tuttora per le varie iniziative di confronto sul libro. Il piacere di lavorare in due richiama la relazione con la madre, che per le donne è fondante essendo dello stesso sesso.

In varie fasi della stesura abbiamo sottoposto il testo alla lettura di amiche e di giovani, di donne e uomini: e delle loro indicazioni abbiamo fatto tesoro. Ne diamo in parte conto nei ringraziamenti.

E così, come abbiamo già detto, vi è stata una forte relazione anche nella scrittura delle testimonianze. Per alcune è stato un modo per ripensare e trovare una modalità di raccontare che poi ha dato loro la capacità di dirsi in altri contesti. La ricerca delle fotografie, non facile perché allora le foto erano rare, è stata frutto della fiducia che abbiamo creato e di molte scelte condivise. Abbiamo scelto di segnalare, nelle didascalie, solo le persone nominate nel libro, così come nella bibliografia abbiamo indicato solo i libri citati. Non abbiamo voluto fare un censimento, del resto impossibile per un movimento che ha coinvolto e coinvolge milioni di donne. Abbiamo voluto creare delle aperture per una ricerca personale, facilitata oggi dalle possibilità offerte dalla rete.

 

Certamente la scrittura usata è soggettiva, a più voci, in cui le relazioni sono vive, intrecciate, mettendo sempre in gioco la soggettività di chi legge. Mi fa pensare che anch’io mi sento parte di questa storia. Ho scoperto, regalando questo vostro libro ad alcune mie amiche che mette in moto un desiderio di ripensare alla propria storia facendone scaturire la voglia di narrarla. E allora chiedo che cosa vi ha spinto a questa bellissima narrazione?

 

Noi non siamo indicate come autrici ma come curatrici: nel nostro caso la cura era un’attenzione a far emergere l’inaspettato, a lasciar spazio alla presenza dell’altra con la sua unicità, senza sovrapporre la nostra voce. Volevamo si mostrassero la molteplicità delle esperienze e gli intrecci relazionali.

L’idea del libro è nata dopo la partecipazione di Marina al gruppo che ha prodotto la mostra Noi utopia delle donne di ieri, memoria delle donne di domani su 40 anni del movimento delle donne a Milano. Marina nelle sue classi non parlava esplicitamente di femminismo, lo esprimeva nell’attenzione alla singolarità di ciascuno e ciascuna, invitando a partire da sé, creando attività con le sue colleghe, portando testi di scrittrici e filosofe, e tanto altro. Le sue allieve ed allievi, dopo aver visto la mostra hanno cominciato a chiedere e a esprimere il desiderio di conoscere. Un ragazzo stupito ha detto: “Ne avete fatta di strada!” La mostra è stata l’oggetto di mediazione che ha aperto un’interlocuzione e il libro vuole appunto permettere questo.

 

(LeggereDonna n° 171 Aprile-maggio-giugno 2016)

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